Banche, con 90 miliardi "padrone" dell’industria
ETTORE LIVINI
La rivoluzione (per ora) è passata sotto silenzio. Un po’ perché la bufera dei subprime ha congelato il mondo del credito. E un po’ perché manca ancora qualche tassello (il recepimento dei decreti governativi) per dare davvero il via alle grandi manovre. La caduta del Muro di Berlino (il tetto al 15% delle partecipazioni) tra banche e imprese è destinato però a ridisegnare nei prossimi anni la mappa del potere in Italia. Aprendo il capitale dell’industria di casa nostra agli istituti proprio in un momento in cui liquidità e capitale di rischio sono merce sempre più rara. La posta in gioco in questa partita è molto alta. Il 60% del patrimonio di vigilanza delle prime 10 banche italiane – il capitale che potrebbe in teoria svincolarsi per investimenti di questo tipo – è pari a circa 90 miliardi di euro. Una cifra più che sufficiente a cambiare del tutto gli equilibri "geopolitici" del Belpaese, con il mondo del credito ancor più saldo in cabina di regia. Non che ciò non sia già accaduto in passato, alla faccia di tetti e limiti. Il salvataggio della Ferfin, il "convertendo" bancario che ha salvato la Fiat nel 2004 e operazioni come Telco stanno lì a dimostrare che il peso dei big del mondo bancario, paletti o non paletti, si è sempre fatto sentire, cementando (o andando in soccorso) di un capitalismo imprenditoriale tricolore con le gambe tradizionalmente fragili. Di più: la ragnatela di soldi e relazioni del salotto buono è stata fino ad oggi più che sufficiente per garantire stabilità azionaria e soldi "facili" al nucleo duro del capitalismo tricolore.
Le maglie però adesso stanno per diventare molto più larghe. E a beneficiarne, per una volta, potrebbe essere soprattutto quel sistema di piccole e medie imprese che da sempre costituiscono la spina dorsale del mondo manifatturiero made in Italy. Fino ad oggi i canali a loro disposizione per raccogliere capitali per nuovi investimenti erano limitati: i prestiti bancari, bond o la Borsa. Oggi c’è un asso da giocare in più: la compartecipazione al rischio delle banche con quote molto più significative che in passato. Gli istituti potranno investire fino al 15% del proprio patrimonio di vigilanza su una singola partecipazione e fino al 60% in quote di imprese. Con l’autorizzazione a diventare imprenditori in proprio salendo al 100% di un’attività industriale. Tradotto in cifre significa che Unicredit – per dare un’idea – avrebbe (al lordo dei soldi già impiegati nel capitale di imprese) ben 33 miliardi a disposizione per sostenere il tessuto industriale del paese. Intesa avrebbe una forza d’urto di 23 miliardi, Mps di 7.
Cosa succederà davvero nei prossimi mesi? Questo fiume d’oro cambierà da subito il volto delle imprese di casa nostra? La rivoluzione, dicono in Abi, non sarà immediata. Per un motivo semplice. La crisi dei subprime ha congelato il credito. E le banche oggi sono concentrate più a far quadrare i propri conti che a valutare come riallocare il proprio patrimonio. Non solo. Fino a quando i loro ratios saranno "tirati" come oggi, «sarà ancora molto più conveniente e facile prestare soldi piuttosto che impegnarli in operazioni di ricapitalizzazione», come osserva Gregorio De Felice, presidente dell’Associazione degli analisti finanziari (Aiaf) e responsabile dell’ufficio studi di IntesaSanPaolo.
Proprio la crisi potrebbe però far da catalizzatore a un’accelerazione del processo di osmosi tra banche e imprese. La recessione – è inevitabile – tenderà a moltiplicare le crisi aziendali, com’è successo in questi mesi ad Alitalia e Pininfarina. E in assenza di altri mezzi per arginare difficoltà temporanee di liquidità, l’investimento azionario degli istituti potrebbe diventare la chiave di volta per traghettare interi pezzi del sistema paese verso il rilancio. Magari con profitto per le banche, com’è successo a chi si è liberato per tempo del convertendo Fiat, il salvagente finanziario lanciato al Lingotto nel momento peggiore della sua crisi quattro anni fa.
Anche guardando al di là di questa delicata fase congiunturale, per il credito di casa nostra si aprirà comunque un nuovo orizzonte: la possibilità di fare vera e propria attività di private equity, comprando società, valorizzandole e poi rivendendole o collocandole in Borsa. Operazioni che i loro concorrenti in giro per l’Europa potevano fare già da tempo. La potenza d’urto delle grandi banche potrebbe costituire un carburante fondamentale per tenere in piedi attività ad alto fabbisogno di capitale (come l’hitech, le biotecnologie e la ricerca) – orfane con questi chiari di luna del sostegno dei venture capital travolti dalla crisi – e per facilitare i complessi passaggi generazionali delle tante aziende di famiglia nazionali.
Il nodo, naturalmente, è se gli istituti di credito avranno davvero i soldi a disposizione per lanciarsi in questa nuova avventura in un momento in cui il sistema industriale del paese ne ha così bisogno. I margini oggi sono stretti, malgrado i nostri big abbiano retto la crisi molto meglio dei concorrenti stranieri. E la chiave di volta per far crollare davvero il Muro di Berlino tra questi due mondi – con beneficio per tutti – potrebbe essere un intervento di sistema del Tesoro destinato a rafforzare i patrimoni del credito, dando così una mano indiretta a sostenere l’intero sistema produttivo nazionale. Tanto più che in vista di un possibile piano di investimenti in infrastrutture, le nuove regole potrebbero permettere in futuro alle banche di partecipare in prima fila con i loro mezzi propri al processo di ammodernamento del paese.
Le autorità di controllo, Banca d’Italia in testa, sono naturalmente all’erta. I confini più labili tra banche e imprese, tra gli effetti collaterali, aumentano a dismisura i rischi di conflitti di interesse in un paese in cui sul tema – come dimostra il recente intervento dell’antitrust – abbiamo già le nostre grane. Palazzo Koch, non a caso, sta definendo norme rigidissime per definire le parti correlate nel calcolo di affidamenti e quote azionarie per i big del credito che su questo fronte hanno qualche peccatuccio da farsi perdonare. Qualcuno, come Intesa Sanpaolo, ha già anticipato i tempi, autoregolandosi con un giro di vite e sottoponendo a iter d’approvazione particolari le operazioni con soci al di sopra del 2% (il limite di legge è del 5%).
La mappa dei nuovi rapporti di potere tra industria e credito, tra l’altro, si è arricchita di recente di un nuovo provvedimento del governo che ha liberalizzato gli investimenti anche in senso opposto. Consentendo cioè agli imprenditori di diventare padroni delle banche. La prima ad approfittarne è stata la Ge, che grazie a queste nuove norme ha potuto rilevare il controllo di Interbanca. Un’operazione al di sopra di ogni sospetto. Ma viste le cattive abitudini del Belpaese, dove i soci azionisti degli istituti sono poi misteriosamente diventati anche i loro principali debitori, anche in questo caso sarà necessario tener alta la guardia per evitare che un passo avanti nel senso della trasparenza del sistema si trasformi in realtà in un nuovo (non sarebbe la prima volta) passo indietro.
da giornale kommunista
ma la morale è: le banche son padrone dell'industria (e quindi tutto) e viceserva ma padrone di che? di farfalle?