Ma la Cina ha sete di greggio
"Anche a 50 dollari va bene"
PECHINO - Cinquanta dollari per un barile di petrolio? Non sono tanti per Zhao Xizheng, direttore generale dell'Enel cinese. E' disposto a pagare qualsiasi prezzo pur d'alimentare le sue centrali termoelettriche, ormai al collasso di fronte al boom dei consumi energetici della Cina. Zhao Xizheng quest'estate ha dovuto chiedere a Volkswagen, Sony e General Motors di chiudere le loro fabbriche di Shanghai per una settimana, perché non aveva abbastanza corrente per farle funzionare regolarmente. A 5mila altre imprese di Shanghai è stato imposto di lavorare solo di notte, quando il consumo di corrente è più basso. In 24 provincie cinesi politicamente meno potenti di Shanghai il razionamento avviene in maniera più selvaggia, i blackout arrivano a intermittenza, senza preavviso.
Intanto per placare la febbre della motorizzazione di massa - l'altro boom cinese che succhia energia dai pozzi petroliferi del Golfo Persico - a Shanghai ogni mese il municipio riduce il numero e alza il prezzo sulle targhe automobilistiche messe in vendita con un'asta competitiva: ormai al costo di listino di una Mercedes bisogna aggiungere una sovratassa obbligatoria di altri 10mila dollari per l'immatricolazione razionata (ma gli acquirenti non si scoraggiano).
Le turbolenze irachene non bastano a spiegare l'inarrestabile rialzo delle quotazioni mondiali del greggio. Una invisibile "tassa di Shanghai" si sta applicando automaticamente agli automobilisti del mondo intero, ai distributori di benzina di Milano e Parigi, New York e Tokio. Gli hedge fund che scommettono su nuovi rialzi del petrolio hanno gli occhi fissi sui dati che affluiscono ogni mese dalla Cina: il decollo economico di una nazione da 1,3 miliardi di abitanti sta mettendo a dura prova le riserve energetiche dell'intero pianeta. Perfino la capitale Pechino, a cui i leader politici cercano di risparmiare ogni disagio, quest'estate ha subito l'onta di un blackout elettrico durato 47 lunghissimi minuti. La settimana scorsa il governo ha rivelato i dati sui consumi petroliferi di luglio: in un solo mese le importazioni cinesi di greggio sono esplose del 40%.
Cinquanta dollari al barile non sono ancora un prezzo dissuasivo e forse non lo sarebbero neanche sessanta. Con le esportazioni del made in China che invadono il mondo - dalle scarpe ai vestiti, dai computer ai telefonini - la bilancia commerciale di Pechino è sempre più florida. Qui il problema dell'agosto 2004 non è il prezzo del petrolio, è trovarne abbastanza. La recente tensione calcistica tra Cina e Giappone - quando la nazionale nipponica è stata ripetutamente fischiata e intimidita dalle tifoserie cinesi - non avrebbe fatto notizia se dietro non ci fosse una tensione geoeconomica ben più seria tra i due paesi: il braccio di ferro sino-giapponese per decidere a quale dei due paesi andranno le maggiori forniture del nuovo gasdotto dalla Siberia, la bombola d'ossigeno per la crescita.
La Cina di oggi può permettersi di pagare qualunque prezzo, salvo uno: la rottura di un delicato consenso sociale costruito sulla prosperità diffusa dal miracolo economico. Le quotazioni del greggio non sono un problema per i leader comunisti di Pechino che gestiscono 90 miliardi di dollari di attivo dei risparmi privati. È un problema vero, invece, questa estate afflitta dai blackout che rallentano la produzione delle grandi multinazionali americane, giapponesi e tedesche: gli alleati strategici che hanno puntato più di 50 miliardi di dollari in un anno sulla competitività della nuova Cina.
Per superare questa penuria di energia il governo di Pechino ha appena annunciato un piano che sarebbe stato impensabile ancora un anno fa. È la privatizzazione di 11 centrali elettriche. Una vendita affidata alle merchant bank Goldman Sachs e Ubs per rifinanziare l'ente elettrico di Stato e accelerare così la costruzione di altre centrali, essenziali per sfamare questo boom industriale energivoro. La tabella di marcia decisa dalle autorità cinesi è incredibile. In ciascuno dei due prossimi anni la Cina costruirà tante centrali elettriche nuove da aggiungere l'equivalente di tutta la produzione elettrica della Gran Bretagna. In termini di elettricità, quindi, la Cina si "annetterà" due volte un'Inghilterra, nel 2005 e nel 2006. Questo è il tipo di notizia che alimenta le scommesse degli hedge funds sul mercato dei futures del petrolio. Già prima della furiosa impennata di luglio, solo nei primi sei mesi di quest'anno l'incremento dei consumi petroliferi cinesi - tra il gasolio bruciato nelle centrali termoelettriche e la benzina consumata dalle fiumane di Audi e Buick che fanno la coda sulle sei tangenziali di Pechino - aveva aggiunto 800.000 barili di greggio al giorno, rispetto alla domanda mondiale del 2003. Di quanto altro petrolio avrà bisogno la Cina nel 2005, e nel 2006, e negli anni seguenti, se la sua crescita "genera" un'Inghilterra in più ogni anno?
La costruzione delle nuove centrali elettriche cinesi è indispensabili per mantenere questo ritmo di corsa, altrimenti i blackout si intensificheranno fino a far deragliare la crescita. E nessuno può permettersi il costo di un crac cinese - certo non gli Stati Uniti di cui Pechino finanzia generosamente i deficit acquistandone i Buoni del tesoro. Fino ad ora, il piano energetico cinese non ha pesato solo sui pozzi petroliferi sauditi. Anzi, la Cina ha inseguito una forma di autosufficienza basandosi sull'unica materia prima di cui possiede riserve nazionali quasi illimitate cioè il carbone. Nel 2003 e quest'anno, Pechino ha già aumentato del 19% la sua potenza di generazione di corrente ma quasi i due terzi delle nuove centrali termoelettriche sono state costruite per bruciare carbone, quindi senza pesare interamente sulla domanda mondiale di petrolio. E tuttavia la "tassa Shanghai" viene pagata dal resto del mondo anche quando Shanghai va a carbone.
È un altro tipo di tassa, imposto sotto forma di inquinamento. Giovedì scorso nel porto di Hong Kong una collisione a catena ha coinvolto e messo temporaneamente fuori uso otto navi. La visibilità era precipitata di colpo per effetto dello smog. La grande nube tossica sollevata dal boom economico cinese ormai non è più solo un danno per la salute degli abitanti di Pechino e Chongqing, Shanghai e Guangzhou. Non mette a repentaglio solo la navigazione commerciale nel più grande porto mondiale per navi portacontainer, Hong Kong. Dalla Corea del Sud al Giappone, le nazioni vicine ormai soffrono un aumento dell'inquinamento dovuto al contagio cinese. Scienziati americani hanno individuato tracce di polveri tossiche in provenienza dalla Cina nell'atmosfera della East Coast (sull'Atlantico, all'estremo opposto del pianeta). Il risultato è una pressione politica dal resto del mondo sulle autorità di Pechino perché reagiscano al dilagare dell'inquinamento.
La Cina non è insensibile a queste pressioni, anzi sta facendo quel che può. Costruisce centrali idroelettriche, con progetti faraonici e controversi come la diga delle tre gole sul fiume Yangtze. Aggiunge nuove centrali nucleari. E cerca di ridurre la prevalenza delle centrali a carbone. Quindi costruisce più generatori alimentati dal gasolio.
Cinquanta dollari al barile? Sono l'ultimo dei problemi per il signor Zhao Xizheng, direttore generale dell'Enel cinese, alle prese con un emergenza energetica più preoccupante del rincaro dei prezzi.
(22 agosto 2004)
e questo articolo era dell'agosto 2004
e pure da La Republica, famoso giornale indipendente
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