commenti vari su tutto nessuno escluso

La grande montagna dei guai finanziari di Montepaschi



Continua l’operazione smacchia Giaguaro su MPS

L’INSIPIENZA finanziaria collettiva dentro MontePaschi
Intorno a Mussari e Vigni tanti facevano a gara per non vedere nulla.
La lettura dell’analisi tecnica delle operazioni Santorini ed Alexandria fatta dai consulenti di MPS Giovanni Petrella e Andrea Resti, anche da parte di un profano dell’economia, è sconvolgente.
La descrizione di contratti finanziari chiaramente onerosi per la banca al solo scopo di nascondere perdite rilevanti, ma che non minavano all’inizio la solidità dell’istituto ma solo la competenza di alcuni suoi dirigenti, lascia esterrefatti.
Eppure i vari passaggi e le ristrutturazioni dei due complessi derivati dovevano accendere campanelli di allarme in più organi di Rocca Salimbeni. Anche perché, al contrario dei Fresh 2008, le operazioni non erano nate per
supportare illecitamente l’acquisizione di Antonveneta ed erano state originate prima che Mussari e Vigni occupassero le poltrone di Presidente e Direttore Generale, essendo state stipulate Santorini nel 2002, Alexandria nel 2005: i CdA successivi hanno dovuto deliberare sulle conseguenze negative dei risultati economici generati dai due mostri.
Nonostante 2,1 miliardi di Tremonti bond all’inizio del 2011 i problemi di liquidità e di redditività erano enormi, ma sembra che il CdA di allora si accontentasse delle spiegazioni semplicistiche sulla crisi economica mondiale.
Una classica foglia di fico. Il prodotto Casaforte si era rivelato la ricerca di una plusvalenza facile vendendo ai clienti della banca un prodotto di cartolarizzazione con rendimento inferiore a un titolo privo di rischio.
Ancora Vigni presentava con toni euforici, a fine agosto 2011, la semestrale convinto di avere una “robusta liquidità e posizione di capitale”. Invece oggi ci scrivono nella relazione presentata per l’Assemblea del 29 aprile: “Fino ad oggi la Banca ha dovuto vincolare, a garanzia dei propri obblighi di pagamento in caso di risoluzione dei contratti derivati per cui è causa, importi pari ad Euro 2,1 miliardi alla data del 30 novembre 20 11 e ad Euro 1,6 miliardi alla data del 31 gennaio 2013”. source
La Banca d’Italia di Draghi aveva fornito liquidità per 2 miliardi di euro a Vigni a fine 2011, finanziamento delle cui ragioni siamo ancora all’oscuro: invece, ci permetterebbe di capire cosa veramente sapessero a Roma.
Appena cinque mesi dopo che erano arrivati 2,4 dall’aumento di capitale e pochi giorni dopo che la Bce aveva rifornito MPS con 10 miliardi al tasso dell’1% (cosiddetto tampone Ltro).
Cifre enormi, finanziamenti ingentissimi, cifre con cui si crea da zero una grande banca, ma che non servono a tenere a galla la banca più antica del mondo.
Questa storia dei derivati è solo uno dei buchi più grossi.
Comprendiamo l’assenza di alcuni consiglieri nella straordinaria del 25 gennaio (che facevano parte del CdA precedente): ci poteva essere qualcuno degli intervenuti che avrebbe potuto rivolgere domande impertinenti sulla loro capacità di capire quello che succedeva nelle segrete stanze della Rocca.
Verranno a dire qualcosa ai soci che li hanno nominati a fine aprile?
Ci stupisce che il Tandem non abbia colto l’occasione dell’Assemblea Ordinaria per farsi approvare anche la querela sulla presunta distrazione di beni immobiliari accertata dalla magistratura con l’operazione Millevini. Il tempo stringe anche su quel fronte. E quali azioni legali siano in preparazione contro JP Morgan che accettò di far passare il prestito da 1 miliardo denominato Fresh 2008 per partecipazione all’aumento di capitale. Oltre a costare 82 milioni alla banca, permise a Mussari di far credere che c’erano i soldi e le condizioni richieste per poter comprare Antonveneta.
Sarebbe stata una brutta figura per l’ex numero uno di Rocca Salimbeni dover confessare ai mercati e ai padrini politici e finanziari di non poter procedere ad onorare l’impegno sottoscritto nel novembre 2007 con Emilio Botin, ma oggi avremmo forse la banca più solida d’Europa.
 
Ballarò, come ti faccio un servizio su Pizzarotti per distruggere i 5S.
Che vergogna.... una faziosità mai vista... a partire dalle interviste.

A quando un servizio sul Comune di Torino o su Firenze ????

rai tre e floris sono delle merdeeeeeeeeeee :down:
 
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IL COLPO GOBBO DELL’AGENZIA DELLE ENTRATE


di Paolo Cardenà – Cercherò di spiegarvi, brevemente e in maniera più semplice possibile, il colpo basso che l’Agenzia delle Entrate sta riservando ai contribuenti, mentre la politica, in preda alla sua follia, sembra ormai abbandonata a se stessa e al suo delirio.
Accade che, per effetto della profonda crisi economica in corso, un numero sempre più crescente di famiglie e imprese, nell’anno appena trascorso, trovandosi nell’impossibilità di onorare debiti tributari derivanti dalla liquidazione delle imposte, abbiano optato per il differimento del pagamento dei tributi derivanti dalle dichiarazioni dei redditi


Questa scelta, gioco forza, nella maggior parte dei casi, è stata dettata dalla difficoltà oggettiva di pagare la pretesa tributaria e l’omissione si sostanzia non perché si è evasore, ma perché esiste una conclamata impossibilità nell’eseguire il pagamento dei tributi.
L’imprenditore, tra scegliere se pagare i propri fornitori, dar da mangiare ai propri collaboratori, o pagare il fisco, semplicemente, ha scelto le prime due ipotesi, poiché garanzia di prosecuzione dell’attività. Ciò , evidentemente, è stato deciso anche confidando che il debito tributario si sarebbe potuto onorare successivamente avvalendosi dell’istituto del ravvedimento operoso.

Il ravvedimento operoso altro non è che un istituto che consente di adempiere alle obbligazioni tributarie pagando, oltre all’imposta dovuta, le relative sanzioni in forma ridotta che il legislatore indica nel 3,75% dell’importo omesso, oltre ai relativi interessi. Ma Il ravvedimento opero può essere posto in essere non in maniera illimitata nel tempo, ma solo entro determinate scadenze indicate nel fisco e comunque non oltre l’invio della dichiarazione dell’anno in cui è stata commessa l’omissione, salvo che non si sia destinatari di un controllo formale della dichiarazione e quindi di un avviso bonario da parte dell’Agenzia delle Entrate.

In parole più semplici, se si è omesso il pagamento del saldo IRAP del periodo di imposta 2011, scadente nel 2012, siccome l’omissione si è verificata nel 2012, i pagamenti degli importi omessi, con le relative sanzioni (3,75% oltre agli interessi) potranno essere eseguiti entro la data di scadenza per l’invio della dichiarazione Irap del 2012, individuata dal fisco alla fine di luglio 2013. Il tutto, salvo che l’Agenzia delle Entrate non abbia già riscontrato il mancato pagamento e non abbia inviato al contribuente l’avviso bonario con il quale si intima il pagamento dell’imposta, ma, in quest’ultima ipotesi, con le relative sanzioni maggiorate fino al 10%, ossia quasi il 7% in più di quanto consentito dal ravvedimento operoso.

Quest’anno, nonostante l’agenzia conosca perfettamente lo stato di crisi delle imprese e conseguentemente anche lo stato di difficoltà nel pagamento delle imposte, in maniera del tutto insolita e sospetta rispetto ai tempi rituali osservati dall’ente negli anni passati, ha abbreviato di molto i tempi di controllo delle dichiarazioni relative al periodo di imposta 2011 inviate nel 2012, pregiudicando così la possibilità di sanare il mancato pagamento delle imposte avvalendosi dell’istituto del ravvedimento operoso.
Fatto sta, che un numero elevato di contribuenti stanno ricevendo gli avvisi bonari per le imposte omesse nell’anno 2012, che precludono agli stessi contribuenti la possibilità di adempiere all’obbligazione tributaria avvalendosi del ravvedimento operoso, entro i tempi pianificati per effettuare il versamento.
Negli anni scorsi, in genere, l’agenzia delle entrate era molto meno sollecita nell’espletare l’operazioni di verifica delle dichiarazioni al punto che queste potevano addirittura protrarsi ben oltre l’anno rispetto all’invio della dichiarazione oggetto di controllo.

Quest’anno, misteriosamente (ma non troppo considerato lo stato di necessità delle finanze pubbliche), ha espletato questo riscontro a distanza di pochi mesi rispetto all’invio dei modelli dichiarativi, inviando ai contribuenti i relativi avvisi reclamando gli importi a credito maggiorati delle sanzioni al !0%, in luogo del 3,75% previsto dall’istituto del ravvedimento operoso.
Tradotto in numeri, possiamo affermare che se un’azienda, nel 2012, ha omesso il pagamento del saldo Irap di 10.000 euro, magari pianificando questo versamento nei mesi successivi applicando una sanzione del 3;75% (375 euro) prevista dal ravvedimento operoso, di colpo, vedendosi pervenire l’avviso bonario, si è vista preclusa questa possibilità e dovrà corrispondere al fisco l’imposta (10000 euro) e la sanzione maggiorata al 10% (1000 anziché 375), con un aggravio di oneri per oltre 600 euro, andando ad aggravare una situazione già di per se critica.
Non solo, ma in questo caso, in mancanza dell’esecuzione del pagamento entro 30 giorni dalla ricezione dell’avviso, e in mancanza delle possibilità di rateizzare gli importi dovuti al fisco sempre entro lo stesso termine, le sanzioni potranno arrivare al 30% dell’importo omesso.

C’è da dire che molte di queste imprese, che sono state inibite dalla possibilità di evitare un aggravio di costi in relazione ad uno stato di difficoltà conclamato, sono anche quelle che debbono ricevere dallo stato il pagamento delle forniture effettuate nei confronti delle pubbliche amministrazioni di cui tanto si parla.
Benché l’atteggiamento del lisco si del tutto legittimo, appare del tutto inopportuno soprattutto in un momento di estrema fragilità
Il sospetto è proprio quello che l’accelerazione dei tempi di riscossione dei tributi sia proprio da attribuire alle crescenti difficoltà dello Stato, anche in considerazione alla volontà di pagare, almeno in parte, i debiti della pubblica amministrazione nei confronti delle imprese. Tant’è che sembrano quasi pronti i decreti che consentiranno il pagamento di 20 miliardi di euro nel secondo semestre 2013 e di altri 20 nel 2014.
E’ evidente che quanto sta accadendo, oltre a generare un aggravio di costi per le imprese già in difficoltà, rischia di minare ulteriormente i già precari rapporti tra fisco e contribuente, in un momento di estrema difficoltà che dovrebbe essere compreso e favorito dal fisco e dalle istituzioni.
 
rai il debito consolidato sfiora i 400 milioni e noi paghiamo il canone vergognaaaaa
Il debito consolidato sfiora i 400 milioni. La televisione pubblica rischia la morte per emorragia. Il caso Tg1: stipendi gonfiati con notturni e festivi fasulli. Gubitosi accelera sui prepensionamenti.


Rai, azienda travolta dalle perdite di bilancio e dal forte calo della pubblicità. Oltre che dai soliti sprechi.


Ci sono centinaia di metafore che potrebbero descrivere, chiosare e spiegare l’epoca che attraversa la televisione pubblica, strumento conteso per la vanagloria, la propaganda e la raccomandazione politica.

In quest’epoca di palazzi deboli, però, la Rai è inchiodata ai numeri gelidi e non c’è spazio per la fantasia: il bilancio 2012 – presto ufficiale – segnala 250 milioni di rosso, di cui 50 investiti per le pensioni anticipate, per sfoltire un organico in sovrappeso e molto anziano.

La stagione di austerità ha smontato gli ombrelloni che coprivano affari sonanti: le serie televisive, i reality più o meno originali, l’immensa o piccola commessa all’amico di un amico. Ma più si affondano le mani e più la necropoli Rai mostra abitudini e malaffare che non faranno mai diventare rampante quel cavallo morente che accoglie i visitatori all’ingresso.

La salute finanziaria è ancora malandata e preoccupa il -20 per cento di pubblicità– in gioco un centinaio di milioni – che potrebbero far gonfiare i 37 già messi in rosso per il 2013. I conti non tornano non soltanto fra le entrate e le uscite – e un debito consolidato che sfiora i 400 milioni, 370 per l’esattezza – ma anche per le inchieste interne (e dei magistrati romani). La prossima sostituzione di Andrea Lorusso Caputi, che l’azienda giustifica come un normale fine ciclo, ha scatenato i soliti rumori di viale Mazzini. Perché Lorusso Caputi, direttore di produzione, gestisce un sacco di appalti e la sua struttura sta per essere scandagliata dal controllo aziendale. A cominciare da un acquisto per quest’ultimo Festival di Sanremo.

Ecco che qui, di nome in nome, s’arriva a un nuovo debutto: da ieri mattina, Gianfranco Cariola (ex Eni) presiede l’audit – l’organismo che verifica le violazioni dei dipendenti – mentre Marco Zuppi andrà a occuparsi di canone.

Anche su Zuppi la vulgata ufficiale precisa che si tratta di una promozione, ma appare bizzarro trasferire colui che ha appena esaminato il caso Tg1: stipendi gonfiati con notturni e festivi fasulli, comprese note spese un po’ allegre. La pratica Tg1 fu chiusa con un esposto alla Procura di Roma che ha aperto un fascicolo, ancora senza indagati e ipotesi di reato, ma che potrebbe contestare la truffa. Siccome le magie per arrotondare la busta paga erano (o sono) diffuse, la Procura potrebbe coinvolgere anche le restanti redazioni Rai, dislocate a Saxa Rubra, lontano dal cuore e lontano dagli occhi.

Senza dimenticare l’indagine sui diritti televisivi di Rai Cinema che si è allargata a Rai2 e il contenzioso con Augusto Minzolini: assolto in primo grado dall’accusa di peculato, si potrebbe andare in appello.

Il futuro di viale Mazzini, e soprattutto di Luigi Gubitosi, si decide sul piano industriale. Il gruppo di potenti e anziani (tanti berlusconiani), non soltanto in senso anagrafico, non gradisce questo direttore generale, che si voleva far approvare in Consiglio di amministrazione un progetto di oltre 300 pagine consegnato 48 ore prima. Tra i corridoi hanno persino minacciato la sfiducia.

MA c’è chi ha smesso di lottare. Il vicedirettore generale Gianfranco Comanducci, simbolo del berlusconismo in viale Mazzini e fortunato vincitore di una polizza da mezzo milione di euro per un infortunio in bicicletta, ha firmato la resa con la pensione.

E con lui, per diversi motivi, hanno firmato in 400: l’obiettivo di Gubitosi è 600. Queste cifre non sono marginali, però, per il momento, non riflettono la condizione di viale Mazzini: il bilancio continua a perdere milioni. Qui si rischia la morte per emorragia


e poi dicono che il problema è grillo...

qui la casa è marcia dalla fondamenta e da tempo immemore... italiani brava gente ma dalla memoria corta... molto corta
 
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questa e la nostra televisione mi sono dimenticato di inserire clerici che guadagna oltre due milioni l'anno
 
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Leonardo Del Vecchio: "è tutta colpa delle banche"
Il più grande imprenditore italiano attacca le banche e ne denuncia la speculazione.

Tratto da: Il più grande imprenditore italiano attacca le banche e ne denuncia la speculazione. | Informare per Resistere Il più grande imprenditore italiano attacca le banche e ne denuncia la speculazione. | Informare per Resistere
- Nel tempo dell'inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario!

E’ il nostro fiore all’occhiello.

E’ forse l’unica grande azienda italiana, leader planetario nel suo specifico settore merceologico, ad essere virtuosa, solida, in espansione. Presente in 132 nazioni, ha 75.560 dipendenti, di cui 62.000 addetti che producono nel territorio della repubblica italiana. Non ha neppure un cassintegrato e non ne prevede. Il suo titolo quotato in borsa, soltanto nel 2012, è schizzato in avanti del 32%: unico titolo in positivo. Il suo fatturato si aggira intorno ai 7 miliardi di euro, superiore di un +13,1% rispetto all’anno precedente.

L’azienda è nata nel 1961, ad Agordo, in provincia di Belluno, dentro un garage.

La storia di questa fabbrica e del suo ideatore e fondatore è studiata oggi nel corso di management industriale all’università di Harvard come esempio pratico e vincente “del miracolo economico italiano che coniuga impresa, creatività, rischio, con una ricerca accurata del design, del gusto e del dettaglio che nasce dall’applicazione della tradizione artigiana locale”.



L’azienda non ha mai visto uno sciopero, né uno scorporo, né proteste.

Si chiama LUXOTTICA. Produce lenti per occhiali e li vende in tutto il mondo. Tra i suoi clienti più famosi la polizia stradale della California (i celeberrimi CHIPS) l’esercito cinese, tutta la linea occhiali di Christian Dior e Yves Saint Laurent. Produce in Italia e vende in Cina.

Il suo proprietario e fondatore, Leonardo Del Vecchio, nato nel 1935 a Milano, è poco noto alla massa degli italiani. Ma il suo nome è un mito in Usa, Germania, Gran Bretagna, Cina.

La sua frase più recente? “Non investiamo neppure un euro nella finanza, perché noi sappiamo come produrre, come inventare mercato, avendo come fine la ricchezza collettiva della comunità, altrimenti questo lavoro non avrebbe senso”.

Alieno da conventicole, complotti, schieramenti politici di parte, corteggiato da sempre sia dalla destra che dalla sinistra (“no grazie, non mi piacciono i balli a corte” ha risposto all’ultima preghiera-convocazione alle elezioni politiche del 2008 sia al PD che al PDL che alla Lega Nord) è uscito allo scoperto per la prima volta nella sua esistenza, violando il suo codice personale fatto di discrezione, poche chiacchiere e molto lavoro intinto di creatività.

“Basta con i manager mitomani finanzieri” ha detto al giornalista Daniele Manca in una esplosiva intervista pubblicata sul corriere della sera qualche giorno fa, non a caso, in Italia, volutamente passata sotto silenzio e rimasta priva del dibattito che avrebbe meritato.

Ma non all’estero.

Soprattutto in Usa e in Gran Bretagna dove la situazione italiana è seguita con estrema attenzione, perché Del Vecchio sta spiegando come funziona l’Italia, anzi….come non funziona l’Italia e perché, allertando il business internazionale che conta sulla situazione nel nostro paese. Vox clamantis in deserto, la sua opinione è fondamentale, soprattutto in questo momento, e per una ragione ben specifica: perché Del Vecchio è sceso in campo (non ama e non ha bisogno di visibilità) andando all’attacco del cuore della finanza italiana.

Qualche notizia biografica su di lui tanto per capire che tipo sia.

All’età di sette anni rimane orfano, insieme a quattro fratelli. Provenendo da famiglia disagiata, i fratelli vengono dati in affidamento. Lui, invece, finisce nei Martinitt, l’orfanotrofio milanese per poveri. All’età di 15 anni, con il diploma di scuola media, esce e va a lavorare come garzone di bottega in una fabbrica che stampa marchi di metallo. I proprietari del negozio lo aiutano e lo spingono a iscriversi ai corsi serali all’Accademia di Brera per studiare design e soprattutto incisione. A ventidue anni si trasferisce nel trentino dove trova lavoro come operaio in una fabbrica di incisioni metalliche e impara il mestiere. Dopo sei anni, all’età di 27 anni, riesce a ottenere gratis un enorme garage e capannone abbandonato nel comune di Belluno, di proprietà della regione, con la consegna di avviare un’attività per assumere personale proveniente dalle comunità montane più disagiate. E inizia, insieme a due collaboratori, a tirar su l’impresa: fabbricare occhiali all’italiana, con montature originali artigianali d’eccellenza, incise a mano, e lenti molate da lui personalmente. Vent’anni dopo è una florida azienda e va all’attacco del mercato statunitense che gli mette potenti sbarramenti. Li supera tutti. Stende la concorrenza più competitiva che si arrende. Acquista i tre più importanti marchi Usa e diventa la più potente multinazionale al mondo nel settore della produzione di occhiali. Dal 2002 è leader incontrastato.

Oltre ad essere il maggior azionista di Luxottica è un importantissimo grande azionista di Unicredit e soprattutto le assicurazioni Generali. Data la sua posizione è sempre stato nel consiglio direttivo del colosso assicurativo. Tre giorni fa (ed ecco perché ne parliamo e lui ha deciso di parlarne al pubblico) si è dimesso, se n’è andato sbattendo via la porta, con un clamoroso atto d’accusa: “la mia è una protesta contro il management imprenditoriale di questo paese, composto da individui superficiali che non sanno nulla del loro lavoro, sono semplici contabili mitòmani. Mi sento davvero a disagio. Il vero problema è che quando da assicuratori si vuole diventare finanzieri comprando le più disparate partecipazioni senza comunicare nulla ai propri azionisti, non si fa un buon servizio né per l’azienda, né per gli azionisti, né per il paese. Mentre questo è un periodo in cui ciascuno dovrebbe fare il proprio dovere, ovverossia: fare ciò che sa fare. E chi crede che lo spread sia domato, si sbaglia di grosso. Basta un nulla per farlo schizzare a 600 e mandare la nazione a picco. E’ ciò che stanno facendo gli imprenditori italiani e le banche e i colossi assicurativi perché insistono nell’investire nella finanza: il rischio è alto ed estremo”.

La considero una voce fondamentale da ascoltare, quella di Leonardo Del Vecchio.

Sulla quale riflettere. Perché l’Italia ha bisogno di un incontro tra imprenditoria efficace, efficiente e virtuosa da una parte e mondo del lavoro dall’altro, uscendo fuori dalle consuete griglie di protesta che finiscono per coagulare dissenso e indignazione uscendo fuori dalla immediata necessità di emergenza di costruire alleanze solide tra le due parti sociali.

Del Vecchio è sceso in campo.

Nel modo giusto.

Non scende in campo appoggiando un certo partito, né movimento. Non ama Monti e non lo odia. Non vuole entrare in politica come soggetto. Vuole dare uno scossone al mondo dell’imprenditoria. La sua voce è da diffondere.

Perché il suo curriculum professionale ed esistenziale è il suo biglietto da visita.

“Il problema dell’Italia nasce quando si vuole fare finanza. Quando, le aziende, usando i soldi degli investitori e soprattutto dei risparmiatori, comprano un pezzettino di Telecom, e un pezzetto di una banca russa; si mettono a repentaglio –come nel caso delle assicurazioni Generali- ben due miliardi di euro alleandosi con il finanziere ceko Kellner e ci si impegna con la Citylife in una percentuale che nessun immobiliarista al mondo avrebbe mai accettato, com’è avvenuto nel 2009 quando hanno investito 800 milioni in fondi di investimento greci. Miliardi di euro sono andati in fumo. Erano soldi di imprenditori italiani che avevano investito con l’idea di poter poi spostare i profitti nel mercato del lavoro per tirar su imprese e creare lavoro. I manager responsabili di questi atti perdenti sono stati tutti promossi e saldati con stipendi multi milionari. Non si va da nessuna parte, così”.

E’ impietoso, Del Vecchio. Picchia duro. E se lo può permettere. E parlando al canale televisivo di Bloomberg, quando un giornalista americano gli ha fatto la domanda da 1 milione di dollari “Lei come si pone rispetto all’articolo 18 che in Italia è il punto dolente nello scontro tra imprenditori e lavoratori?” ne è uscito in maniera impeccabile. Ha risposto: “Un dibattito inutile, fuorviante. Personalmente, ripeto “personalmente” non mi riguarda. Su 65.000 lavoratori italiani che pago ogni mese, non c’è nessuno, neppure uno che rischia il licenziamento. Che ci sia l’art.18 così com’è, che venga abolito, modificato, cambiato, per me è irrilevante. La mia azienda funziona e ogni imprenditore -parlo di quelli veri- ha come sogno autentico quello di assumere e non di licenziare. Il paese si rialza assumendo non licenziando. E la colpa è delle banche”.

E’ la prima volta che un grande imprenditore, un grande finanziere, un grande industriale, attacca frontalmente le banche italiane. E qui non si tratta dei bloggers che odiano Goldman Sachs o dei consueti slogan contro la finanza internazionale. Perché Del Vecchio attacca la gestione inconcludente delle banche, affidata a “personale e personalità poco affidabili”. Racconta la parabola di Alessandro Profumo che lui presenta come una favola con un brutto finale, senza fare pettegolezzi o scandali.

Finchè Unicredit e le Generali facevano le banche andava bene. Poi si sono buttati nella finanza e hanno perso la testa. Ho visto sotto i miei occhi trasformarsi Profumo. Partecipazioni, fusioni, investimenti a pioggia inutili e perdenti, con l’unico fine di agguantare soldi veloci e facili invece che produrre impresa con l’unico risultato di ottenere perdite colossali e bonus di uscita per diverse decine di milioni di euro. Le banche italiane hanno perso la testa. Ricordo il 1981. La mia azienda, dopo 20 anni, era diventata forte e solida. Avevo capito che la globalizzazione era alle porte e bisognava andare all’attacco del mercato americano. Ma non si cerca di entrare in Usa se non si è solidi finanziariamente. Abbiamo fatto le nostre ricerche e analisi e alla fine abbiamo calcolato che avevamo bisogno di una certa cifra molto alta. Mi rivolsi al Credito Italiano. Andai a parlare con Rondelli che la dirigeva. Gli dissi che volevo iniziare acquistando Avantgarde, un marchio americano che sarebbe stato il cavallo di *****, ma non avevo i soldi. Presentai il progetto, il business plan, il programma, i rischi. Dieci giorni dopo mi convocò alla banca. Accettò. Mi presentai in Usa che mi ridevano in faccia. Dissero la cifra. Tirai fuori il libretto di assegni e firmai senza neppure chiedere lo sconto di un dollaro. Due ore dopo, l’amministratore delegato di Avantgarde mi confessò al bar penso di aver commesso il più grande errore professionale della mia vita e si ritirò dagli affari. Un anno dopo avevo restituito alla banca tutto il capitale con gli interessi composti, avevo aperto quattro nuovi stabilimenti e assunto 4.500 persone. Questo deve fare una banca. O in Italia lo capiscono e si danno una smossa, oppure si rimane alle chiacchiere e si affonda”.

Del Vecchio spera e auspica che Monti intervenga molto presto nel settore che lui (e Corrado Passera) conoscono molto ma molto bene: banche e finanza italiane. E propone di far applicare un codice ferreo di regolamentazione comportamentale che imponga a tutti gli amministratori delegati di banche, fondazioni e aziende, di riferire come usano i soldi.

“Alle Generali l’amministratore delegato poteva disporre investimenti fino a 300 milioni di euro senza comunicare niente a nessuno. Lo stesso a Unicredit, Intesa SanPaolo, Mps. La verità è che nessuno sa dove vanno a finire quei soldi, dove siano andati a finire i soldi. La mia azienda alla fine dell’anno si ritrova circa 700 milioni di euro da investire. Andrea Guerra che è il mio amministratore ogni volta che deve spendere cifre superiori a 1 milione di euro, informa ogni singolo membro del consiglio e manda copia a ogni importante azionista. Pretende di avere delle risposte e pretende che si discuta del suo investimento perché vuole sapere l’opinione di tutti, compreso il collegio sindacale interno e il rappresentante sindacale dei lavoratori dipendenti. Perché l’azienda è anche loro. Il loro posto dipende dalle scelte di chi dirige. Ogni decisione presa viene valutata collettivamente. Se si rischia, lo sanno tutti, l’hanno accettato. Non esistono mai sorprese. Questa è la strada. Non ne esistono altre. O si fa così, o si chiude tutti quanti, baracca e burattini”.

Perché la classe politica italiana non si fa carico delle gravissime preoccupazioni di imprenditori come Del Vecchio e non interviene in proposito?

Non stanno lì in parlamento ad appoggiare un gruppo di professori nel nome delle imprese e della ripresa economica? Se non ascoltano i leader che producono, che senso ha? Dov’è il Senso?

Ho pensato che potesse essere interessante una voce insolita, diversa dai precari, dai disoccupati, dai licenziati, che vivono ogni giorno la propria tragedia esistenziale. Il nemico non sono le imprese. Il vero nemico è la sordità di governanti e politici che non ascoltano chi produce e conosce la verità del mercato.

Quello è il vero nemico.

Quella sordità è l’anti-politica. Che cosa c’entra Beppe Grillo?


Tratto da: Il più grande imprenditore italiano attacca le banche e ne denuncia la speculazione. | Informare per Resistere Il più grande imprenditore italiano attacca le banche e ne denuncia la speculazione. | Informare per Resistere
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da vomitoooooooooooooo

Un usciere del Senato con 40 anni di anzianità con una semplice terza media guadagna 10.477 euro lordi mensili
Il documento, datato fine 2012, riporta gli stipendi lordi dei dipendenti, con gli scatti per ogni anno di servizio e la simulazione della loro curva retributiva. Più che una curva, una linea retta che schizza verso l'alto e vola verso i livelli stellari di fine carriera, pari a quelli di un manager d'azienda. Quelle tabelle sono il frutto di un tentativo, fatto dagli appositi comitati per il personale di Senato e Camera, di ridurre un po' gli stipendi finali dei dipendenti del Parlamento, portandoli da 27mila a 21mila euro per il livello fine carriera. Ma niente, non c'è stato nulla da fare contro le barricate delle 13 sigle sindacali a Palazzo Madama, soprattutto con quella più forte, la Cgil Senato, la più decisa a difendere i privilegi dei lavoratori da 30mila euro al mese.

Partiamo dal grado più basso, la «fascia di assistenza tecnico-operativa», cioè i commessi, o i famosi barbieri. Appena arrivati hanno un lordo di 2.482 euro al Senato e 2.338 euro alla Camera. Ma dopo soltanto 12 mesi, per contratto, scattano rispettivamente a 2.659 euro e 3.199, e ogni anno guadagnano di più, inesorabilmente, recessione o non recessione, crisi o non crisi. Con 40 anni di anzianità l'ultimo stipendio dell'usciere è di 10.477 euro lordi mensili (aumentato del 400% rispetto inizio carriera), che moltiplicati per 15 mesi fanno 157.500 euro all'anno, come un dirigente di una grossa azienda. La fascia successiva, quella della «Assistenza amministrative» (le segretarie che fanno le fotocopie e mandano le convocazioni delle commissioni), che partono appena assunti da 3.048 euro al mese e finiscono la carriera con 12.627 euro mensili al Senato e 11.949 alla Camera. Poi ci sono i funzionari, che partono da 3.700 come neoassunti e finiscono a 17mila euro, fino ai dirigenti, che progrediscono da 5.593 a 27.885 euro mensili. Quando la Corte costituzionale ha bocciato il taglio del 5% sugli stipendi pubblici oltre i 90mila euro, i dipendenti del Senato hanno fatto ricorso. E Palazzo Madama ha dovuto sborsare 2,2 milioni sull'unghia per risarcirli. Mentre le casse pubbliche andavano, e vanno, a picco.
 

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