Derivati USA: CME-CBOT-NYMEX-ICE BUND, TBOND and the middle of the guado (VM 69) (1 Viewer)

Fleursdumal

फूल की बुराई
ritraccio su eurostoxx giusto sul lato inferiore canalina ascendente 15 e supporto grafico area 2700-2710 , giusto in tempo per i primi dati merikani :-o
 

msldnl

Nuovo forumer
pullback sul notturno sull'area della media mobile a 200 giorni.
Allo spoore piacciono davvero tanto le medie mobili.
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Fleursdumal

फूल की बुराई
più che a squizzare questi cercano come al solito di scrollarsi di groppa le mosche rialziste :D vedendo elementarmente il grafo penso ci sia spazio fino a 1150 , cosa sarebbe? un bel testa e spalle no , quelle figure che non riescono mai :D
gli stirs intanto hanno cambiato correlazione a 180° , buon segno per gli indici
 

gipa69

collegio dei patafisici
Lodiamoci ed imbrodiamoci anche se senza soldi in sakkoccia....:rolleyes: movimento concluso sui minimi notturni (poco sopra l'area indicata come target della finta ribassista) e rally a rompere le fatidiche resistenze e quindi long con possibilità di tentare un nuovo long sul probabile pullback sulla mm200 e statica da quelle parti. In ogni caso nel corso dell'estate vedo ancora su e giù come detto sempre ieri allo scambista del gruppo.... :D

:S:spam:;-)
 

Sharnin 2

Forumer storico
Questo è per Meta :D

Mi scuso per la lunghezza dell'articolo, ma è veramente interessante.

MISTERI DI STATO/SCOPERTO ECHELON ITALIA
di Rita Pennarola [ 05/04/2009]

Prove generali di stretto controllo telematico nei tribunali e Procure di tutta Italia. Genchi lo aveva capito: un grande orecchio e' in ascolto e con il nuovo Registro Generale Web l'operazione sara' completata. A realizzare gli apparati per conto di Via Arenula sono alcune big finite nelle inchieste Why Not e Poseidone. Ecco in esclusiva la storia vera dei protagonisti di questo inedito Echelon a Palazzo di Giustizia. Vicende che ci riportano lontano. Fino a misteri di Stato come la strage di Ustica ed il massacro di via D'Amelio.

C'erano una volta i rendez vous segreti nelle suite super riservate dei grandi alberghi. A Roma era l'Excelsior, a Napoli una fra le quattro-cinque perle del lungomare. Nella capitale ricevevano gli uomini di Licio Gelli - quando non direttamente il Venerabile in persona - per impartire quelle direttive stabilite in luoghi ancora piu' elevati che poi i diversi referenti, tutti d'altissimo rango (compresi capi dei governi e della magistratura) dovevano portare avanti per orientare il corso della storia. Cos'altro era, per esempio, il summit che si tenne al largo di Civitavecchia sul panfilo Britannia della regina Elisabetta il 2 giugno del 1992, quando fu decisa quella colonizzazione selvaggia dell'Italia - attuata a suon di privatizzazioni senza soluzioni di continuita' prima da Prodi e poi da Berlusconi - di cui ancora oggi scontiamo gli effetti? E cos'altro fu a Napoli, dentro il prive' a un passo dal cielo con vista sul golfo, quella sorta di “tribunale preventivo” nel quale, al primo scoppio serio di Tangentopoli, nel 1993 vennero convocati i proconsoli democristiani e socialisti per imporre loro di accettare un lauto vitalizio dopo essersi accollati le malefatte giudiziarie dei rispettivi leader politici?
Piccoli squarci di luce sotto un velame oscuro che si e' fatto nel tempo sempre piu' plumbeo, ma anche piu' sofisticato grazie all'uso ardito e sapiente di tecnologie solo vent'anni fa impensabili. Cosi' a fine anni ottanta, mentre gli americani sperimentavano il controllo a tappeto dei miliardi di abitanti del pianeta collaudando la piu' straordinaria rete spionistica telematica che fosse mai stata immaginata - Echelon - prima solo in ambito militare, poi estesa anche ad usi civili, in Italia per decidere le sorti della giustizia ed incanalare il destino dei processi era ancora necessario ricorrere ad incontri vis a vis, sfruttando canali di mediazione come le agape massoniche o i pizzini orali, passati di bocca in bocca tra colletti bianchi e intermediari mafiosi.
Da tempo non e' piu' cosi'. Almeno da quando, una decina di anni fa, il controllo telematico dei palazzi di giustizia italiani ha cominciato a diventare una rete che avviluppa, scruta e controlla tutto, dai piani alti della Cassazione alla scrivania dell'ultimo cancelliere, dalle Alpi alla Sicilia. Dopo il monitoraggio minuto per minuto delle operazioni finanziarie - che avvengono ormai esclusivamente on line da un capo all'altro del mondo - ora qualcuno sta cercando di tracciare ed orientare definitivamente anche le sorti dell'intero sistema giudiziario nel Belpaese. Al punto che, a distanza di appena quattro-cinque anni dagli spionaggi alla Pio Pompa o alla Tavaroli, il quadro e' un altro: oggi non serve piu' spiare, basta entrare nella rete dalla porta giusta, mettersi in ascolto. E poi decidere.
Ne e' passata insomma di acqua sotto i ponti da quel quel luglio del 1992, quando per coprire errori ed omissioni nel massacro di Capaci si rese “necessario” far saltare in aria anche Paolo Borsellino con tutta la sua scorta, lasciandoci dietro, ancora una volta, tutta una serie di tracce insanguinate, piccoli e grandi particolari cartacei fatti sparire troppo in fretta, come l'agenda rossa, portata via clamorosamente sotto gli occhi di tutti dal colonnello Arcangioli solo pochi minuti dopo l'eccidio. Un sistema, del resto, quello della “pulizia totale”, che compare come un macabro rituale anche in omicidi di quel tempo, quale quello del giornalista antimafia Beppe Alfano, nel 1993, la cui figlia Sonia racconta di quegli autentici plotoni di polizia e carabinieri entrati per ore a devastare armadi e cassetti di una famiglia ammutolita da un dolore lancinante ed improvviso, alla ricerca di carte, documenti, fascicoli, «quasi che il criminale fosse mio padre - racconta oggi Sonia - ancora a terra in una pozza di sangue, e non coloro che lo avevano atteso per ammmazzarlo».
Quella volta pero', quel 19 luglio 1992, era gia' in azione un vicequestore siciliano che nell'uso delle tecnologie informatiche era piu' avanti delle stesse barbe finte nostrane, ancora costrette a perquisizioni, pulizie, furti per occultare le prove dei crimini di Stato. Quel vicequestore si chiamava Gioacchino Genchi. E la sua storia, i violenti tentativi di zittirlo e delegittimarlo fino all'annientamento (come la repentina sospensione dal corpo di Polizia, che ha fatto sollevare l'opinione pubblica in tutta Italia), ci fa ripiombare di colpo dentro l'Italia di oggi, in un Paese dove per uccidere uno o due magistrati non e' piu' necessario spargere sangue. Perche' a tutto pensa il grande Echelon del sistema giudiziario italiano, Che ha - come vedremo - nomi, volti e terminali ben precisi.

IL PADRE DI ECHELON
E partiamo da un uomo che Echelon ha confessato di averlo realizzato per davvero. O, almeno, ha ammesso di aver collaborato alla messa a punto del Grande Orecchio americano. Quest'uomo si chiama Maurizio Poerio, e' un imprenditore nei sistemi informatici ad altissima specializzazione e su di lui si soffermano a lungo i pubblici ministeri salernitani che indagavano sui loro colleghi della procura di Catanzaro, messi sotto accusa con una mole impressionante di rilevanze investigative raccolte dall'allora pm Luigi De Magistris grazie anche alla consulenza prestata da Gioacchino Genchi.
Un nome, Poerio, una scatola nera che racchiude mille misteri. Ma cominciamo dall'oggi. E cominciamo dalle tante verbalizzazioni nelle quali De Magistris a Salerno dichiara apertamente che potrebbe essere stato spiato, che tutta la sua attivita' investigativa era stata probabilmente - o quasi certamente - monitorata fin dall'inizio. Non attraverso gli 007 dei Servizi, ma in maniera semplice e naturale, vale a dire attraverso la societa' privata che gestisce i sistemi informatici dell'intero pianeta giustizia in Italia. Questa societa' e' la la CM Sistemi. Appunto. Con una potentissima e storica diramazione - la CM Sistemi Sud - proprio in Calabria, regione dalla quale la attuale corporate aveva avuto origine negli anni ottanta. Ma anche la regione dove questa societa' si aggiudica da sempre l'appalto per la “cura” degli uffici giudiziari. E in cui risiede il suo amministratore delegato: quella stessa Enza Bruno Bossio, moglie del plenipotenziario Ds Nicola Adamo ma, soprattutto, pesantemente indagata prima nell'inchiesta Poseidone (il bubbone avocato a De Magistris in circostanze ancora tutte da chiarire sul piano della legittimita') e poi in Why Not.
Perche' del colosso CM Sistemi Maurizio Poerio e' una colonna portante, capace di tessere ed orientare i rapporti con la pubblica amministrazione - leggi in particolare Via Arenula - come e' scritto, fra l'altro, nell'indicazione specifica delle sue mansioni: “consigliere delegato ai rapporti istituzionali”.
Ma Poerio non e' solo un manager dell'ICT (Information and Communication Technology) prestato alla CM. Il suo ruolo, come dimostra la perquisizione di De Magistris presso i suoi uffici romani, va ben oltre. L'11 settembre del 2006, interrogato nell'ambito di Poseidone, l'imprenditore calabrese prova a prendere le distanze da quella societa', che appare gia' dentro fino al collo nell'inchiesta giudiziaria. «Conosco molto bene - affermava rispondendo ad una precisa domanda - Marcello Pacifico, presidente della CM Sistemi, societa' per la quale ho collaborato attraverso un contratto di consulenza professionale». Un tentativo estremo di prendere il largo: da buon commercialista (e' iscritto all'ordine di Catanzaro) Poerio sapeva bene che sarebbe bastata una semplice visura camerale a smentirlo. Della romana CM Sistemi spa, infatti, oltre un milione e mezzo di capitale nel motore, il manager calabrese e' a tutti gli effetti consigliere d'amministrazione, all'interno di un organigramma che risulta quasi identico a quello della sua costola meridionale, la stessa CM Sistemi Sud capitanata dalla Bruno Bossio. Perche' allora parlare di semplici “consulenze”? Il fatto e' che la faccenda si stava facendo complicata. Dal momento che per la prima volta quel grande orecchio invisibile capace di scrutare dentro tutti gli uffici giudiziari italiani stava dando segnali concreti della sua esistenza. E in gioco - cominciava a capire De Magistris, ma ne era ben consapevole da tempo lo stesso Poerio - non c'era solo la storia degli appalti pilotati a Procure e tribunali della Calabria (gara “regolarmente” aggiudicata per l'ennesima voltra alla CM Sistemi Sud), ma la credibilita' dell'intero pianeta giustizia nel nostro Paese, se non addirittura i destini del sistema Italia. E questo, soprattutto per due principali motivi.
E' il consulente del pubblico ministero De Magistris, Pietro Sagona, ad illuminare i pm salernitani su alcune circostanze a dir poco imbarazzanti che riguardano la CM Sistemi (siamo al 7 aprile 2008, ma Sagona riferisce particolari che evidentemente erano gia' ben noti a Poerio e company): «Nell'ambito degli accertamenti da me espletati e' emersa la rilevanza del consorzio Tecnesud, destinatario di un finanziamento pubblico gia' in fase di stipula della convezione con il Ministero delle Attivita' Produttive, non stipulato soltanto a causa della mancanza di uno dei cinque certificati antimafia richiesti e pervenuti relativo alla societa' Forest srl titolare di un'iniziativa consorziata ed agevolata. Il finanziamento era di sessanta milioni di euro complessivi, otto dei quali a carico della Regione Calabria, il residuo a carico dello Stato». Del consorzio faceva parte anche la CM Sistemi. Ma perche' alla socia Forest non era stato rilasciato il certificato antimafia? Risponde Sagona: «Presidente della Forest era tale avvocato Giuseppe Luppino, nato a Gioia Tauro il 5 marzo 1959, nipote di Sorridente Emilio, classe 1927, ritenuto organicamente inserito nella consorteria mafiosa dei Piromalli-Mole'». E non e' finita: «il predetto Luppino risultava esser stato denunciato per gravi reati quali turbata liberta' degli incanti, favoreggiamento personale, falsita' ideologica ed associazione per delinquere di stampo mafioso» e sottoposto a procedimento penale a Palmi.
Ricapitolando: la CM Sistemi, talmente affidabile da vincere la gara d'appalto per l'informatizzazione di tutti gli uffici giudiziari nella regione Calabria, sedeva nel consorzio Tecnesud accanto ad una sigla, la Forest, riconducibile ad una fra le piu' pericolose cosche della ‘ndrangheta.
Una circostanza allarmante. Ma non l'unica. In quello stesso, fatidico interrogatorio dell'11 settembre 2006 Poerio, per accrescere la propria credibilita' di manager in rapporti transnazionali, non manco' di aggiungere: «Mi sono occupato per conto della I.T.S. di una serie di progetti per l'utilizzo di tecnologie per le informazioni satellitari per uso civile, quale ad esempio il progetto Echelon negli Stati Uniti d'America e GIS in Italia». Di sicuro, insomma, Poerio era un personaggio che in fatto di “controllo a distanza” poteva considerarsi fra i massimi esperti mondiali.

I FRATELLI DEL RE.GE.
Fu probabilmente proprio allora che la sensazione di essere spiato divento' per De Magistris qualcosa di piu' d'una semplice impressione. Con elementi che nel tempo andavano ad incastrarsi come tessere di un mosaico per confermare quella ipotesi. Sara' lo stesso ex pm a raccontarlo piu' volte ai colleghi salernitani, come si legge in alcune pagine delle sue lunghe verbalizzazioni riportate per esteso nell'ordinanza di perquisizione e sequestro emessa a carico della Procura di Catanzaro.
Il 24 settembre del 2008 De Magistris contestualizza innanzitutto tempi e personaggi di quel “sistema” che aveva il suo terminale dentro il ministero della Giustizia, retto nel 2007 dall'indagato di Why Not Clemente Mastella. Ed arriva al collegamento fra quest'ultimo e la CM Sistemi. Ci arriva attraverso un altro carrozzone politico destinatario di enormi provvidenze pubbliche in Calabria, il consorzio TESI, del quale faceva parte la societa' della Bruno Bossio (e quindi di Poerio): sempre lei, la regina CM. «Personaggio che ritenevo centrale quale anello di collegamento tra il Mastella ed ambienti politici ed istituzionali, oltre che professionali, in Calabria ed anche a Roma - dichiara De Magistris - era l'avvocato Fabrizio Criscuolo, il cui nominativo emergeva anche nelle agende e rubriche rinvenute durante le perquisizioni effettuate nei confronti del Saladino (il principale inquisito di Why Not Antonio Saladino, ndr). Nello studio associato Criscuolo presta servizio quale avvocato anche Pellegrino Mastella, figlio dell'ex-ministro».
Ma non basta. «Il predetto Criscuolo risulta aver coperto la carica di consigliere d'amministrazione della Aeroporto Sant'Anna spa, con sede in Isola Capo Rizzuto, il cui presidente era il professor Giorgio Sganga, coinvolto nelle indagini Poseidone e Why Not in quanto compariva nell'ambito della compagine della societa' TESI» in compagnia, appunto, della CM. Insomma, da Mastella a Criscuolo, da Criscuolo a Sganga fino a TESI, dove ritroviamo la CM e gli appalti negli uffici giudiziari. Compresa la realizzazione del RE.GE, vale a dire lo strategico Registro Generale centralizzato nel quale pm e gip sono tenuti a riversare tutte le risultanze del loro lavoro, ma anche ad anticipare le iniziative giudiziarie (perquisizioni, sequestri etc.) che andranno ad effettuare di li' a poco.
Altro trait d'union fra gli artefici del Grande Orecchio in Procura e l'allora titolare di Via Arenula lo si rintraccia seguendo la carriera del secondo figlio di Mastella, Elios. «Dalle attivita' investigative che stavo espletando - precisa De Magistris - era emerso che Elio Mastella era dipendente, quale ingegnere, nella societa' Finmeccanica, oggetto di investigazioni nell'inchiesta Poseidone, societa' interessata anche ad ottenere il controllo, proprio durante il dicastero Mastella, dell'intero settore delle intercettazioni telefoniche». Ma in Finmeccanica «si evidenzia anche il ruolo di Franco Bonferroni (legatissimo a piduisti come Giancarlo Elia Valori e Luigi Bisignani, ndr) gia' destinatario di decreto di perquisizione e coinvolto nelle inchieste Poseidone e Why Not, nonche' il genero del gia' direttore del Sismi, il generale della GdF Nicolo' Pollari». E dire Finmeccanica significava in qualche modo tornare a Maurizio Poerio, che proprio insieme a quella societa' aveva preso parte a numerosi progetti internazionali, in primis quello denominato “Galileo”.

IL NEMICO TI ASCOLTA
Il 16 novembre 2007 De Magistris dichiara di aver acquisito elementi sull'attivita' di “monitoraggio” che andava avanti ai suoi danni (e questo spiegherebbe fra l'altro anche il rincorrersi di strane “anticipazioni”, come quando il pm apprese dell'avocazione del fascicolo Poseidone dalla telefonata di un giornalista dell'Ansa dopo che, a sua totale insaputa, la notizia era addirittura gia' stata pubblicata da un quotidiano locale): «spesso ho avuto l'impressione di essere anticipato, e questo sia in “Poseidone che in Why Not; si e' verificato, cioe' proprio mentre... appena arrivo al punto finale, le indagini vengono sottratte. Poi... intervenivano le interrogazioni parlamentari, e arrivavano gli ispettori, e arrivavano le missive. Cioe' sempre o di pari passo, o qualche volta addirittura in anticipo su quelle che potevano essere poi le mosse formali successive».
Ma le “fughe di notizie”, una volta trovato il sistema per realizzarle, potevano anche essere sapientemente pilotate: «ad un certo punto - dice De Magistris ai colleghi di Salerno nelle dichiarazioni rese a dicembre 2007 - penso che sia stata utilizzata la tecnica di “pilotare” una serie di fughe di notizie per poi attribuirle a me. Si facevano avere notizie anche a giornalisti che avevo conosciuto in modo tale da attribuire poi a me il ruolo di “fonte” di questi ultimi. Per non parlare delle gravi e reiterate fughe di notizie sulle audizioni al Csm anche in articoli pubblicati dal Corriere della Sera e da La Stampa: perfino la mia memoria, depositata con il crisma del protocollo riservato, e' stata riportata, in parte, virgolettata».
E cosi', grazie allo stesso, collaudato “orecchio”, puo' accadere anche che, alla vigilia di importanti e riservatissimi provvedimenti cautelari, i destinatari siano gia' ampiamente informati e mettano in atto adeguate contromisure. E se il metodo funziona, perche' non adottarlo anche in altre Procure, come a Santa Maria Capua Vetere? Torniamo a fine 2007, ai giorni caldi che precedettero le dimissioni di Mastella, il ritiro della fiducia al governo da parte dell'Udeur e la conseguente caduta dell'esecutivo Prodi. «Taluni quotidiani nazionali - osserva De Magistris - hanno riportato fatti dai quali si evincerebbe che lo stesso senatore Mastella o ambienti a lui vicinissimi abbiano contribuito, forse anche con l'ausilio di soggetti ricoprenti posti apicali al Ministero della Giustizia, a far trapelare la notizia degli imminenti arresti da parte della magistratura di Santa Maria Capua Vetere, o che comunque fossero al corrente del fatto e si adoperassero per predisporre una “strategia difensiva”. Del resto resoconti giornalistici informano che il senatore Mastella avesse gia' pronto un “ricco” discorso in Parlamento ed il consuocero (Bruno Camilleri, cui stava per essere notificata un'ordinanza di custodia cautelare in carcere, ndr), la sera prima, si fosse ricoverato in una clinica».

DA POSEIDONE A USTICA

Come abbiamo visto, l'Echelon del 2000 non e' piu' la creatura misteriosa messa in piedi negli anni della guerra fredda dai pionieri della tecnologia. Oggi le apparecchiature avvolgono in una rete invisibile praticamente tutti i palazzi di giustizia. Ed il controllo e' centralizzato. Ovvio, allora, che se si intende “gestire” questo sistema garantendosi ogni possibilita' di accesso occulto (la parola spionaggio a questo punto perde anche di senso) occorre poter contare su garanti fidati. Persone che, per il loro passato, offrano i massimi requisiti di affidabilita' e riservatezza.
E torniamo a Maurizio Poerio, le cui origini ci conducono lontano nel tempo. Fino a quel 27 giugno del 1980 quando il DC 9 Itavia caduto nei mari di Ustica con 81 persone a bordo avrebbe dovuto mostrare agli occhi del mondo le attivita' di terrorismo internazionale messe in atto dal nemico numero uno degli americani, il leader libico Muammar Gheddafi. Un punto chiave dentro quelle complesse indagini (che ancora oggi attendono una risposta univoca sui mandanti) fu il piccolo aereo libico, un MIG, caduto in quelle stesse ore nel territorio di Villaggio Mancuso, sulla Sila, comune di Castelsilano, al quale l'inchiesta di Rosario Priore dedica alcune centinaia di pagine. Perche' dalla data precisa del suo abbattimento (deducibile anche dai frammenti presenti sul posto) discendeva tutta la ricostruzione dello scenario di guerra in atto quella notte nei cieli d'Italia. Di particolare rilevanza per le indagini il fatto che quel territorio era assai vicino alla base logistica dell'Itavia e degli F16 militari. Un luogo scottante, dunque. Tanto che anche il capitolo sull'impresa che si aggiudico' i lavori per la raccolta e lo stoccaggio dei frammenti del velivolo libico presenta ancora oggi molti punti oscuri. A cominciare dal fatto che quella ditta fu chiamata a trattativa privata. Ed era in forte odor di mafia.
Passano alcuni anni. Nel ‘93, nell'ambito del Gruppo Mancuso, nasce la Minerva Airlines. [Minerva è un nome da Servizi] «La societa', di proprieta' di Maurizio Poerio - annotano i cronisti qualche anno piu' tardi - si propone di valorizzare l'aeroporto di Crotone, ridotto ad “aeroprato” dopo essere stato base di Itavia e degli F16 militari».
47 anni, nato a Catanzaro (e verosimilmente imparentato col catanzarese Luigi Poerio, classe 1954, ingegnere edile ed iscritto alla Massoneria), Maurizio Poerio si laurea in economia a Bologna, poi si butta nell'alimentazione del bestiame: torna in Calabria e rileva la Mangimi Sila, piattaforma di lancio per i vertici di Confindustria dove restera' a lungo (al pm De Magistris racconta, fra l'altro, dei suoi rapporti professionali e d'amicizia con l'attuale leader Emma Marcegaglia). Minerva Airlines viene dichiarata fallita dal tribunale di Catanzaro a febbraio 2004. E Poerio andra' a rivestire ruoli sempre piu' apicali nelle principali business company dell'ICT, proiettando al tempo stesso la “sua” CM Sistemi dentro il cuore degli uffici giudiziari italiani.

DA WHY NOT A VIA D'AMELIO

«Altro che Grande Orecchio nei computer di Giacchino Genchi - dice un esperto in riferimento alle accuse rivolte al principale consulente informatico di De Magistris - la verita' e' che la centrale di ascolto ha oggi i suoi terminali al Ministero, nei Palazzi di Giustizia. E che Genchi tutto questo lo aveva scoperto da tempo».
Il tempo che basta per capire le tante, impressionanti ricorrenze tra fatti e personaggi delle attuali inchieste calabresi ed il contesto di omissioni ed omerta' dentro cui maturarono, nel 1992, la strage di via D'Amelio e le successive, tortuose indagini. Alle quali prese parte proprio Gioacchino Genchi.
E' stato lui ad indicare senza mezzi termini l'allucinante sequenza delle “similitudini”, senza tuttavia fornire ulteriori particolari. E allora proviamo a ricostruirne qualcuno noi.
Cominciando magari dai Gesuiti, da quella Compagnia delle Opere onnipresente nelle inchieste di Catanzaro (basti pensare alla figura centrale di Antonio Saladino) che all'epoca di Falcone e Borsellino era incarnata a Palermo da padre Ennio Pintacuda, fondatore del Cerisdi, il Centro Ricerche e Studi Direzionali con sede in quello stesso Castello Utveggio che sovrasta Palermo. E nel quale aveva una sede di copertura, nel ‘92, anche quell'ufficio riservato del Sisde che avrebbe rivestito una parte rilevantissima nella strage. Fino al punto che - secondo molte accreditate ricostruzioni - il telecomando che innesco' l'autobomba poteva essere posizionato proprio all'interno del castello. Pochi minuti dopo l'eccidio Genchi effettua un sopralluogo proprio sul monte Pellegrino, a Castello Utveggio. Si legge nella sentenza del Borsellino bis: «Il dr. Genchi ha chiarito che l'ipotesi che il commando stragista potesse essere appostato nel castello Utevggio era stata formulata come ipotesi di lavoro investigativo che il suo gruppo considerava assai utile per ulteriori sviluppi».
Oggi il Cerisdi svolge rilevanti attivita' formative su incarico della Pubblica Amministrazione, prime fra tutti la Regione Calabria e la citta' di Palermo. Suo vicepresidente (per il numero uno va avanti da anni la disputa e la poltrona risulta vacante) e' un penalista palermitano, Raffaele Bonsignore, difensore di pezzi da novanta di Cosa Nostra. Ma anche del “giudice ammazzasentenze” Corrado Carnevale.
Co-fondatore del Centro Studi era stato negli anni novanta l'allora presidente dc della Regione Sicilia Rino Nicolosi: se la sua era un'investitura di carattere politico, di tutto rilievo operativo nel Cerisdi risultava invece la figura del suo braccio destro Sandro Musco, che si occupava fra l'altro di rapporti istituzionali e con le imprese. Massone, docente di filosofia, Musco e' oggi tra i principali referenti dell'Udeur in Sicilia. [oggi è il massonissimo PROF. ADELFIO ELIO CARDINALE]
Mastella, ancora lui. Il suo nome ricorre, non meno di quello del pentito Francesco Campanella, che ritroviamo nelle carte di Why Not. Fu proprio Musco a consegnare nelle mani di Mastella, durante la convention di Telese del 2005, la lettera privata in cui Campanella si gettava ai piedi del leader: «Carissimo Clemente, ti scrivo con il cuore gonfio di tantissime emozioni, esclusivamente per ringraziarti di cuore poiche' nella mia vita ho frequentato tantissima gente e intrattenuto innumerevoli rapporti, tanti evidentemente errati. Sei l'unica persona del mondo politico che ricordo con affetto, con stima, con estremo rispetto, perche' sei sempre stato come un padre per me, e resta in me enorme l'insegnamento della vita politica che mi hai trasmesso. (...) Affido questa lettera a Sandro che tra i tanti e' una persona che nella disgrazia mi e' stata vicina. Sappi che ripongo in lui speranza e fiducia per quello che potra' darti in termini di contributo. È certamente una persona integra di cui potersi fidare».
Il 3 gennaio 2008 Luigi De Magistris chiarisce ai pubblici ministeri salernitani Gabriella Nuzzi e Dionigi Verasani le circostanze in cui compare il nome di Francesco Campanella nell'inchiesta Poseidone: «venni a sapere che poteva essere utile escutere il collaboratore di giustizia Francesco Campanella che ha ricoperto un importante ruolo politico in Sicilia e che risultava essere anche in contatto con esponenti politici di primo piano, in particolare dell'Udc e dell'Udeur. Tale collaboratore mi rilascio' significative dichiarazioni con riguardo al finanziamento del partito dell'Udc e le modalita' con le quali veniva “reinvestito” il denaro, dalla “politica”, in circuiti di apparente legalita'. Dovevo escutere il Campanella, persona affiliata alla massoneria - che si stava ponendo in una posizione di assoluta rilevanza nell'ambito dell'organizzazione mafiosa denominata Cosa Nostra - del quale l'attuale Ministro della Giustizia e' stato testimone di nozze, in quanto aveva rilasciato all'autorita' giudiziaria di Palermo dichiarazioni con riguardo a presunte dazioni di denaro illecite con riferimento alle licenze Umts che vedevano, in qualche modo, coinvolti sia l'attuale Ministro della Giustizia Clemente Mastella che l'allora Presidente del Consiglio Massimo D'Alema».
Una circostanza che Mastella, quando era ministro della Giustizia, ha dovuto smentire in aula rispondendo alla domanda di un avvocato. Era Raffaele Bonsignore, vertice del Cerisdi. E difensore dell'imputato di Cosa Nostra Nino Mandala'.
 

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L’attentato di via Fauro

L’attentato pare diretto al giornalista Maurizio Costanzo, che ci stava passando, ma che al momento dello scoppio era ancora fuori bersaglio. Sulla stessa via, a una manciata di metri, c’è parcheggiata la Y10 di Lorenzo Narracci, vice di Contrada al Sisde, che abita lì. C’è chi si chiede se il vero obiettivo fosse lui.

Lorenzo Narracci, vicecapo del Sisde a Palermo fino a 9 anni fa. Narracci, oltre ad essere stato raggiunto da una telefonata di Bruno Contrada partita 80 secondi dopo lo scoppio della bomba che uccise Paolo Borsellino, è anche l’utente cui apparteneva il il numero di cellulare annotato su un biglietto, trovato dagli investigatori sulla montagna dove fu premuto il telecomando per uccidere Giovanni Falcone. Una ulteriore coincidenza vuole che proprio in via Fauro abiti proprio lui, Lorenzo Narracci.


13 anni da Via D’Amelio – Le nuove piste
Andrea Cinquegrani – “ La Voce della Campania”
LaVoceDellaCampania.it

Misteri di Stato. Misteri di casa (o Cosa) nostra. Dopo 13 anni esatti, i mandanti delle stragi di Capaci e via D’Amelio - che hanno segnato le resa della giustizia di fronte alle Mafie - sono ancora sconosciuti. “A volto coperto”, come si dice in gergo giudiziario, visto che diverse inchieste per scoprire il terzo o quarto livello erano partite. Alcune si sono perse, ovviamente, per strada, altre archiviate, o con qualche brandello ancora in corso. E’ lo spaccato della giustizia nostrana, sempre pronta ad assicurare alla galere il mafioso o il camorrista che viene trovato con la pistola fumante in mano o col pollice sul detonatore: mai in grado di colpire più in alto, vuoi sul fronte degli affari (il mondo degli appalti), vuoi, soprattutto, su quello politico, storicamente e strettamente legato agli altri due. Ora si riparte dell’agendina rossa. Quella che Paolo Borsellino portava sempre con sé, nella sua borsa. Anche quel 19 luglio 1992, quando la sua auto saltò in aria. Scrive Marzio Tristano su Antimafia 2000, una delle poche, battagliere riviste rimaste sul campo nel contrasto alla delinquenza organizzata: «Di quella borsa, affumicata e bagnata dagli idranti dei vigili del fuoco, esiste un’immagine, scattata da un fotografo professionista palermitano, che è stata appena acquisita dalla Dia di Caltanissetta. La foto ritrae un ufficiale dei carabinieri nell’inferno di via D’Amelio. Dietro si notano le auto ancora in fiamme, in mano l’uomo ha una borsa di cuoio. La procura di Caltanissetta - prosegue Tristano - vuole adesso ricostruire a ritroso il percorso della borsa fino alla sua apertura, descritta nel verbale di sequestro che attesta l’assenza dell’agendina rossa di Borsellino». Aggiunge Tristano: «E’ la prima volta dopo tredici anni che si indaga sui misteri di quella agendina di Borsellino, la cui sparizione venne immediatamente denunciata da colleghi e familiari. Un’agenda da tutti ritenuta importante per ricostruire incontri, spostamenti e attività di quei frenetici 56 giorni, dalla strage di Capaci, in cui Borsellino si tuffò nelle indagini antimafia con la consapevolezza del martirio». «Un’agenda che potrebbe contenere la verità sulla morte di Borsellino», è il commento di Carmelo Canale, il più stretto collaboratore di Borsellino, accusato a sua volta di collusioni mafiose, assolto (ma la Procura ha presentato appello).

UN LUNGO CANALE
Così ricostruisce Simone Falanca nel suo volume Alfa & Beta: «L’ufficiale (Canale, ndr) ha ricordato che Borsellino, una settimana prima dell’attentato, era stato da lui visto mentre scriveva “nella stanza di un albergo di Salerno dove eravamo andati per il battesimo del figlio di un suo collega. Era preoccupato - prosegue il racconto di Canale ripreso nel suo libro da Falanca - avevo capito che quell’agenda era il suo testamento. In quell’agenda, ne sono sicuro, c’era anche la verità su chi e perché aveva ucciso Falcone”». Continua Falanca: «Il dato interessante è che quell’agenda non può essere stata sottratta dagli attentatori, che agirono da lontano, con un telecomando. E’ stata certamente sottratta da qualche investigatore giunto tra i primi sul posto. Anche in altri atti degli inquirenti che indagarono sulle stragi del 1992-1993 ricompare il nome di Lorenzo Narracci, vicecapo del Sisde a Palermo fino a 9 anni fa. Narracci, oltre ad essere stato raggiunto da una telefonata di Bruno Contrada partita 80 secondi dopo lo scoppio della bomba che uccise Paolo Borsellino, è anche l’utente cui apparteneva il il numero di cellulare annotato su un biglietto, trovato dagli investigatori sulla montagna dove fu premuto il telecomando per uccidere Giovanni Falcone. Una ulteriore coincidenza vuole che proprio in via Fauro, teatro dell’attentato a Maurizio Costanzo, abiti proprio lui, Lorenzo Narracci».
Passiamo al secondo, nuovo elemento sul fronte delle inchieste per le stragi di Capaci e Via D’Amelio. E’ fresco del 14 maggio il decreto di archiviazione con il quale il gip del tribunale di Caltanissetta, Giovanbattista Tona, mette una pietra sulla pista del Castello di Utveggio, secondo non pochi la chiave dei misteri per l’assassinio di Borsellino e della sua scorta. Proprio su quella pista, scrive ancora Falanca, a proposito di Gioacchino Genchi, l’esperto informatico al quale la stessa procura di Caltanissetta aveva affidato le indagini per decodificare i traffici telefonici (su rete fissa e cellulare) dopo la strage di via D’Amelio. «Genchi scopre che diverse persone (non mafiosi) hanno tenuto sotto controllo i telefoni di Borsellino, che erano stati clonati, e forse hanno controllato dall’alto, dal monte Pellegrino, la zona della strage». Continua Alfa & Beta: «Il Sisde - in quegli anni controllato a Palermo da Bruno Contrada - secondo Genchi aveva un suo centro all’interno del Castello Utveggio, un centro che operava sotto la copertura di un misterioso centro studi, il Cerisdi. Pochi secondi dopo l’esplosione (dell’auto in via D’Amelio, ndr), dalla sede Sisde di Utveggio - sempre vuota la domenica, tranne quella - parte una telefonata che raggiunge il cellulare di Contrada».E’ lo stesso Tona a rammentarla nel provvedimento di archiviazione del caso Contrada (ed è sempre Tona, poi, a firmare le archiviazioni per Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, sulla scottante inchiesta dei mandanti a volto coperto delle due stragi).

TONA ARCHIVIATUTTO
Nel recentissimo decreto di archiviazione, Tona ricorda come «la sentenza della corte d’assise d’appello segnalava l’esigenza di approfondire ulteriormente ipotesi ed elementi sin qui trascurati, nella prospettiva di individuare complici o mandanti esterni all’organizzazione mafiosa cosa nostra». E proprio Tona ribadisce: «A seguito di tale sentenza divenuta irrevocabile, il pm riprendeva le indagini, partendo proprio dalle dichiarazioni del Genchi. Rispondendo ad apposita delega la Dia di Caltanissetta procedeva a escutere nuovamente il Genchi, e individuava un cospicuo raggio di attività investigative aventi ad oggetto organismi e persone che potevano contare sulla disponibilità dei locali di Castello Utveggio». Le indagini, però, partoriscono il classico topolino. E il pm Tona in poche, sbrigative parole, archivia il tutto. Come si trattasse di una bega condominiale.
L’ennesimo colpo di spugna. Ma restano, pesanti come macigni, gli interrogativi sulle due stragi. Irrisolti. Con la sola condanna per gli “esecutori”, tutti “regolarmente” condannati. La manovalanza di Riina e Provenzano, a partire da Brusca & company. Per i mandanti, è ancora tutto “coperto”… Raccontano alla procura di Palermo: «Hanno parlato i pentiti, Giovanni Brusca e Nino Giuffrè. Le verbalizzazioni in parecchi punti coincidono, in altri no. Sostanzialmente, c’è una differenza tra i due: Brusca parla soprattutto della “trattativa“ che sarebbe intercorsa con lo Stato, a inizio anni ’90, per ottenere vantaggi legislativi dalla nuova classe politica in favore di Cosa nostra; Giuffrè parla soprattutto di appalti, di rapporti tra imprenditori, politici e mafiosi».
Ecco cosa scrive il sito antimafia Città Nuove Corleone: «Il procuratore di Caltanissetta, Francesco Messineo, che coordina l’inchiesta contro ignoti, ipotizza che le motivazioni delle due stragi del ’92 siano coincidenti, ma l’attentato a Borsellino avrebbe subito un’accelerazione perché Riina era alla ricerca di nuovi referenti politici che tardavano ad arrivare». Continua, nella sua minuziosa disamina, il sito siciliano: «Gli inquirenti si chiedono ora se la ricostruzione di Giuffrè possa rappresentare un movente aggiuntivo, rispetto a quello indicato da Brusca, o se un’ipotesi esclude l’altra. I magistrati della Dda vogliono accertare il motivo per il quale Provenzano avrebbe ordinato la morte di Borsellino, se ciò sia legato agli appalti o alla “trattativa”. I pm sottolineano anche il fatto che Riina, come emerge delle dichiarazioni di numerosi pentiti, in quel periodo non sarebbe stato “in sintonia” con Provenzano. Perchè il boss latitante avrebbe dovuto aiutare Riina a dare un altro colpetto dopo Falcone?». La risposta di Giuffrè sarebbe stata: «la curiosità per i boss è l’anticamera della sbirritudine».

LA PISTA APPALTI
Le versioni di Brusca e Provenzano però non sono antitetiche, come alcuni oggi sostengono. Ecco, ad esempio, cosa scriveva, un paio d’anni fa, il giudice Paolo Tescaroli nel volume Perché fu ucciso Giovanni Falcone. «In Cosa nostra, secondo Brusca, esisteva la preoccupazione che Falcone potesse imprimere, diventando procuratore nazionale antimafia, un impulso alle investigazioni nel settore inerente alla gestione illecita degli appalti. Ha spiegato (Brusca, ndr) che le indagini in quel settore non erano iniziate “in quel momento”, Falcone aveva iniziato con i Costanzo e il comune di Baucina e proseguito con l’indagine nei confronti di Angelo Siino. Ha affermato che Falcone - attraverso questo tipo di investigazioni, che nel passato avevano attinto anche Vito Ciancimino - aveva la possibilità di indagare, oltre che nel settore economico, nei confronti degli imprenditori e dei politici con i quali i primi “andavano a trattare”. Specificatamente, Falcone aveva contribuito a bloccare il progetto, che l’organizzazione aveva in cantiere nel 1991, mirante proprio a impostare nuovi collegamenti istituzionali per il tramite di strutture imprenditoriali». Secondo la minuziosa ricostruzione di Tescaroli, dunque, le verbalizzazioni di Brusca non solo non indeboliscono, ma addirittura rafforzano la pista-appalti quale movente primo per l’eliminazione di Falcone (e, quindi, di Borsellino).
Ma esiste un testimone ben più importante per dimostrare la determinazione di Falcone sul fronte delle commesse arcimiliardarie che sanciscono il patto politica-mafia-imprese. E’ Antonio Di Pietro, a quel tempo sconosciuto pm alla procura di Milano, che da mesi ha puntato i riflettori sulle “portappalti”, imprese cioè create - o rilevate - ad hoc per fare man bassa di commesse sotto l’ala protettrice di un politico (se possibile, un ministro). Le strade investigative dei due magistrati, quindi, a un certo punto viaggiano su binari paralleli. Ecco cosa dichiara Di Pietro, sentito come teste al processo di via D’Amelio: «Cercammo di immaginare un meccanismo investigativo che potesse far capire cosa succedeva per gli appalti che le grosse imprese nazionali avevano non solo in Sicilia, ma anche in Calabria e in Campania. Aprii, per esempio, su Foggia, aprii su Napoli, aprii su Reggio Calabria. Mi resi conto che bisognava guardare su tutti gli appalti». Di Pietro, su questo fronte, comincia a lavorare sia con Falcone che con Borsellino. L’attuale leader dell’Italia dei Valori ricorda, davanti ai giudici, una frase che Falcone pronunciava spesso: «E’ inutile che perdi tempo con le rogatorie, te lo ricordi com’è andata con il conto protezione…. Invece, individua l’appalto, individua l’appalto. Me lo ripetè anche due o tre giorni prima di morire».
Ma quali appalti, quali “imprese” potrebbero essere finite al centro delle indagini di Falcone e Borsellino (e poi anche di Di Pietro, che dopo solo tre anni ha, guarda caso, abbandonato la toga)? Una chiave del mistero può essere rintracciata nel dossier mafia-appalti, una montagna investigativa di 900 pagine commissionata al Ros di Palermo e finita sulla scrivania di Falcone - con tutto il suo carico, è il caso di dirlo, esplosivo - a febbraio ’91. Dopo un giro per la verità un po’ tortuoso: lo “intercetta” l’allora procuratore capo di Palermo Pietro Giammanco, il quale pensa bene di smistarlo subito (senza un plausibile motivo) non a chi lo aveva commissionato, Falcone, ma al ministro della Giustizia Claudio Martelli, che un paio di mesi dopo chiamerà lo stesso Falcone a Roma. Misteri di Palazzo…

LA TAV E I MASSONI
Ironia del destino, parecchie imprese che fanno capolino del maxi dossier “mafia-appalti” redatto nel ’90 e recapitato a Falcone a febbraio ’92, sono le stesse sulle quali sta indagando, sul versante milanese (con diramazioni svizzere per le esportazioni di capitali all’estero e i lavaggi di danaro) Di Pietro, e sulle quale poi punterà l’indice, in un infuocato intervento alla commissione Antimafia, nel ’95, l’ex magistrato Ferdinando Imposimato. E una maxi commessa, in particolare, entra nel mirino degli investigatori: quella per i lavori dell’Alta velocità, “decisi” a livello governativo nel ’90. A dieci anni esatti dal terremoto da 70 mila miliardi di vecchie lire che ha significato il decollo per tante portappalti e parecchi politici di casa nostra. Stesso copione per la Tav , ma qui la torta è molto più grossa. Tutti in carrozza, alla partenza, per la modesta cifra di 25 mila miliardi circa, che nel giro di un decennio andranno a oltrepassare i 150 mila (ma il pozzo continua a succhiare risorse).
Ecco cosa scrive Sandro Provvisionato nel volume Corruzione ad Alta Velocità, che ha raccontato per filo e per segno il saccheggio perpetrato alla casse dello Stato: «Il 2 marzo 1994 il processo mafia-appalti, che ha visto alla sbarra solo cinque imputati, si conclude con una serie di condanne. Il dato singolare è che nel ’95 Imposimato, occupandosi di ben altre vicende, torni ad inciampare in alcune di quelle stesse società oggetto delle attenzioni della magistratura di Palermo. Ed è anche singolare che sulla sua scrivania finisca un rapporto, quello dello Sco, che, trattando dell’oggi, riguarda ancora fatti di ieri». «In sostanza si afferma - continua Provvisionato - che nell’Alta velocità ci sono anche società, come la Calcestruzzi , accusate di essere controllate da Cosa nostra. Come se dopo indagini, rapporti, inchieste e processi nulla fosse cambiato. E il sistema degli appalti si fosse bellamente spostato dalla Sicilia verso nord, in Campania e in altre regioni». E conclude: «Uno scenario che vede in primo piano il mai del tutto sconfitto sistema degli appalti, nel quale sarebbe maturata almeno una delle stragi che insanguinarono il 1992, quella in cui morì Paolo Borsellino, quasi ossessionato, nei giorni immediatamente precedenti la sua tragica fine, proprio da quel dossier, il dossier Mafia-appalti». parola ai massoni
Precise le dichiarazioni di Angelo Siino, il “ministro dei lavori pubblici” di Cosa nostra, minuziosamente ricostruite da Tescaroli. «Siino ha posto in rilevo di ritenere che le indagini promosse da Falcone nel settore della gestione illecita degli appalti avevano “creato dei presupposti” che hanno portato alla sua eliminazione. Ha anche evidenziato che Borsellino, nel periodo immediatamente successivo all’uccisione di Falcone, aveva pubblicamente affermato che una pista da seguire era quella degli “appalti” e che “senza dubbio c’era stato un qualcosa che aveva determinato l’uccisione di Falcone a causa del suo volersi filare sulla questione degli appalti”». Nelle verbalizzazioni di Siino torna alla ribalta il nome di un’impresa, la Calcestruzzi , in odore di garofano. E non solo. Secondo u’ ministro, Falcone aveva compreso che dietro le quotazioni in borsa del gruppo Ferruzzi c’era effettivamente Cosa nostra e che tra quest’ultima e una frangia del Psi, quella riconducibile a Martelli, era intercorso un accordo.
Ma leggiamo altre dichiarazioni di Siino, questa volta raccolte dai magistrati partenopei nell’ambito di una grossa inchiesta (ora passata a Roma), su massoneria, mafia & appalti. In particolare, Siino ricostruisce il contenuto di diversi colloqui intercorsi con un confratello massone, il siculo-napoletano Salvatore Spinello (il cui nome ha fatto capolino anche nel caso Telekom Serbia). «Spinello mi parlò - dichiara il ministro di Cosa nostra - dei finanziamenti che dovevano affluire per la realizzazione dei lavori per la terza corsia (della Napoli-Roma, ndr) e della Tav. Mi disse nel 1991 che lui poteva decidere sui lavori della Tav perché aveva collegamenti con i personaggi che avevano tutti in mano. In occasione dei vari incontri, vantò rapporti di conoscenza con Craxi e Martelli, mi preannunziò il trasferimento di Falcone (al ministero della Giustizia, ndr), mi disse in particolare che aveva rapporti con gli onorevoli Pomicino e Di Donato, mi segnalò l’impresa Icla (la regina del dopoterremoto e non solo, ndr) che all’epoca aveva problemi in un lavoro sull’autostrada Messina-Palermo

13 anni da Via D'Amelio - Le nuove piste
 

Sharnin 2

Forumer storico
Stragi, servizi e depistaggi: così Genchi aveva anticipato i sospetti su La Barbera
di Benny Calasanzio

Come nelle migliori trame tessute da esperti giallisti, sulle indagini per la strage di Via d'Amelio piomba l'ennesimo colpo di scena, che a dir la verità si annusava da qualche tempo a questa parte e che da quasi un anno, invece, giaceva accennato sulle pagine di un libro.

A restituire un ulteriore tassello di verità su quello che accadde dopo la strage del 19 luglio, sui depistaggi e sui processo "farsa" sono stati ancora una volta Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, ormai coppia fissa in delicate inchieste come L'Agenda Rossa di Paolo Borsellino e Profondo Nero, e L'Agenda Nera che da oggi è nelle librerie.

Questa volta, il nome che viene fuori dalla carte che ora sono in mano alla Procura di Caltanissetta fa sobbalzare sulla sedia. Arnaldo La Barbera, ex capo della Squadra Mobile di Palermo e poi questore della città. Lo stesso La Barbera che era stato responsabile della sicurezza personale di Giovanni Falcone e successivamente, con un decreto ad hoc che, come vedremo, aveva già procurato dei sospetti a chi gli era vicino, nominato al vertice della squadra investigativa “Falcone-Borsellino” per seguire le indagini sulle stragi.

Ebbene, negli uffici dell'Aisi, dove erano custoditi gli elenchi e le foto degli agenti segreti che tra gli anni Ottanta e Novanta hanno agito in Sicilia sotto copertura, alcuni dei quali intrattenendo oscene trattative e abboccamenti con uomini di cosa nostra, c'era anche il super poliziotto con il nome di battaglia “Catullo”.

Si ipotizza che La Barbera e il suo entourage potesse aver avuto un ruolo nel confezionare il falso pentimento di Vincenzo Scarantino che, autoaccusandosi del furto della 126 che poi sarà riempita del semtex che ucciderà il procuratore Borsellino, deviò le indagini verso il nulla (tre suoi stretti collaboratori sono già indagati per concorso in calunnia). Il processo su Via D'Amelio fu infatti chiuso in fretta e furia sulla base delle dichiarazioni di pseudo mafiosi che al massimo sarebbero stati in grado di rubare qualche caramella ad un bambino particolarmente sprovveduto. Scarantino, Candura, Francesco Andriotta, nomignoli delle borgate palermitane, ladri di polli che all'interno di cosa nostra non avevano alcun significato, ma ottimi da dare in pasto ad una giustizia che aveva fretta di chiudere i conti con il passato senza toccare i fili dell'alta tensione, che passano soprattutto per i servizi che ormai, alla luce dei fatti, definire deviati è un pleonasmo. Ben sei processi e due pronunce della Suprema Corte basati solo ed esclusivamente su balle colossali.

Ma se la conferma che La Barbera fosse al soldo dei servizi è nuova e verrà raccontata dettagliatamente nel saggio dei due giornalisti, ampi stralci che lasciavano presagire ad alcuni strani movimenti avvenuti nella Questura di Palermo in quei giorni sono già scritti e pubblicati da mesi. In quel libro di quasi mille pagine, Il Caso Genchi. Storia di un uomo in balia dello Stato, che ha lo strano effetto di riportare o anticipare cose che hanno da accadere. Che compone puzzle a cui poi, dopo anni, qualcuno aggiunge l'ultimo tassello.

Lo stesso Genchi che con La Barbera lavorò fianco a fianco fino alla clamorosa rottura. Gioacchino Genchi, già vice questore a Palermo, attualmente sospeso dal servizio, la sua versione l'aveva già scritta, senza sapere, chiaramente, quello che sarebbe poi venuto fuori. Gli era costato caro raccontare aspetti poco chiari di una delle persone che professionalmente e umanamente più importanti della sua vita. Solo che Genchi fa il consulente, non il veggente, dunque molte cose erano già note e bastava aprire gli occhi. E leggendo alcuni passaggi del volume, non si può rimanere indifferenti alle troppe affinità con lo "scoop" sui servizi segreti. Solo che lo scoop è di oggi. Il libro è del dicembre 2009. Quando le indagini del gruppo Falcone Borsellino presero la via di Scarantino, Genchi fu l'unico che ebbe il coraggio di andarsene e sbattere la porta, mettendo a repentaglio la carriera e non solo.

Dal libro di Edoardo Montolli Il Caso Genchi. Storia di un uomo in balia dello Stato:

Nell’altra Procura, a Caltanissetta, si corre: l’inchiesta su via D’Amelio sta per subire una brusca accelerata. E per il commissario capo si corre troppo. E una sera, nell’ufficio del gruppo Falcone-Borsellino, si urla. Dentro, ci sono due persone:Gioacchino Genchi e Arnaldo La Barbera.

Genchi: "Dopo le accuse di Candura e la confessione di Scarantino, decisero di arrestare Pietro Scotto, l’uomo che avevo individuato come possibile telefonista per via D’Amelio. Mi parve una cosa assurda. Stava a due passi dal nostro ufficio, era intercettato, avrebbe potuto forse portarci ben più avanti. Perché faceva avanti e indietro da via D’Amelio a sotto il Monte Pellegrino, su cui avevo focalizzato l’analisi dei tabulati. Ci fu una discussione durissima, di fuoco. Continuavo a spiegargli che si doveva aspettare, che non potevamo agire. Glielo ripetevo alla nausea: non arrestarlo, non arrestarlo…"

I toni si alzano. Come e più che nel 1989, quando il raid da Contorno continuava a ritardare. Genchi dice che non va, non funziona proprio così.

Genchi: "Litigammo tutta sera e per buona parte della notte. Ero infuriato: il mancato riscontro sul viaggio di Falcone, l’abbaglio su Maira, e ora l’arresto di Scotto per le confessioni di due personaggi improbabili come Candura e Scarantino che rischiavano di far naufragare l’inchiesta. Pietro Scotto no. Lui no. Strilla Genchi, strilla convinto che ogni cosa sarà persa se lo arresteranno. E quel che poi accade è ciò che non sarebbe mai dovuto accadere. Un nodo alla gola che si porterà dietro per sedici anni: Fu allora che La Barbera scoppiò a piangere. Pianse per tre ore. Mi disse che lui sarebbe diventato questore e che per me era prevista una promozione per meriti straordinari. Non volevo e non potevo credere a quello che mi stava dicendo. Ma lo ripeté ancora. E ancora. E furono le ultime parole che decisi di ascoltare. Me ne andai sbattendo la porta. L’indomani mattina abbandonai per sempre il gruppo Falcone-Borsellino. E le indagini sulle stragi".

È la notte tra il 4 e il 5 maggio 1993. Genchi si chiama fuori. Il 14 un’autobomba esplode a Roma, in via Fauro. L’attentato pare diretto al giornalista Maurizio Costanzo, che ci stava passando, ma che al momento dello scoppio era ancora fuori bersaglio. Sulla stessa via, a una manciata di metri, c’è parcheggiata la Y10 di Lorenzo Narracci, vice di Contrada al Sisde, che abita lì. C’è chi si chiede se il vero obiettivo fosse lui. La strategia della tensione si sposta poi a nord. Il 27 tocca a Firenze, via dei Georgofili, agli Uffizi: cinque morti e trentasette feriti.Il giorno dopo, Pietro Scotto viene arrestato. L’11 luglio, il ministro dell’Interno Nicola Mancino promuove La Barbera dirigente superiore e col grado di questore lo assegna alla direzione centrale della polizia criminale di Roma. L’anno successivo diventerà il nuovo questore di Palermo.

La storia, purtroppo, era già scritta. Mancava un finale degno della trama e ora pare che ci siamo molto vicini.

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“IL CASO GENCHI, storia di un uomo in balia dello Stato”.
di Edoardo Montolli

Il Centro studi Cerisdi, all’interno del Castello Utveggio, è tuttora attivo. E ha anzi acquisito grande fama. Il sito internet ne riporta storia, proprietari e cariche. Secondo la nota è stato voluto e fondato da Rino Nicolosi, già presidente della Regione Sicilia per lunghissimi anni. annovera, tra i componenti del comitato scientifico che diedero via alvprogetto, nomi di prestigio come Massimo Severo Giannini, Sabino Cassese, Claudio Demattè, Vincenzo Fazio. L’obiettivo è quello di fare ricerca e formazione con metodologie innovative per preparare i manager delle imprese e della pubblica amministrazione in Sicilia. Aderisce al fondo professioni e si occupa di formazione manageriale con particolare attenzione ai problemi del Mezzogiorno. il vicepresidente del Cerisdi, dal 1988 al 1992. E vi siete persi molto. Il professor Alessandro Musco, cinquantenne di Siracusa, cattedratico di storia medievale presso l’Università di Palermo, animatore di vari centri studi dai nomi esoterici, ha diverse caratteristiche.
Molto intelligente, a detta di tutti. Gran massone, a detta di tutti. Uomo di snodo tra il mondo degli affari, la mafia e la politica secondo altri. Come capo di gabinetto dell’ex presidente della Regione Sicilia, Rino Nicolosi, messo sotto accusa nelle indagini sugli appalti, la mafia e le spartizioni tra i partiti al tempo delle grandi torte di dieci anni fa (allora non si diceva: il mondo ha un sogno: imitare Palermo, ma molti lo praticavano), il professor Musco ha aperto le chiuse di fronte ai diversi giudici che l’hanno interrogato. Ha spiegato che, come il Cerisdi, c’erano decine di enti inutili, dai bilanci inesistenti, da cui lucravano tutte le forze politiche.
Ha raccontato come gli ambientalisti siano stati tacitati con consulenze, i sindacati con benefici, tutte le varie correnti e sottocorrenti dei partiti abbiano avuto il proprio tornaconto, presentando se stesso come un vero mediatore tra diversi equilibri.
In centinaia di pagine di verbali, tutto il mondo politico viene sapientemente vivisezionato, dal professor Alessandro Musco, che manda messaggi a tutti. È probabile che ne sentiremo ancora parlare, perché è oggi ancora attivissimo in politica, la politica nuova: Ccd, con occhio all’Udeur e comunque porta sempre aperta a tutti. Di lui si può raccontare un vezzo: ci tiene molto a che le sue utenze telefoniche comprendano le cifre 333 o 33, numeri importanti per la massoneria. E riesce a smuovere mezzo mondo perché il suo desiderio sia esaudito. Finora c’è riuscito.
…Ora quindi, sul sito del Cerisdi, alla voce presidente, c’è scritto Professor Adelfio Elio Cardinale, preside della facoltà medicina e chirurgia dell’università di Palermo.
Preside e, mi ha precisato Genchi: “Marito di Anna Maria Palma, già procuratore aggiunto a Palermo e sostituto procuratore a Caltanissetta, già magistrato che ha gestito la collaborazione di Scarantino su via D’Amelio, e i processi del Borsellino-bis in primo grado. Ironia della sorte si tratta anche dello stesso magistrato che alla fine degli anni Novanta chiese di approfondire la pista dei mandanti occulti Alfa e Beta, che, si capì subito, erano Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri. Oggi, invece, mutatis mutandis, la dottoressa Palma è consulente di fiducia del presidente del Senato Renato Schifani. Ed è stata testimone di nozze di Totò Cuffaro, che aveva nominato il fratello, già magistrato della Corte dei Conti, come vicecommissario regionale per l’emergenza idrica in Sicilia. L’assessore Antonello Antinoro, fedelissimo di Cuffaro, lo ha poi fatto direttore generale del dipartimento dei beni culturali, oltre ad aver nominato proprio il marito, Cardinale, al Cerisdi”.

Quasi fosse un castello delle favole, dove, dopo traversie, torti e liti, tutti vissero felici e contenti. E infatti vicepresidente del Cerisdi è un noto penalista siciliano, Raffaele Monsignore, già tra i legali del giudice della prima sezione della Cassazione Corrado Carnevale, uno che di traversie e di torti, ne ha subiti molti. E chissà che non riesca a Monsignore di dimostrare anche l’innocenza dell’avvocato per eccellenza di Villabate, Nino Mandalà, già tra i fondatori di un importante club di Forza Italia, accusato di essere un boss di Cosa Nostra. Con Cardinale e Bonsignore segue, nella composizione, un comitato scientifico di tutto rispetto, con diversi docenti universitari.
 

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