Argentina (1 Viewer)

tontolina

Forumer storico

tontolina

Forumer storico
SPY FINANZA/ La realtà dietro la crisi dell'Argentina
L'Argentina è tornata a far parlare di sé per problemi di inflazione e di svalutazione del peso. Ma c'è qualcosa di molto più importante in gioco. MAURO BOTTARELLI 07 maggio 2018 Mauro Bottarelli
SPY FINANZA/ La realtà dietro la crisi dell'Argentina

macri_mauricio_lapresse_thumb660x453.jpg
Mauricio Macri (Lapresse)

In questi giorni, ancorché timidamente, sui mezzi di informazione è tornata a fare capolino l’Argentina. E, ancora una volta, per guai legati a svalutazione e inflazione galoppante. Crisi dei “Tango bond” 2.0? Potenzialmente, qualcosa di peggio. Non fatevi infatti irretire da analisi semplicistiche relative alle cause e agli effetti di quanto sta accadendo al governo di Mauricio Macri, perché potenzialmente l’Argentina è il canarino nella miniera di cosa ci aspetta se davvero si arrivasse a una politica di reale normalizzazione dei tassi da parte della Fed. Di fatto, Buenos Aires è la prima vittima del tantrum della Federal Reserve in modalità tapering, un qualcosa che assomiglia in fieri al taper tantrum del 2013 sui mercati asiatici, quando le poche parole di Ben Bernanke rispetto al ritiro degli stimoli monetari fecero esplodere i costi di servizio del debito in dollari di molti Paesi emergenti asiatici, schiantando le loro valute, esattamente come sta succedendo al peso argentino. O, volendo andare ancora più indietro, alla crisi del peso messicano innescata nel 1994 dalla folle contrazione monetaria decisa da Alan Greenspan che fece schizzare all’insù dollaro e rendimenti obbligazionari.

Eppure, a parte qualche sfuggente e raffazzonato servizio nei tg (più che altro perché l’Argentina è terra di emigrazione italiana, quindi quasi una colonia di interesse e sentimento, mediaticamente parlando), non c’è interesse al riguardo, quantomeno non il grado che ci si aspetterebbe per un evento prodromico di questo livello: come mai?
Per il solito motivo: evitare che la gente capisca fino in fondo le ragioni e le radici della nuova crisi in arrivo, per tutelare le Banche centrali e le élites che hanno beneficiato del loro folle operato finora. E, soprattutto, perché fino adesso la reazione dei mercati è stata placida, nel senso che gli scossoni si sono sentiti in parti del mercato che allarmano solo gli operatori: inoltre, gli Stati che cominciano a patire per le mosse sui tassi Usa e sul dollaro, non sono esattamente quelli con il maggiore appeal mediatico. Ovvero, Argentina, Turchia, Ungheria, Polonia e India.

Esattamente come nel 2008, si finge che tutto vada bene, che la crisi sia solo passeggera. Di più, qualcuno invita a vedere nell’Argentina un’opportunità potenziale, proprio in ragione della vecchia logica del buy the dip. Mi permetto, per una volta, di contravvenire alla mia regola aurea: se qualcuno vi propone qualsiasi cosa legata al credito argentino, dite no. E non per la mossa a sorpresa della Banca centrale di Buenos Aires che venerdì ha portato il tasso di interesse al 40% per cercare di bloccare la svalutazione monetaria, dopo aver già ritoccato al rialzo il costo del denaro due altre volte in una settimana e aver bruciato oltre 5 miliardi di dollari di riserve estere per tentare di tamponare il crollo: sembra la Bank of England o Bankitalia nel 1992, quando George Soros attaccò sterlina e lira. La questione è più seria e più ampia. E merita per questo serietà, quindi quando sentite parlare di reazione del mercato alle riforme troppo lente del governo argentino, ridete pure in faccia al vostro interlocutore: come panzana venduta a mo’ di alibi, siamo al livello dell’allarme della Commissione Ue per il nostro stallo politico. Balle.

Come Bruxelles punta il dito contro Roma per trovare un capro espiatorio in vista di possibili deragliamenti di crescita e mercati in vista della fine del Qe della Bce, così l’Argentina è l’avanguardia del costo potenziale che i Paesi emergenti pagano alla politica della Fed e al dollaro in rafforzamento. Ancora una volta, come in un continuo dejà vu, per capire cosa accade alle valute dei Paesi emergenti, tocca infatti guardare ai mercati sviluppati e in particolar modo agli Stati Uniti. Quanto si è verificato nelle ultime settimane sotto il pelo dell’acqua dei mercati è stata, di fatto, una reazione ritardata all’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca.

Quando infatti il tycoon stupì il mondo, battendo Hillary Clinton, l’attesa generale era per un’ondata di protezionismo e tassi molto più alti negli Stati Uniti, tanto che al momento gli assets dei mercati emergenti patirono una breve ma molto drastica sell-off. Durante tutto il 2017, però, nulla di questo si concretizzò: soltanto poche settimane fa è emersa la questione dei dazi, mentre l’anno scorso non furono nemmeno nominati, mentre la sorprendente forza della ripresa europea garantita dagli acquisti della Bce mise le ali all’euro e portò a un indebolimento del dollaro che garantì un alleggerimento delle pressioni valutarie e debitorie dei Paesi emergenti. Ora, però, tutto è cambiato. O, almeno, così pare nell’immediato. Il drastico taglio delle tasse annunciato dalla Casa Bianca unito alle dinamiche inflattive paiono confermare il trend rialzista della Fed in fatto di tassi, mentre l’indebolimento della tenuta economica europea ha portato a una rinnovata forza di riflesso del dollaro, facendo rimontare pressioni che si pensavano superate nei mercati emergenti; di fatto, siamo di nuovo al novembre 2016.

Ora, la questione argentina è seria, non fosse altro per l’effetto psicologico che innesca l’innalzamento dei tassi dal 27,25% al 40% in una settimana e nel bruciare nel medesimo arco di tempo riserve estere pari al controvalore di quanto introitato dal Tesoro argentino con l’emissione dell’eurobond che avrebbe dovuto garantire copertura finanziaria alle riforme del governo. Però, ripeto, è l’effetto canarino che deve essere tenuto sotto controllo. E che deve farci preoccupare. Il perché è presto detto, numeri alla mano e ampliando lo spettro di questo caleidoscopio della crisi. L’indice valutario per i mercati emergenti di JP Morgan ha perso il 4,2% dall’inizio di aprile, mentre il valore dei bond denominati un peso argentino il 4,5%, un tonfo ben maggiore del -2,6% per gli eurobond sovrani e il -1,3% degli eurobond corporate.

La questione è chiara: i bond in valuta pregiata riusciranno a resistere alle pressioni che arrivano dalla valuta locale o i mercati emergenti hanno compiuto un passo decisivo verso il lato del rischio? In parole povere, visto che la finanza è cosa semplice: il rally di apprezzamento del dollaro è destinato a proseguire come trend strutturale e macro o quella che stiamo vivendo è una fiammata resa possibile da un concatenarsi di fattori non strutturali? Se dobbiamo prendere come metro di misura le dinamiche relative ai mercati emergenti delle ultime settimane, il quadro è tutt’altro che roseo. Dopo che il bond decennale Usa ha rotto per la prima volta dal 2014 la soglia psicologica del 3% di rendimento, nel silenzio gonfio di eco del mondo che sta sotto il pelo dell’acqua, gli investitori hanno cominciato a scaricare bond e titoli azionari dei mercati emergenti, stando a dati ufficiali dell’Institute of International Finance. E con il badile. Le cifre parlano chiaro: gli acquisti cross-border di equities e bond dei mercati emergenti sono passati in negativo ad aprile per la prima volta dal novembre 2016, con 200 milioni di dollari di outflows netti dopo inflows per qualcosa come oltre 50 miliardi di dollari nel solo primo trimestre di quest’anno! E questo reverse così netto è stato ancora più brutale nel mercato obbligazionario, visto che a fronte di inflows sui bond per 39 miliardi di dollari nel primo trimestre, i dati Iif parlano di soli 300 milioni di dollari ad aprile!

Panico eccessivo? Allarmismo ingiustificato? Una cosa è certa: sommovimenti simili, per quanto ancora silenziosi e non “degni” delle prime pagine dei giornali, non sono certo imputabili all’apprensione del mercato per il taglio dell’obiettivo di riduzione del deficit fiscale primario dal 3,2% al 2,7%, come comunicato venerdì dal ministro del Tesoro argentino, Nicolas Dujovne.
C’è molto di più in gioco, c’è di fatto in atto uno stress test che per ora vede l’Argentina bocciata. Non su tutta la linea, non in maniera definitiva. Ma bocciata. Perché oltre all’enorme quadro macro di cui Buenos Aires appare la cavia da esperimento, esistono criticità particolari che rischiano di far avvitare la crisi argentina e trasformarla in un detonatore. Le precedenti e più recenti crisi del Paese sudamericano, compresa quella del 2001, sono infatti occorse quando il deficit fiscale era più basso di quello attuale, visto che all’epoca dei “tango bonds”, il deficit fiscale consolidato era del 7% contro il 9% attuale, se viene incorporato il debito della Banca centrale. Inoltre, c’è il peso del servizio del debito, il pagamento degli interessi che grava duramente sui conti statali argentini, visto che il governo Macri ha preso in prestito qualcosa come 100 miliardi di dollari in valuta estera negli ultimi due anni, più di qualsiasi altro Paese emergente.

Certo, i proclami di Macri riguardo l’intenzione di portare l’inflazione in singola cifra dal 25% attuale con un colpo di bacchetta magica non hanno certo giovato alla credibilità economica e finanziaria del suo esecutivo sui mercati internazionali, ma è la tensione innescata dall’incertezza sulla politica monetaria reale della Fed su questi ultimi la ragione dell’avvitamento, stante criticità macro di Buenos Aires che non erano certo sconosciute o tantomeno differenti solo poche settimane fa, quando il peso non era crollato sui mercati dei cambi e la Banca centrale non aveva ancora cominciato a svenare le riserve estere: è un cambio di sentiment più ampio e pericoloso quello che ha fatto precipitare i già fragili conti argentini nel caos, per questo un cambio di dinamiche monetarie e fiscali a Washington potrebbe far rientrare l’allarme come innescare una spirale auto-alimentante che potrebbe rivelarsi ancora una volta fatale per Buenos Aires. Anche perché, di base, parliamo di un Paese in cui la formazione di capitale fisso lordo dovrebbe salire dall’attuale 17% del Pil a oltre il 20% l’anno prossimo, al netto della ratio 11x dei multipli di utile per azione cui viaggia il mercato azionario argentino: c’è potenziale, ma non basta a operare off-setting su qualcosa di assolutamente sistemico come l’operatività della Fed sui tassi e, quindi, sul dollaro.

Questa volta l’Argentina rischia di non regalarci immagini di proteste e violenze di piazza, di filiali bancarie chiuse e di cittadini disperati per aver perso tutto: rischia di essere la cartina di tornasole di timori globali che, giorno dopo giorno, dati dopo dati, stanno diventando certezze, certificati in alcuni casi dagli stessi regolatori, giunti ormai alle soglie della classica situazione da spalle al muro. Dopo averlo fatto per Evita, l’Argentina tornerà a piangere? Speriamo di no, altrimenti saranno davvero in molti a farle compagnia con il fazzoletto in mano.
 

tontolina

Forumer storico
ARGENTINA: promozione tragicomica!
Scritto il 21 giugno 2018 alle 14:41 da Danilo DT

Il passaggio da “economia di Frontiera” a “paese emergente” rappresenta un importante upgrade per Buenos Aires. Ma come si fa a definire “emergente” un paese in queste condizioni?
Avreste mai detto che uno dei migliori listini azionari degli ultimi anni si riferisce ad una borsa sudamericana? Ebbene si, si tratta del Merval, il listino che sintetizza il “meglio” del mercato azionario di Buenos Aires, capitale dell’Argentina.
Proprio quell’Argentina che recentemente è rientrata nel mondo degli investimenti che contano, prima riacquistando credito a livello internazionale, poi emettendo quel famoso bond a 100 anni che è diventato un vero benchmark e poi, recentemente, con il riconoscimento nuovamente di Paese Emergente.
upload_2018-6-21_19-14-26.png

Grafico Merval Argentina MERV via Tradingview

Infatti per l’indice MSCI, l’Argentina dal 2009 era classificato come “economia di frontiera”, ma recentemente è tornato tra i paesi “emergenti che contano”.
Questa promozione è importante in quanto convoglierà verso il paese argentino una bella dose di denaro degli investitori che, attivamente o passivamente tramite ETF, investiranno in quest’area.
(…) It’s a welcome outcome for investors who had been pinning hopes on an upgrade as the nation’s stocks head for the worst year in almost 10 years. An upgrade will allow funds that track more than $1 trillion to invest in the nation’s stock market, leading to about $3.8 billion of inflows, according to an estimate by JPMorgan Chase & Co. (…) [Source]

Tutto questo è a metà strada tra il ridicolo ed il vergognoso.
Vero, il Merval ha performato bene ma non dimentichiamo il legame tra il listino e la debolezza della valuta locale.
Guardate questo grafico
upload_2018-6-21_19-15-43.png


Il Peso Argentino è collassato, il titolo a 100 anni continua a scendere, e se poi aggiungiamo i tassi a breve e il tasso inflazione, il quadro è fatto.
upload_2018-6-21_19-16-35.png


Chart by Tradingeconomics
E ovviamente un paese in queste condizioni merita credito! E allora il FMI presta ulteriori 50 miliardi di USD per evitare un altro default.
(…) IMF board members voted in favor of the three-year stand-by arrangement, according to a statement by the Fund. The board’s decision allows Argentine authorities to immediately tap $15billion, according to the statement. One-half of the amount, or $7.5 billion, will be used for budget support. The remaining $35 billion will be made available over the duration of the arrangement, subject to quarterly reviews by the board.
“The approval today is clear evidence of the international community’s trust in Argentina,” said IMF Managing Director Christine Lagarde in Washington. “The Argentine authorities have designed, conceived and take full ownership of the program of reforms.” (…) [Source]

E per fortuna che il FMI ci crede. In queste condizioni, Buenos Aires si brucerà il finanziamento in un amen e non sarà di certo facile rimettersi in piedi.
Ah, già, però ora è un paese emergente e quindi merita fiducia. E poi ci sorprendiamo quando arrivano i default ed i risparmiatori perdono valanghe di denaro…

PS: anche un altro paese ha ricevuto la promozione da “paese di frontiera” a “paese emergente”. Trattasi dell’Arabia Saudita. Ma forse, quella, è un’altra storia…
upload_2018-6-21_19-17-57.png


STAY TUNED!

Danilo DT
ARGENTINA: promozione tragicomica! | IntermarketAndMore
 

tontolina

Forumer storico
Argentina, peso fuori controllo: tassi di interesse al 60%. Macri chiede a Fmi di accelerare salvataggio da 50 miliardi
argentina-1300.jpg

La crisi è precipitata nelle ultime settimane e l'inflazione è al 35%. Dal Fmi Buenos Aires ha già ricevuto 15 dei 50 miliardi, e il mese prossimo dovrebbe riceverne altri 3. Ma non basta. l'obiettivo è evitare un ulteriore peggioramento che possa fare deragliare la ripresa mondiale

di F. Q. | 31 agosto 2018

Argentina, peso fuori controllo: tassi di interesse al 60%. Macri chiede a Fmi di accelerare salvataggio da 50 miliardi - Il Fatto Quotidiano
 

tontolina

Forumer storico
LA CRISI ETERNA: A me sembra la politica economica di Macri sia identica a quella percorsa dell'Europa
L’Argentina e le lezioni mai imparate
PRESIDENTE-MAURICIO-MACRI-AFP-kisG--835x437@IlSole24Ore-Web.jpg

Il presidente argentino Mauricio Macri (Afp)

Per la 5° volta in 50 anni l'Argentina precipita in una crisi valutaria grave; il Fondo Monetario Internazionale è sceso in campo con un programma record per 57 miliardi di $, di cui 15 già sborsati. La recessione in arrivo ripropone inquietanti similarità con quella del 2001 che derivano dall'applicazione azzardata di ricette neo-liberiste.

L'attuale presidente Macri è salito al timone nel 2015 sull'onda dell'insoddisfazione popolare per le politiche keynesiane della coppia Nestor e Christina Kirchner. La cura peronista dei Kirchner ha garantito una ricostruzione “post-bellica” dell'economia argentina dopo le devastazioni del 2001-2002 e conseguente default sul debito pubblico. In meno di 10 anni, l'Argentina ha recuperato il 100% del PIL perduto con tassi di crescita intorno al 7%, ricostituito la base industriale e riportato al lavoro e fuori dalla povertà oltre 6 milioni di persone. Tra i successi va annoverata anche la cancellazione del debito con il FMI e la riduzione del rapporto debito/PIL dal 120% al 40%.
Certo, le politiche di forte protezionismo dell'industria nazionale hanno avuto costi tangibili: la scala mobile che ancorava i salari all'inflazione al 100% ed il finanziamento monetario del deficit hanno tenuto l'inflazione intorno al 20%, mentre il governo ne ha manipolato la misurazione a più riprese.

Gli argentini nutrono profonda sfiducia nel sistema bancario: dopo 3 periodi di iperinflazione, 4 riforme valutarie ed il famigerato corralito del 2001 che ha comportato la conversione forzosa in pesos dei depositi in valuta estera e la trasformazione di parte dei depositi in pesos in debito pubblico quasi in default, ne hanno ragione. La sfiducia generalizzata rende il sistema monetario argentino duale, con il peso valuta corrente ed il Dollaro valuta pesante per il risparmio privato. È dunque la stessa crescita economica ad incrementare la domanda di Dollari ed alimentare una perenne “fuga di capitali” con costante deprezzamento del peso.

Un controllo dei capitali per limitare la Dollarizzazione ed il declino del peso è stato inevitabile, ma comunque sostenibile in un periodo di boom dei prezzi di soya, grano, petrolio di cui è il Paese è forte esportatore. Importazioni ed esportazioni di merci e valuta pregiata sono cresciute di pari passo, insieme a reddito disponibile, occupazione e risparmio.


Dal 2012 il meccanismo si è inceppato con il crollo prima dei prezzi dei prodotti agricoli e poi del petrolio
; è peggiorato l'equilibrio dei conti esterni del Paese ed è diventato difficile l'afflusso di valuta forte per il pagamento delle crescenti importazioni e per il risparmio privato. Ma in termini più ampi, le istituzioni di un sistema economico dirigista, inefficiente e sicuramente corrotto ed una finanza all'età della pietra non hanno intercettato le nuove necessità di risparmio e consumo della ri-nascente classe media.

La contro-rivoluzione liberista di Macri è stata desiderata da un'ampia fascia della popolazione, ma l'applicazione dei paradigmi neoliberisti di libertà dei movimenti di capitali e sviluppo del settore finanziario è stata brutale ed ora rischia di schiantare il Paese.

L'eliminazione dei controlli di capitale ha provocato una svalutazione rapida del 30% del peso, riflessa in maggiore inflazione. Seguendo l'agenda liberista Macri ha ridotto le tasse all'esportazione ed aumentato le tariffe delle utilities, imposto una dura riforma pensionistica e ridotto salari ed occupazione pubblica.

Macri ha poi reinserito pienamente l'Argentina sui mercati internazionali del debito patteggiando con gli hedge fund. Da allora il governo è stato attivissimo nelle emissioni, riuscendo nel dubbio risultato di accrescere il debito in Dollari del 56% in 2 anni, facendo salire il rapporto debito/PIL di 10 punti oltre il 50%. La ricetta neoliberista ha previsto, insieme all'indebitamento pubblico, lo sviluppo del mercato del debito privato; sono stati promossi prestiti strutturati ancorati all'inflazione (UVA) con cap alle rate e reprofiling automatico della durata. Il mercato dei mutui e dei credito al consumo è esploso, consentendo agli argentini di indebitarsi per l'acquisto di beni durevoli. E' stato questo boom del credito privato che ha sostenuto la crescita nel 2017 nonostante un periodo di rafforzamento del Dollaro.

grafico-U20437913222HdE--650x485@IlSole24Ore-Web.jpg

Nel 2018 tuttavia le tensioni legate alla guerra commerciale di Trump, al rallentamento della crescita globale ed alla crisi valutaria turca hanno messo Macri alle strette. Il peso è finito in free-fall, con una svalutazione rispetto al periodo pre-Macri del 293%.

Da inizio 2018 i rendimenti impliciti sul debito pubblico sono raddoppiati fino al 10%; questi rendimenti riflettono un rischio di default ad 1 anno del 10% e non incorporano un rischio di inflazione. L'inflazione è infatti una variabile esogena rispetto alla gestione del debito pubblico in quanto i titoli di Stato argentini sono emessi in dollari. Ne discende che qualsiasi monetizzazione del debito stampando pesos per comprare dollari si rifletterebbe immediatamente in una svalutazione del tasso di cambio e dunque in un aggravamento del peso del debito.
Negli ultimi mesi il rialzo dei tassi di interesse a breve al 60% e pesanti misure di austerity [alla mario Monti] non hanno placato i mercati ma hanno aggravato la recessione. A maggio l'Argentina ha infranto l'ultimo tabù, chiedendo assistenza al FMI. Il Fondo potrebbe avere interesse a mantenere a galla Macri fino alle elezioni per evitare il ritorno in grande stile dei populisti, ma dopo è probabile che Macri sia lasciato solo a gestire una recessione ed un debito estero - di nuovo - insostenibili. Il default potrebbe di nuovo materializzarsi dopo appena 2 anni di gestione neoliberista dell'economia.

Da questa prospettiva i titoli di Stato argentini condividono molte analogie con i govies dell'Eurozona e sostanziali differenze con i Treasuries USA (UST). Poiché la FED ha un mandato duale di piena occupazione e stabilità dei prezzi e può monetizzare/demonetizzare il debito pubblico e il Tesoro USA sfrutta lo status di valuta di riserva del Dollaro, il rischio di inflazione rappresenta una variabile endogena nella gestione del debito pubblico e la principale fonte di rischio degli UST, mentre è trascurabile il rischio di insolvenza/default.
Nell'eurozona invece i limiti operativi della BCE in termini di mandato unico sulla stabilità dei prezzi e divieto di monetizzazione del debito implicano che l'inflazione – come in Argentina ancorché per cause diverse – sia una variabile esogena rispetto alla governance dei rendimenti reali del debito pubblico dei vari Paesi membri. A tutti gli effetti i rendimenti reali dei titoli di stato riflettono non il rischio di inflazione ma solo quello di insolvenza. Ed attualmente sono a livelli paragonabili a quelli del periodo 2011-2012, cioè al picco della crisi dell'Eurozona.


* Economista
@MarcelloMinenna

L’Argentina e le lezioni mai imparate
 

Users who are viewing this thread

Alto