Presa da Ultimodea....
Ubi banco
Compiute le aggregazioni Intesa Sanpaolo, Unicredit-Capitalia e Montepaschi-Antonveneta, sembrerebbe concluso il riassetto del sistema bancario italiano avviato tre anni fa con l'avvento del governatorato di Mario Draghi. In realtà manca ancora almeno un tassello, tutt'altro che marginale. Il mondo delle banche popolari rappresenta una fetta importante del settore e avrebbe capacità e dimensioni per esprimere almeno una banca di vero livello nazionale. Oggi non è così per ragioni storiche, recenti e di campanile. Lasciando la Popolare di Milano al suo splendido (si fa per dire) isolamento, restano due attori, anzi due e mezzo, poiché la Popolare Emilia Romagna (Bper) conta la metà di Ubi Banca e del Banco Popolare. Le potenziali sinergie tra popolari sono note: quote di mercato elevate in aree ricche e limitrofe, strutture generali e società prodotto sovrapponibili (si pensi a Centrobanca, Efibanca-Aletti e Meliorbanca, al leasing, ai fondi), rete estesa e ben inserita sul territorio. L'impasse e la difficoltà a procedere sono tattiche e dettate da vincoli specifici. Guido Leoni di Bper è il più piccolo e nonostante i molti tentativi non riesce a fare il salto. Se si muovesse per primo verso i grandi, tratterebbe in posizione di debolezza, e una fronda locale lo ha già avvertito nell'ultima assemblea. Il Banco Popolare, a sua volta, prima di aprire un nuovo tavolo strategico deve mettere a posto i suoi reali o presunti problemi di bilancio. Non solo va rinforzato il patrimonio affaticato da Italease e dalla digestione dell'ex Popolare Lodi, ma anche il conto economico e l'immagine devono riacquistare solidità. Un annetto di lavoro potrebbe bastare. Ubi Banca, infine, non ha problemi di conti, ma di equilibri di governance. La componente bancaria bergamasca pesa infatti molto sui risultati economici, ma lamenta scarso peso nelle scelte di gestione. E il nocciolo degli industriali bresciani, imprenditori abituati a comandare, non ha nel dna i geni del voto capitario popolare. Tra tutte le popolari, Ubi ha il vantaggio di un capo azienda non locale, che ha sempre saputo ben valorizzare il proprio ruolo in tutte le operazioni straordinarie attraversate. Romano d'origine ma capo a Milano in Comindustria, a Bergamo e ora a Brescia, Giampiero Auletta potrebbe essere il punto di equilibrio anche con Verona, anche se Fabio Innocenzi è banchiere di rango non certo inferiore. Al Banco Popolare parlano di possibile rinuncia al sistema duale, non sembrando più necessario il doppio consiglio, ora che i vertici della ex Lodi sono integrati o usciti. Ma di fronte a una possibile unione con Ubi il duale tornerebbe essenziale, con Carlo Fratta Pasini presidente del consiglio di gestione e i bresciani a capo del consiglio di sorveglianza. E cosa andrebbe ai bergamaschi del presidente Emilio Zanetti, che con Verona aveva inutilmente trattato anni fa? Per loro, che lamentano un peso societario inferiore a quello economico, potrebbe esserci un'altra soluzione. Infatti, di una possibile unione tra la banca popolare bergamasco-bresciana e quella veronese-lodigiana si parla da qualche tempo come di un'operazione ideale, ma alquanto complessa. Innanzitutto, le province chiave non sono solo le quattro più visibili. C'è l'ex Popolare di Novara, quella di Ancona, il Banco San Giorgio a Genova, le aree dell'alta Lombardia e di Varese dell'ex Comindustria e Credito Varesino, la Bre in Piemonte, l'Emilia dell'ex San Giminiano, fino all'estremo sud di Carime. Di spazio per creare sinergie ce ne sarebbe moltissimo, arrivando a fine lavoro a una banca ben piazzata in tutta Italia. I grossi ostacoli all'unione sono due: i posti di comando già affollati e la concentrazione eccessiva in alcune aree geografiche. In provincia di Bergamo, nel milanese e nel Piemonte orientale ci sarebbe troppa sovrapposizione. Idealmente, su questi ricchi territori, di banche potrebbero essercene persino due diverse. E proprio da questa considerazione (pochi posti e troppi sportelli) che sta sorgendo da alcuni protagonisti lo spunto per un'operazione ambiziosa: di aggregazione e rafforzamento da un lato, di ottimizzazione e creazione di valore dall'altro. Un'ipotesi prenderebbe in considerazione la scissione della Popolare di Bergamo e della Commercio Industria. Queste banche, ricche e ben posizionate in Lombardia, andrebbero a compensare l'uscita dal gruppo del nucleo storico di soci bergamaschi da sempre sostenitori del presidente Emilio Zanetti. Che diventerebbero padroni di una banca più piccola dell'attuale, ma più grande di quanto fosse nel 2001 e magari ricompensati in valore per il sacrificio. Sull'altro fronte, il vuoto geografico causato della perdita dell'ex perimetro Bpu (Popolare di Bergamo + Comindustria) verrebbe subito riempito dal Credito Bergamasco e da Popolare Lodi, senza dover passare per difficili cessioni di sportelli imposte dall'Antitrust. A eventuale saldo degli accordi, qualche pezzo minore delle reti, in Centro Italia o Piemonte, e qualche società prodotto. Come insegnano i manuali di finanza, in questo caso il break-up tra vari marchi e asset potrebbe fare emergere assai più valore di quanto realizzabile tenendo tutto insieme. Il top management lo sa e se i protagonisti dell'operazione ottenessero, come tutto fa supporre, vantaggi importanti, anche i dubbi di principio, di forma giuridica, sistema di governo, fino alle istanze locali, verrebbero facilmente superati. [/b]