Investimenti & Sviluppo (IES) 10% di Buy Back sul flottante e Novità (12 lettori)

Gico

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giiiiiiiicccoooooooooooooooooooo ......

:eek: :D

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Gico

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giiiiiiiicccoooooooooooooooooooo ......

:eek: :D


parafrasando...
"i miei" mi han detto che mi tagliano i viveri prima, e i coco' dopo
se questa benedetta societa' non si mette a fare qualcosa di serio...
piano industriale urge, data necessita' di far palanca..altrimenti giro il tutto in IESM...:D:D
 

DDUKE

Viva i popoli, Viva le Nazioni europee, fanculo U€
Tema: descrivete la giornata tipo degli amministratori e soci di I&S, con relativo bilancio famigliare ovvero "da dove vengono gli stipendi se non lavorano".

Si eviti di limitarsi a dire "dai soldi degli azionisti" perchè non soddisferebbe la 2° ovvero soci, vedi Euroinvest.

Avete 4 ore di tempo, voto max 100/100, potete iniziare.

PS: chi copia sarà trombato x la 2° volta :)
 

Gico

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Tema: descrivete la giornata tipo degli amministratori e soci di I&S, con relativo bilancio famigliare ovvero "da dove vengono gli stipendi se non lavorano".

Si eviti di limitarsi a dire "dai soldi degli azionisti" perchè non soddisferebbe la 2° ovvero soci, vedi Euroinvest.

Avete 4 ore di tempo, voto max 100/100, potete iniziare.

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Tema: Giornata Lavorativa Tipo di mister X


ore 9.25: partenza con auto aziendale con autista personale
ore 9.35: arrivo in ufficio (maledetto traffico)
ore 9.45: accensione pc e lettura e-mails
ore 10.15: pausa caffe'
ore 10.30: lettura quotidiani: gazzetta, corsport
ore 11: conference call con SIM, tema: "come butta?"
ore 12.20: pranzo di lavoro in C.so San Damiano con potenziali investitori Nb:ricordarsi nota spese da scaricare
ore 15: ritorno in ufficio, conference call con SIM, tema "che si dice?"
ore 16.15-16.34: riunione nell'ufficio di gabinetto per meetings con argomentazioni varie (Kaka' lascia o raddoppia, Mourino che pirl@, eventualmente interrotti da qualche telefonata dalla SIM)
ore 17: telefonata di qualche investitore inca@@@@
ore 17.30: telefonata con qualche altro investitore di rilievo
Tema: "com'e' andata oggi?"

ore 17.42: tutti in corso Monforte per aperitivo serale
Dopo una dura giornata di lavoro, aiuta a dimenticare e allentare lo stress.
 

vdb61

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Tema: Giornata Lavorativa Tipo di mister X


ore 9.25: partenza con auto aziendale con autista personale
ore 9.35: arrivo in ufficio (maledetto traffico)
ore 9.45: accensione pc e lettura e-mails
ore 10.15: pausa caffe'
ore 10.30: lettura quotidiani: gazzetta, corsport
ore 11: conference call con SIM, tema: "come butta?"
ore 12.20: pranzo di lavoro in C.so San Damiano con potenziali investitori Nb:ricordarsi nota spese da scaricare
ore 15: ritorno in ufficio, conference call con SIM, tema "che si dice?"
ore 16.15-16.34: riunione nell'ufficio di gabinetto per meetings con argomentazioni varie (Kaka' lascia o raddoppia, Mourino che pirl@, eventualmente interrotti da qualche telefonata dalla SIM)
ore 17: telefonata di qualche investitore inca@@@@
ore 17.30: telefonata con qualche altro investitore di rilievo
Tema: "com'e' andata oggi?"

ore 17.42: tutti in corso Monforte per aperitivo serale
Dopo una dura giornata di lavoro, aiuta a dimenticare e allentare lo stress.

:V:ciao:
 

Lorenzo P

Nuovo forumer
Gico ha scritto:
ore 17.42: tutti in corso Monforte per aperitivo serale
Dopo una dura giornata di lavoro, aiuta a dimenticare e allentare lo stress.

hai dimenticato una cosa:

ore 19.30 cena con i sorridenti :wall: piccoli azionisti Ies in un lussuoso ristorante di Via Montenapoleone! sempre a carico dei piccoli azionisti, of course. :(

ciao Gì, ciao Dduke, ciao a tutti :)
 

vdb61

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Il disastro della finanza globale

La storia degli ultimi trent’anni insegna: le recessioni peggiori dopo le crisi bancarie

Quale sarà la durata della recessione innescata dalla crisi bancaria globale? Quante persone saranno licenziate? Torneremo agli anni Trenta, quando la recessione degenerò nella Grande Depressione? Fin dove si spingerà la mano pubblica nel turare le falle della finanza privata già colpita dal suo primo suicidio eccellente, quello del miliardario tedesco Adolf Merckle che, travolto dalle speculazioni fallite, si è gettato sotto un treno? Come ne usciremo, alla fine? Nell’ottobre scorso, la Banca d’Inghilterra aveva stimato un impegno di 7 mila miliardi di dollari a carico dei Tesori nazionali per impedire il tracollo dei sistemi bancari. A novembre, soltanto gli Usa hanno aggiunto nuovi programmi d’acquisto di mutui tossici e obbligazioni illiquide per 800 miliardi da eseguire quest’anno. Il 13 gennaio, intervenendo alla London School of Economics, il governatore della Federal Reserve, Ben Bernanke, ha avvertito che i costi dei salvataggi bancari in giro per il mondo sono destinati a crescere ancora. Nell’Occidente avanzato, produzione, commerci e servizi regrediscono intrecciando in una spirale perversa gli effetti della crisi finanziaria a quelli, ancor più drammatici, della crisi dell’economia reale. La Merrill Lynch si aspetta un arretramento dell’economia americana del 2,3% quest’anno e una parvenza di ripresa, non più dello 0,5%, nel 2010, mentre vede Eurolandia a meno 0,6% nel 2009 e a più 1,1% l’anno prossimo. Ma quando i credit default swaps sulle obbligazioni del Tesoro della Corona britannica, il massimo della sicurezza, tripla A per le agenzie di rating, pagano 108 punti base e McDonald’s, una sola A, paga 57 punti base, ogni previsione è un numero al lotto. Le domande sul futuro, pur naturali e diffuse, sono destinate a restare senza risposte attendibili, almeno per un po’. Al contrario, le esperienze fatte, se indagate, possono offrire interessanti suggestioni.
Per cominciare, bisogna chiedersi com’è la finanza globale che è andata spavaldamente incontro al disastro, convinta che la rappresentazione dei risultati del lavoro contenuta nei suoi complicatissimi titoli fosse reale e consistente e non, invece, virtuale e drogata. Secondo il McKinsey Global Institute, nel 2007 la ricchezza finanziaria globale (azioni, obbligazioni private e pubbliche e depositi bancari) valeva 196 mila miliardi di dollari, 3,6 volte il prodotto interno lordo del pianeta. Pur scontando la svalutazione della moneta Usa, nell’ultimo anno «buono » tale ricchezza in larga misura cartacea era aumentata del 12% contro un incremento medio annuale che, a partire dal 1990, si aggirava sul 9%. A trainare questa espansione sempre più marcata dei valori, in un mondo dove il denaro, equivalente universale, circolava sempre più liberamente, sono stati il settore privato e le economie emergenti. Nel 1990, le obbligazioni statali rappresentavano il 18,6% delle attività finanziarie del mondo; diciotto anni dopo erano scese al 14,3%. Nel 2000 erano 11 i Paesi con attività finanziarie pari a 3,5 volte il prodotto interno lordo; nel 2007 gli 11 erano diventati 25, comprendendo nel novero anche giganti come Cina e Brasile.
Gli ormai frenetici flussi finanziari tra un Paese e l’altro sono arrivati a 11.200 miliardi di dollari, con un incremento del 19% rispetto al 2006, e tra questi flussi la parte del leone la fanno i depositi e i prestiti sull’onda dell’internazionalizzazione di banche, assicurazioni, hedge funds e private equity. Privatizzazioni e globalizzazione hanno dunque favorito la finanziarizzazione dell’economia alimentata dal debito: un debito cross-border che, secondo la Banca dei regolamenti internazionali, era per il 65% con scadenza inferiore ai 12 mesi, e dunque fragile perché facilmente revocabile. Particolare interessante, la dinamica del debito èmolto forte nei paesi più avanzati, con l’eccezione della Germania, mentre la crescita delle attività finanziarie delle economie emergenti dipende per lo più dal collocamento in Borsa delle loro grandi aziende più o meno a partecipazione statale.
Negli Stati Uniti, epicentro di tutto, la bolla finanziaria è stata gonfiata della crescita prolungata dei prezzi delle azioni e delle case nonché dall’aumento del deficit della bilancia commerciale che rappresenta la faccia imperiale dell’aumento del prodotto interno lordo pro capite (noi consumiamo e voi pagate). Due economisti americani, Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, hanno constatato come queste tendenze si siano sempre manifestate nell’incubazione delle principali crisi bancarie degli ultimi trent’anni: Spagna (1977), Norvegia (1987), Finlandia e Svezia (1991), Giappone (1992). Negli Stati Uniti, semmai, non si è registrata l’impennata del debito pubblico prima della crisi, ma questo potrebbe spiegarsi con l’accortezza di nasconderne una parte sotto etichette formalmente private come Fannie Mae e Freddie Mac a dimostrazione che il gioco delle tre carte non si fa soltanto a Napoli. Se dunque l’incubazione è stata simile, quali sono le costanti negli esiti delle crisi?
Partiamo dal valore delle case, che da confortevole rifugio sono diventate una trappola mortale. Nelle 22 crisi esaminate da Reinhart e Rogoff, la caduta dei prezzi degli immobili dai massimi ai minimi al netto dell’inflazione èmediamente del 35,5% al netto dell’inflazione e il declino dura 6 anni. Più pronunciato ma meno persistente è il crollo reale delle quotazioni azionarie: mediamente è del 55,9% e si prolunga per 3,4 anni. Il tasso di disoccupazione aumenta di 7 punti percentuali e il declino va avanti per 4,8 anni. Queste tendenze parziali si riflettono in un andamento del Pil, che arretra di 9,3 punti e torna a crescere dopo un anno e nove mesi. Nel suo ultimo World Economic Outlook, il Fondo monetario internazionale ha addirittura comparato 113 episodi di crisi finanziaria in 17 paesi svi luppati, sempre negli ultimi trent’anni. E’ emerso che solo 31 volte le crisi hanno generato recessioni vere e proprie e solo in un numero ancor minore di casi, 17 volte per la precisione, le recessioni sono state preparate da una crisi bancaria. In questi ultimi casi la durata e la profondità delle crisi sono state più che doppie rispetto alle recessioni normali (7,6 trimestri di durata media contro 3,1 trimestri; perdita cumulata di Pil del 19,8% rispetto a un 5,4% se non c’è crisi bancaria). Nessuna di queste crisi, tuttavia, ha avuto l’estensione geografica di quella in corso. Negli Stati Uniti, in 18 mesi di crisi finanziaria, l’indice Dow Jones ha bruciato il 40%, i prezzi delle abitazioni il 28% e nel 2008, anno nel quale complessivamente il Pil è aumentato di circa un punto, oltre 2,5 milioni di persone hanno perso il lavoro. Quali saranno le nuove percentuali a metà 2010 quando, a dar retta a Merrill Lynch piuttosto che al Fondo monetario internazionale l’andamento del Pil dovrebbe invertire la tendenza?

La reazione di Barack Obama si fonda su un aumento della spesa, che si aggiunge al costo delle manovre dell’ultimo Bush. Stiamo parlando di 800 miliardi di dollari di stimolo all’economia oltre la cifra analoga che la Federal Reserve è già impegnata a spendere a sostegno delle banche. Il presidente eletto eredita un Paese che ha un debito totale (imprese, famiglie, settore finanziario ed esteri) di 51.849 miliardi di dollari a fronte di prodotto interno lordo di 14.412. Un debito pari al 359,7% della ricchezza prodotta ogni anno. Nel 2009 la componente pubblica di questo debito è destinata a aumentare allo scopo, se non altro, di contenere quella privata consentendo a famiglie e imprese di sopravvivere. E già oggi, a seconda di come si effettua il conteggio, il debito pubblico americano avvicina o addirittura supera il prodotto interno lordo. Come segnalano Reinhart e Rogoff, del resto, nei tre anni successivi alle crisi bancarie passate il debito pubblico è aumentato dell’ 86%, perché non è con le pur necessarie manovre sui tassi, effettuate dalle banche centrali, che si superano queste crisi così gravi, ma con la spesa pubblica fatalmente finanziata con il debito pubblico. Se però si guarda all’esperienza degli Stati Uniti della Grande Depressione si dovrà andare oltre le rilevazioni dei due economisti. Perché quando, nel 1941, il prodotto interno lordo espresso in moneta corrente tornò finalmente ai livelli pre-crisi del 1929, il debito totale americano si era dimezzato. E tutti sanno che esistono solo quattro modi per tagliare drasticamente un debito: l’insolvenza, la bancarotta, l’inflazione e la cancellazione del debito mediante un Giubileo di biblicamemoria come ironicamente ricorda Niall Ferguson sul Financial Times o attraverso la conversione dei debiti in azioni, come suggeriva Guido Carli all’Italia degli anni Settanta.


Massimo Mucchetti
17 gennaio 2009
 

vdb61

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Il nuovo pericolo viene
dai troppi debiti dei privati




Nel 2007, alla vigilia della crisi bancaria globale che ha provocato la recessione delle economie sviluppate, il debito del settore privato (imprese e famiglie) era arrivato a livelli altissimi proprio nei Paesi che anche l’Italia aveva preso a modello: gli Stati Uniti, il Regno Unito, l’Irlanda e la Spagna. Come si vede dal grafico, in questi quattro Paesi il debito privato era pari rispettivamente al 176, al 198, al 168 e al 155% del prodotto interno lordo di ciascuno. Ora Merrill Lynch, una banca d’investimento americana che è stata tra le principali levatrici della debt economy e che oggi assume, con dichiarato ottimismo, come del tutto efficaci le terapie dei governi, prevede una riduzione del 23% del rapporto debito- pil in questi paesi. Per l’Italia, dove si stava su un comodo 74%, immagina una riduzione che sarà solo del 7%. D’altra parte, questo è accaduto nei paesi scandinavi dopo le loro crisi bancarie. Conservare inalterato il livello dei prestiti alle imprese e alle famiglie, come promettono i governi, compreso quello italiano, appare più una dichiarazione propagandistica che un obiettivo reale. Del resto, questa crisi ha fatto emergere quanto sia insidioso il pericolo del debito privato quando questo superi certi limiti e deragli dai tradizionali obiettivi d’investimento per andare al mero sostegno dei consumi o della speculazione finanziaria. Dagli anni Ottanta in qua, la cultura economica dominante, di matrice reaganian-thatcheriana, ha indicato nel debito pubblico lo spauracchio dei governi.

Anche l’Europa dell’economia sociale di mercato è stata costruita sul vincolo di un debito pubblico basso, pari al 60% del prodotto interno lordo. Alla base di questa scelta c’è un’antica e serissima preoccupazione, particolarmente forte nella Germania memore della sua tragedia degli anni Venti quando la svalutazione radicale della moneta portò a tensioni sociali fortissime e quindi alla dittatura nazista: troppo debito infatti porta all’iperinflazione. Ma accanto a questo pensiero profondo ne è fiorito anche uno piùmodesto: l’idea che, nel fare debiti, i soggetti privati siano per definizione più seri dei soggetti pubblici. I governanti, si argomenta, hanno l’obiettivo di vincere le elezioni ogni 4-5 anni e dunque vanno soggetti alla tentazione di comprare consenso aumentando la spesa pubblica, ma non le tasse, con l’effetto di aumentare poi il debito pubblico e ingessare così la politica del governo. I soggetti privati, invece, sarebbero più lungimiranti (i genitori pensano ai figli, le imprese vorrebbero durare sempre) e assennati (rispondono in proprio dei debiti). La realtà del capitalismo finanziario deregolato — negli anni Duemila come negli anni Venti del Novecento —si è incaricata di dimostrare che, nell’incrocio delle proprie relazioni, i soggetti privati non sono sempre e per definizione più razionali, lungimiranti e responsabili di quelli pubblici. Adesso, gli Usa e il resto del mondo aumenteranno la spesa pubblica per impedire il fallimento delle banche e delle grandi imprese e per sostenere le fasce più deboli della popolazione, che poi era lo scopo del welfare state un tempo principalmente finanziato dalla mano pubblica e poi, in larga misura, privatizzato o azzerato. Ma dopo? La disciplina della finanza pubblica resta un caposaldo delle democrazie ordinate. Dunque, per Barack Obama come per gli altri leader ci sarà anche il problema di come coniugare, esaurita l’illusione dei tagli fiscali di Bush, la riforma di fisco, previdenza e assistenza sanitaria per riportare a livelli prudenti il debito pubblico. Basti pensare che a dicembre il Congressional Budget Office ha avvertito che, a legislazione costante, la sola spesa sanitaria, per metà a carico dello Stato e per metà dei privati, è destinata a salire dall’attuale 16% del Pil al 25% nel 2025. Come per l’Italia, anche per l’America di Obama non basterà affidarsi alla mera ripresa del Pil.


M.Mucch.
17 gennaio 2009
 

vdb61

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Le prospettive della crisi

di Mario Margiocco




15 gennaio 2009




Quattro mesi fa falliva Lehman Brothers e finiva la Wall Street del 900. L'autodistruzione di quello che era stato, con Wall Street, il cuore della finanza americana e mondiale appariva evidente anche a chi fino ad allora aveva guardato altrove. Nessuno l'aveva previsto davvero, in tutta la sua enormità. Ma qualcuno aveva lanciato allarmi circostanziati. Quattro mesi dopo la fase uno può dirsi superata. A livello mondiale i valori di Borsa sono stati più o meno dimezzati, cosa del resto accaduta anche con lo scoppio della bolla dot com otto anni fa. Le Banche centrali e le Tesorerie pubbliche sono intervenute, spesso generosamente. Il sistema ha frenato paurosamentre ma non si è fuso. E alla fine, dopo quattro mesi, un rispettato economista come Brad de Long dell'Università della California, a Berkeley, fa i seguenti conti.

Un anno e mezzo fa il mondo aveva 80mila miliardi di dollari di titoli finanziari commerciabili. Oggi può contare su 60 mila, cioè 20 mila in menio e 5mila in meno del Pil mondiale. Il settore abitativo, con i mutui subprime e simili, negli Stati uniti e altrove, in Gran Bretagna soprattutto, ha provocato o provocherà circa 2mila miliardi di perdite. Quattromila vengono o verranno da altri default già provocati o che la recessione renderà inevitabili. Le Banche centrali e le Tesorerie hanno immesso effettivamente a tuttoggi - escluse garanzie e altri finanziamenti a fronte di collaterale di buona qualità - circa 3mila miliardi di dollari. L'effetto deleverage, la perdita di valore di asset finanziari dovuta alla molto diminuita accettazione dell'indebitamento e al rifiuto di titoli che al momento nessuno sa quanto valgono - parte notevole dei derivati - ammonta quindi, se De Long ha fatto bene i suoi conti, a circa 17mila miliardi. E' con questa "evaporazione" di asset finanziari, che solo fra alcuni anni e a bocce ferme potrà essere in parte - quanto, oggi non si sa - iscritta come vera perdita, che occorre ora confrontarsi.

L'impegno della Federal Reserve e del Tesoro americano è massiccio e senza confronti in Europa anche perché il settore pubblico è negli Stati Uniti assai più ristretto, pari a poco più del 30% del Pil contro il quasi 50% in Europa. E poiché tocca al settore pubblico sostituirsi a un credito privato al momento molto difficile, è logico che Washington sia più attiva, avendo il sistema meno stabilizzatori automatici. Negli Stati Uniti le cifre messe in campo sono enormi, e già superiori a quanto speso da Washington per il finanziamento dell'intera seconda guerra mondiale, Allora 3600 miliardi, in dollari di oggi, adesso contro la crisi e la recessione finora 4600 miliardi su un totale di circa 8 mila pronti a venire impiegati (si veda Il Sole 24 Ore del 6 gennaio, pagina 11). Tutto questo senza contare il piano di stimolo che adesso il nuovo governo Obama si appresta a lanciare. E che sarà , alla fine, non lontano dai mille miliardi.

A questo punto si possono scegliere due strade e la prudenza consiglia di praticarle entrambe.
La prima è indicata da un cartello che dice "intervento pubblico" ed è quella battuta finora, negli Stati Uniti soprattutto ma anche in Europa. E in Cina.

La seconda è segnata da un cartello che si chiede: " quanto intervento pubblico?". Pone cioè il problema non solo della necessità, ma dei limiti. Neppure lo Stato più ricco ha risorse illimitate.
Quindi, guardando oltre la crisi, quanta spesa pubblica e fino a che punto è sostenibile? Fermiamoci al caso americano, il maggiore e più emblematico.

Il piano di stimolo del nuovo Governo, l'American recovery and reinvestment plan, prevede una cifra del 5% del Pil (che è pari a circa 14mila miliardi di dollari), in due anni, cioè circa 750 miliardi. Ma poiché il settore privato dovrà risparmiare attorno al 6% del Pil per parecchi anni per uscire dai debiti, questo 6% dovrà essere recuperato dalla spesa pubblica che già è in deficit del 4% del Pil, e si arriva a un 10% di deficit. Sarà lo Stato infatti ad accollrsi la spesa in deficit che i privati non possono più fare. Secondo Martin Wolf del Financial Times sono livelli sostenibili solo per qualche anno, e solo se gran parte della spesa in deficit va in investimenti produttivi. Poi, i conti saltano. Già adesso, e senza il piano Obama, il deficit 2009 sarà di 1200 miliardi , secondo il Congressional budget Office, il triplo del 2008, a causa degli interventi anti-crisi. Se si aggiunge lo stimolo Obama , si arriva a circa 1600. Se si pensa che quando George Bush arrivò al potere l'intero bilancio federale era di 1700 miliardi, si vede come il deficit 2009 arriverà a sfiorare l'intera spesa 2000. Uno sforzo necessario, ma che non può durare a lungo. E che rischia di essere immane, perché Washington dovrà per qualche tempo sostituirsi a quella che è stata una forza trainante dell'economia anche internazionale: il consumatore americano. Le potenzialità degli Stati Uniti restano enormi, di ricchezza materiale e umana. Ma se il debito continua a correre, pubblico questa volta e non più privato, il risultato alla fine non cambia.
 

vdb61

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Cos'è la trappola della liquidità


15 gennaio 2009

«È possibile portare un cammello all'abbeveratoio, ma non lo si può costringere a bere». Una delle massime più celebri degli economisti keynesiani negli anni trenta era utilizzata per fotografare la cosiddetta trappola della liquidità. Durante la Grande Depressione del '29, in America, il tasso di interesse nominale raggiunse la parità e la temibile trappola - costo del denaro a zero senza effetti sulla ripresa economica - scattò inesorabile. Lo stesso accadde nel Giappone della Grande Deflazione negli anni novanta. Gli Stati Uniti di oggi sembrano correre lo stesso rischio: i tassi sono stati abbassati dalla Federal Reserve a una banda di oscillazione compresa tra 0 e 0,25 per cento.

L'inglese John Maynard Keynes (1883-1946), uno dei padri dell'economia moderna, utilizzava la curva della preferenza per la liquidità proprio per dimostrare l'inefficacia della politica monetaria nelle situazioni in cui il mercato si dimostra poco reattivo alle variazioni del tasso d'interesse. In questo caso l'economia esprime una capacità produttiva lontana da quella potenziale nonostante un costo del denaro talmente basso da stimolare, almeno in teoria, consumi e investimenti. In parole povere: tassi troppo bassi, investimenti in frigorifero, prevedibile ulteriore frenata per un'economia già debole, redditi in calo, consumi sempre più ridotti in attesa di tempi migliori. Che possono anche tardare ad arrivare.

Ma cosa c'entra l'Europa e perché il presidente della Banca centrale europea, Trichet, dice di temere un eccessivo abbassamento dei tassi? Le banche, in un simile contesto, preferiscono decisamente la liquidità e finiscono per non fare circolare il denaro all'interno del sistema economico. Che va in asfissia. Attualmente gli istituti di credito europei detengono presso la Bce circa 300 miliardi di depositi nonostante la bassa remunerazione. Oggi, contemporaneamente al ribasso del tasso al 2%, è stato ridotto all'1% quello sui depositi, mentre il tasso marginale è stato mantenuto al 3 per cento.

Si è voluto aprire così un "corridoio monetario" (differenza fra il tasso sui depositi e quello marginale sugli impieghi o finanziamenti) pari a 200 punti base (2%). Un provvedimento che dovrebbe servire proprio, facendo diventare più conveniente l'immissione di liquidità sul mercato, a evitare che i signori del credito tengano il denaro parcheggiato. Prima dell'inizio della crisi finanziaria e del credit crunch i depositi bancari alla Banca centrale di Francoforte erano ridotti al lumicino: circa 1 miliardo.

Tornando alla trappola della liquidità, come uscirne? Se la politica monetaria è inefficace, la ricetta keynesiana classica suggerisce di stimolare l'economia attraverso la politica fiscale, proprio quello che sta succedendo oggi in mezzo mondo per fare fronte alla brusca frenata dell'economia seguita alla crisi finanziaria e al razionamento del credito. Una riduzione di tasse o un aumento di spesa pubblica possono riavvicinare il reddito al livello di pieno impiego.

Più recentemente il premio Nobel Paul Krugman proprio durante la caduta dell'economia giapponese propose, invece, un modello dinamico per interpretare la trappola della liquidità: gli agenti economici prendono delle decisioni che riguardano non solo il presente ma anche il futuro, anello mancante dei modelli keynesiani della prima generazione. Una trappola della liquidità può verificarsi se la crescita attesa dell'economia è negativa. In questo caso, come si diceva, la propensione è a risparmiare oggi per poter consumare anche domani, quando il reddito potrebbe essere perfino più basso. La terapia, allora, secondo Krugman potrebbe essere una politica monetaria attiva che generi aspettative di inflazione. (a cura di Alberto Annicchiarico)
 

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