Violenza maschile sulle donne: una questione di potere e di proprietà
Gli uomini non uccidono le donne perchè hanno dei problemi cognitivo/affettivi, né perchè la mamma non li ha educati bene. Se così fosse, sarebbero impermeabili a qualunque percorso rieducativo di qualunque genere. Gli uomini uccidono le donne perchè da circa quattro millenni hanno deciso di usarle come oggetti di proprietà e divertissement al loro servizio. Possiamo dire che il paradigma del modello razzista, ed in quanto tale fascista di assoggettamento e sfruttamento dell’Altro, è senz’altro quello che il maschile ha operato nei confronti del primo Altro-da-sè: la donna, ossia la metà dell’umanità. Non lo diciamo noi, ce lo hanno spiegato loro, scritto nero su bianco in centinaia di testi in cui ci hanno spiegato (e neanche smettono di farlo) i motivi per i quali saremmo esseri inferiori e insieme tutte le regole e le leggi che hanno prodotto per assicurarsi la proprietà sui corpi di donne e bambini. Lo ribadiamo perchè vediamo in questi giorni il fallimento, oltre che il danno che sta producendo un’analisi sbagliata di un fenomeno - il femminicidio - che rappresenta solo la punta dell’iceberg di sfumature di oppressione come stupri, molestie, violenze domestiche e nei tribunali ecc. l’elenco è lungo.
E’ un problema “culturale” si dice. Certo. Anche la mafia è stata definita un problema culturale, ma nessuno si sarebbe sognato di combatterla con la mediazione diretta nei tribunali tra mafioso e cittadino. Ma siccome parliamo di donne, allora tutto diventa possibile. E così, in questi giorni di angoscia e lutto per la morte di altre due giovani ragazze, il tribunale di Siena applica la riforma Cartabia e invita una giovane schermitrice vittima di stupro (all’epoca dei fatti aveva solo 17 anni) ad incontrare i suoi aguzzini ammessi al percorso della cosiddetta “giustizia riparativa” che permette loro di ottenere sconti di pena frequentando per qualche mese percorsi non meglio definiti e ancor meno definiti operatori presso associazioni del privato-sociale accreditato. Quanto basterebbe per chiedere, in quanto donne, la revisione del nostro patto con lo Stato. E invece si ripete, come un mantra, la necessità per le donne di andare a denunciare.
E ci sembra lecito chiedere anche dove si trovassero i presidi dell’antiviolenza quando si è redatta e adottata questa riforma, trascurando per un momento un pensiero che potessero perfino condividerla per non essere sopraffatte dalla rabbia.
Neanche di fronte all’evidenza che impone l’età sempre più giovane di questi assassini ci si ferma a riflettere e si ripete l’altro noto mantra dell’educazione affettiva nelle scuole come unica soluzione.
Considerare la violenza maschile per quella che è, cioè un gesto di abuso di potere considerato legittimo, imporrebbe principalmente di contrastare tutto ciò che conferma il principio maschile di proprietà sui corpi delle donne ad uso di servizio, leggi la pornografia selvaggia e ormai disponibile in ogni dove, il serio contrasto alla prostituzione, per esempio multandone i clienti, la riforma della legge 54 che ha ripristinato il principio di proprietà sui figli e magari far chiudere tutte le pagine Incel che grondano odio misogino, ma che contemporaneamente confermano la natura della violenza contro le donne. Tutto questo sarebbe leggibile e comprensibile ai giovani, soprattutto renderebbe credibile qualunque altra parola spesa nei corsetti nelle scuole.
Ci aspettiamo una svolta decisa nella considerazione della violenza maschile e, quindi, dei reati contro le donne che sono reati contro la libertà di tutti, a cominciare dallo stralcio della possibilità di mediazione che potrebbe rappresentare il primo significativo contenuto della legge che inquadra il femminicidio come un fenomeno strutturale da combattere con leggi speciali.
I fatti sono chiari, le donne ancorchè frustrate, arrabbiate, depresse (e ne hanno anche solidissimi motivi) non vanno in giro ad uccidere gli uomini. Siamo diverse, apparteniamo alla cultura della libertà nella relazione che proviene dal materno, una cultura affatto integrata, anzi in questa fase molto disprezzata, e infatti siamo sull’orlo di una guerra perfino. Una guerra che per noi è sempre.