dal giornale kommunista: ebbravo adriano, cia quasi preso
Riparte il grande risiko delle banche popolari
ADRIANO BONAFEDE
Che ci fa un fondo ‘attivista’ come Algebris di Davide Serra, che ha dato e sta dando filo da torcere a un colosso come Generali, nel capitale della ‘passiva’ Bpm? A quanto pare l’hedge fund avrebbe raggiunto una quota di poco inferiore al 2 per cento. Ma, appunto, quali trovate possono permettere a Serra di mettere a soqquadro con le sue richieste come ha già fatto di fronte all’incredulo Antoine Bernheim una banca popolare dove ogni voto si conta e non si pesa? Avere a che fare con i sindacati che controllano di fatto la banca attraverso i ‘soci dipendenti’, e con un ex democristiano, potrebbe per Serra essere più difficile che combattere a mani nude contro il Leone. Certo, il presidente Roberto Mazzotta non se la passa bene. È inviso a molti dei soci raggruppati nella lista che comanda, dopo i matrimoni falliti con Popolare di Lodi prima e con Bper successivamente (in questo caso per colpa degli stessi soci dipendenti). Ma le dinamiche contorte e machiavelliche di una popolare, per giunta di una popolare come questa, potrebbero costituire per Serra un muro assolutamente invalicabile.
Per ora, quindi, Serra ne sta buono buono. In attesa di tempi migliori. Che però potrebbero arrivare prima di quanto non si creda. Qualcosa, infatti, si sta cominciando a muovere. La casa delle popolari è in piena ristrutturazione, e forse Algebris lo ha fiutato. Non c’è soltanto Bpm in subbuglio, dove peraltro già ha fatto altre richieste il fondo Amber Capital. In Bper viene apertamente contestato, da una lista di minoranza guidata dall’avvocato Samorì, anche il padrepadrone Guido Leoni. Certo, questa lista ha ben poche probabilità di scalzare il manager e il suo gruppo che stanno lì da svariati anni. Ma intanto le cose non vanno più lisce come un tempo: c’è chi contesta, chi alza la voce, chi pretende qualcosa. Anche in una mediopiccola popolare come l’Etruria, dove comanda da tempo immemorabile il presidente Elio Faralli, c’è una fronda sotterranea che spinge per un ricambio, e dalla sua parte ha se non altro ragioni anagrafiche.
L’impressione è che, appunto, qualcosa abbia ripreso a covare, dopo l’ultima ondata di fusioni che ha visto nascere, lo scorso anno, due grandi colossi come Ubi Banca da una parte e Banco popolare dall’altro. La sensazione, insomma, è che non tutti i giochi siano stati fatti, e non solo perché non c’è stato quel matrimonio tra Bpm e Bper già celebrato e poi annullato dalla ‘Sacra Rota’ dei sindacati della Popolare di Milano. Ma soprattutto perché la situazione di questa parte del sistema creditizio italiano appare instabile: cerca ancora, come il Franco Battiato di qualche anno fa, un ‘centro di gravità permanente’.
E non è soltanto il problema delle italianissime lotte di potere che dai tempi dei Guelfi e dei Ghibellini hanno sempre appassionato le varie municipalità, a cui queste banche sono territorialmente legate. No, c’è anche qualcosa di più che potrebbe spingere a nuove integrazioni, a nuove fusioni, a un nuovo Risiko. C’è la crisi di liquidità che invade ogni singolo anfratto del mondo del credito, anche il tempio finora considerato inviolabile delle popolari, in passato messe al sicuro da una raccolta locale fuori discussione.
Insomma, il vento è cambiato improvvisamente e può alterare equilibri ultracentenari, costringendo qualche banca a cercare nuove soluzioni. Ne sanno qualcosa al Banco Popolare Italiano. Nato dall’acquisizione della Banca di Lodi da parte della Popolare Verona e Novara, questo istituto – che si pone al primo posto fra le banche cooperative per raccolta totale con 190 miliardi di euro – sta adesso lottando contro situazioni avverse. Da una parte si è trovato quasi subito il bubbone Italease, che ha costretto il management guidato dal presidente Carlo Fratta Pasini e dal consigliere delegato Fabio Innocenzi a correre ai ripari. Dall’altra la Lodi è stata per la Verona un boccone pagato abbastanza caro, soprattutto alla luce di quello che c’era dentro: basta considerare che tra impieghi che valevano poco e ricavi derivati da attività rischiose che non potevano essere portate avanti da una banca retail ci sono state svalutazioni per 2 miliardi negli ultimi due anni.
Inoltre, per vincere l’asta che si era aperta sulla Lodi, la Verona e Novara ha dovuto accettare accordi sul territorio (leggi mantenimento degli organici e di filiali) che impediscono di accentuare il risanamento dal lato dei costi. Era dunque giocoforza spingere dal lato dei ricavi, e la sfida era severa ma non impossibile per un management che aveva dato in passato prova di una rigorosa conduzione societaria. Ma è a questo punto che è arrivata anche la sfortuna con la S maiuscola: è scoppiata la crisi del credito originata dai subprime americani. La strada, che era già in leggera salita, è diventata un ripido sentiero di montagna. Con tutte le conseguenze di dover correggere le proprie previsioni, cosa sulla quale gli analisti delle banche d’investimento storcono sempre il naso.
Tuttavia, forse il peggio è passato e si scorge adesso la concreta possibilità di far ripartire la macchina, se è vero che, secondo la casa d’investimenti Exane (che ha dato un rating ‘outperform’) si può adesso puntare nuovamente su questo titolo.
Ma è tutto il sistema delle popolari che deve ora confrontarsi sul terreno della crisi creditizia mondiale. E da qui potrebbe nascere la spinta verso nuove fusioni e acquisizioni. «Non necessariamente fra popolari, ma anche fra popolari e società per azioni dice Fabrizio Montaruli di Kpgm come dimostra la storia di successo della fusione tra Banche Popolari Unite e Banca Lombarda (una spa, appunto), che ha dato luogo a Ubi Banca». In passato molte piccole popolari sono state costrette, dopo una crisi, a entrare in aggregazioni più grandi. Il fatto potrebbe ora ripetersi. Ci sono più di 30 popolari dietro le prime 56. Alcune vanno bene e sono ben guidate, forti di un rapporto stabile con il territorio. Altre hanno un equilibrio più difficile e l’attuale situazione internazionale potrebbe ripercuotersi sui loro conti accelerandone il declino. Tra le popolari in pole position per forza aggregante c’è sicuramente Ubi Banca, mentre per il momento il Banco popolare deve continuare a leccarsi le ferite prime di guarire e riprendere il cammino (basta pensare che ha un 10 per cento di sportelli in più e un 10 per cento di utili in meno rispetto a Ubi). Tra le mediopiccole che si pongono come polo aggregante c’è Banca Etruria, che ha un passato non recente di acquisizioni di realtà più deboli, seppur assorbite lentamente e con fatica. Mentre la Popolare di Sondrio se ne sta tranquilla al suo posto, ben radicata nel suo territorio e senza apparenti velleità di crescita, appagata tra l’altro dai 20 sportelli che ha recentemente aperto in Svizzera. La Popolare di Vicenza sembra poi in transizione da una situazione rigida, dove c’era un padrepadrone come Gianni Zonin, a una più fluida, dopo l’arrivo di un manager forte come Divo Gronchi. La Vicenza ha fatto molti shopping di sportelli in questi anni, approfittando delle varie vendite ordinate dall’Antitrust.
Ma le sue capacità aggregative sono tutte da provare.Rimangono poi i casi irrisolti di Bper e Bpm, che fondendosi avrebbero dato vita al terzo istituto del settore dopo Ubi Banca e Banco Popolare. Soprattutto per Bpm – bloccata dai suoi stessi dipendenti – lo stallo è totale. «Certo, teoricamente per smuovere le incrostazioni e lasciar decollare le popolari dice Francesco Arcucci, ordinario di Economia degli scambi internazionali all’Università di Bergamo si dovrebbe riformare la governance, rendendo più trasparenti gli assetti proprietari le azioni del management». Fino a rendere più facile anche la sostituzione dei gruppi dirigenti. Ma la riforma, già avversata da più parti nella scorsa legislatura, non sembra trovare nel prossimo Parlamento molti aficionado.