Macroeconomia Crisi finanziaria e sviluppi

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Italy's Shot of Southern Discomfort

The euro-zone bailout slowed the Greek meltdown. But it may simply have moved the pain elsewhere and unwittingly painted a bull's-eye on a much bigger target: Italy.

Italian bonds are suffering. The yield spread between 10-year Italian and German government bonds widened to 1.58 percentage points on Wednesday, wider than before the €750 billion ($917.7 billion) euro-zone rescue plan was unveiled. Credit-default swaps on Italian government debt are now at a record, with $10 million of insurance costing $248,000 a year.

On one level, that seems unjustified. Italy has weathered the crisis well. The deterioration in its credit-worthiness is small compared with what has happened in Spain, Portugal, Greece or Ireland.

The financial crisis will push Italian debt up to 117.8% of GDP by 2011 from 103.5% in 2007, according to Moody's Investors Service. That isn't far above the level of 12 years ago. In contrast, Spain's debt will rise by 37.8 percentage points of GDP in the same period, and Ireland's, by 71.1 percentage points.

Crucially, the Italian primary budget position—stripping out interest payments—is balanced, and the costs it has borne to support banks during the crisis have been minimal. Italy also has lower levels of household debt than Spain, for example, and the government has approved concrete measures for the next two years to rein in the budget.

But that relative conservatism partly reflects the fact that it entered the crisis with debt levels above those of Greece and was unable to dole out cash as liberally as other governments. Meanwhile, a distorted market and a lack of detail on the euro-zone bailout mechanism are conspiring against it.For investors worried about making bets against an intervening European Central Bank, which has focused on buying Greek, Irish and Portuguese bonds, the obvious bet is against Italy. Meanwhile, some investors may simply want to scale back their exposure to all debt from so-called peripheral European countries.

Investors can't ignore Italy's heavy debt load, even if it isn't rising fast. A key problem is rollover risk. Italy is set to issue €241 billion of government bonds this year, of which €170 billion covers redemptions, according to ING. Market access is vital, and interest rates need to be kept as low as possible to avoid the deficit widening further—creating the risk of a vicious cycle.

Italian bond spreads and credit-default swaps are now the ones to watch. With nearly €1.5 trillion of debt outstanding, the Italian government-debt market is the third-largest in the world behind the U.S. and Japan, according to Deutsche Bank. That isn't a market the euro zone can afford to lose control of.
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Istat: «Nel Paese solo micro imprese» In 4 mesi scomparse 178mila aziende

Poco più di 4,5 milioni di imprese
che occupano, complessivamente,
circa 17,9 milioni di addetti. È la fotografia
del sistema produttivo italiano
relativo al 2008 che, secondo
quanto ricava l’Istat dall’Archivio
statistico delle imprese Attive
(Asia) è fortemente caratterizzato
dalla presenza di micro imprese: sono
infatti quasi 4,3 milioni le imprese
con meno di 10 addetti, ovvero il
95 per cento del totale e occupano il
46 per cento degli addetti. Il 21 per
cento degli addetti (quasi 3,8 milioni)
lavora nelle piccole imprese (da
10 a 49 addetti) e il 12,5 per cento
(oltre 2,2 milioni) in quelle di media
dimensione (da 50 a 249 addetti).
Soltanto 3.735 imprese (0,08 per
cento) impiegano 250 addetti e più,
assorbendo, tuttavia, il 20 per cento
dell’occupazione complessiva (circa
3,6 milioni di addetti). La struttura
delle imprese, in termini di attività
economica, è caratterizzata da una
forte concentrazione dell'occupazione
nel settore manifatturiero, con oltre
il 25 per cento degli addetti totali,
nel Commercio all'ingrosso e al
dettaglio (20 per cento dell'occupazione
totale) e nelle Costruzioni (poco
più dell'11 per cento). In particolare,
all'interno del manifatturiero si
conferma il peso rilevante della Fabbricazione
di prodotti in metallo, le
cui imprese occupano 792 mila addetti,
delle Industrie tessili (quasi
597 mila addetti) e delle Industrie
alimentari (oltre 439 mila addetti).
Le imprese industriali presentano
una dimensione media maggiore rispetto
a quelle del settore terziario.
Intanto un altro allarme arriva dall’Ufficio
studi della Camera di commercio
di Monza e Brianza: «La crisi
continua a incidere sul sistema imprenditoriale:
tra gennaio ed aprile
2010 hanno cessato l’attività
177.556 imprese, con un saldo tra
iscritte e cessate negativo di oltre
14mila imprese, con una variazione
annuale delle imprese attive che registra
un -0,4%»
 
contrariamente a quanto si era ventilato, oggi ,su cdt, appare:

..................

ECONOMIA
CRISI: SCELTE POLITICHE NON ALL'ALTEZZA


ALFONSO TUOR


Iproblemi messi in luce dalla crisi finanziaria sono anco­ra irrisolti.

Nel frattempo le politiche monetarie e fiscali at­tuate per evitare una nuova Grande Depressione hanno creato nuovi focolai di crisi.

In­somma, finora si è riusciti solo a guadagnare un po' di tempo e appare ogni giorno più eviden­te che «il Re è nudo».

La causa prima della crisi, co­me abbiamo sempre sostenuto, è l'accumulazione nei Paesi oc­cidentali di un'enorme quanti­tà di debito privato e pubblico, resa insostenibile dalla nuova ingegneria finanziaria che ha moltiplicato il pericolo delle in­solvenze creando una vasta gamma di strumenti, attraver­so i quali questi debiti veniva­no impacchettati, e costruendo una serie di scommesse finan­ziarie di nessuna o scarsa utili­tà per l'economia reale ma di grande redditività per banche di investimento, Hedge Fund ecc.


In parole povere, l'insol­venza della famiglia americana di modeste condizioni che ave­va acceso un mutuo ipotecario, i famosi mutui subprime, non si è quindi limitata alla tradizio­nale perdita, data dalla diffe­renza tra l'entità del prestito bancario e il prezzo ottenuto at­traverso la vendita all'asta del­l'oggetto ipotecato, ma in una profonda destabilizzazione dei mercati finanziari.

Questi stru­menti vanno dai Mortgage Bac­ked Securities (MBS), in cui queste ipoteche erano state im­pacchettate, a tutti quegli stru­menti (CDO, CDS, Swap ecc.) che erano stati utilizzati per moltiplicare le scommesse fi­nanziarie sempre sulle stesse ipoteche.

Per questi motivi, an­che se è corretto sostenere che la crisi è stata originata da un eccessivo indebitamento pub­blico e privato, è tuttavia indi­spensabile completare questa affermazione aggiungendo che questi debiti si sono accumula­ti a causa delle politiche liberi­ste auspicate dal settore finan­ziario e sono divenuti dirom­penti per il sistema a causa de­gli strumenti della nuova inge­gneria finanziaria.

Questa pre­cisazione è necessaria, poiché è in corso un subdolo tentativo da parte dell'industria finanzia­ria di riscrivere le cause della crisi addebitandola a famiglie e Governi e facendo apparire banche d'investimento ed Hed­ge Fund incolpevoli spettatori.

Non si deve permettere questo nuovo in­ganno, anche perché è funzionale alla legittimazione di progetti di ri­forma del settore finanziario che non incidono sui meccanismi che han­no originato la crisi. E ciò vale per la riforma finanziaria che sta metten­do a punto il Congresso degli Stati Uniti.

Come ha scritto l'economista americano Nouriel Roubini: «La maggioranza delle proposte in di­scussione è irrilevante o inadegua­ta.

Le grandi istituzioni finanziarie devono essere smembrate, poiché sono troppo grandi, troppo inter­connesse e troppo complesse.

Biso­gna ritornare al Glass-Steagal Act (ossia la separazione tra banche commerciali, assicurazioni e ban­che di investimento) per il bene del­l'economia».

Nulla di tutto ciò si pro­spetta all'orizzonte, anche se le idee di Nouriel Roubini coincidono con quelle di esponenti di primo piano dell'amministrazione Obama, come l'ex presidente della Fed Paul Vol­cker, e autorevoli esponenti del Se­nato americano, come John McCain.

Il potere di Wall Street è ancora trop­po forte per avere un settore finan­ziario non autoreferenziale, ma uti­le all'economia reale, ossia ad im­prese e famiglie.

E ciò ovviamente non vale solo per gli Stati Uniti, ma anche per l'Europa dove ai procla­mi politici iniziali è succeduta l'ina­zione

. E anche in Svizzera, dove ieri il Consiglio degli Stati ha frenato sul problema degli istituti finanziari troppo grandi per fallire.

Non si deve permettere questa mi­stificazione anche perché il settore finanziario è quello che sta benefi­ciando dei maggiori aiuti pubblici che vanno dalle garanzie implicite ed esplicite fornite dagli Stati con­tro l'eventuale fallimento di un isti­tuto bancario alla politica dei tassi di interesse di poco superiori allo ze­ro, di cui i principali beneficiari so­no le banche; dal trasferimento di enormi quantità di insolvenze ai Go­verni fino al cambiamento delle re­gole contabili che consentono di continuare ad iscrivere a bilancio i titoli tossici al prezzo di acquisto ed ora in Europa anche le obbligazioni con cui si finanziano gli Stati.

Il tra­sferimento all'erario pubblico di questi buchi bancari, i costi della cri­si (minor gettito fiscale, maggiori spese sociali) e i pacchetti di rilan­cio dell'economia hanno contribui­to a far esplodere deficit e debiti pub­blici che erano già troppo elevati ed
in alcuni Paesi, come la Grecia, addi­rittura insostenibili.

La crisi fiscale degli Stati non riguar­da unicamente i Paesi che hanno aderito all'Unione monetaria euro­pea ed hanno quindi adottato l'euro, ma riguarda anche Gran Bretagna e Stati Uniti.

E proprio mercoledì scor­so l'amministrazione Obama ha an­nunciato che il debito pubblico ame­ricano ha sfondato quota 13 mila mi­liardi di dollari e che dunque ha rag­giunto l'88% del PIL statunitense.

Si tratta di un livello di indebitamento pubblico superiore a quello della Spagna (che attualmente si aggira at­torno al 70%), ossia di un Paese di Eurolandia ritenuto oggi a rischio.

Ma la situazione americana è ancora peggiore.

Stando al Fondo moneta­rio internazionale, il debito pubblico americano raggiungerà quest'anno il 92,6% del PIL.

Ma questo dato non rappresenta la realtà: se nel debito pubblico americano venissero inclu­si anche i debiti dei singoli stati ame­ricani, delle agenzie statali Fannie Mae e Freddie Mac e i debiti di altre agenzie statali, ci si accorgerebbe che il debito pubblico americano am­monta al 110% del PIL.

È quindi com­prensibile il timore dell'amministra­zione Obama che la crisi dell'euro
possa intaccare anche la credibilità del debito pubblico americano, tan­to più che quest'ultimo si deve som­mare a un notevole indebitamento privato e alla necessità di farsi finan­ziare dall'estero ed in primo luogo dalla Cina.


In conclusione la crisi è ancora solo alle battute iniziali.
Le politiche va­rate dopo il fallimento della Lehman Brothers stanno mostrando la cor­da.

La crisi greca e quella dell'euro hanno fatto sì che in Europa le po­litiche fiscali da espansive si stiano rapidamente trasformando in poli­tiche restrittive.

Ciò sta avvenendo anche in Gran Bretagna e per moti­vi diversi in alcuni Paesi emergenti.
La crisi dell'euro ha inoltre fatto ri­cordare che la crisi del sistema ban­cario non è affatto risolta.

In propo­sito basta usare le recenti previsio­ni della Banca centrale europea, se­condo cui gli istituti di credito di Eu­rolandia devono ancora denuncia­re almeno 195 miliardi di euro di perdite.

La crisi non è affatto finita e rischia di durare più a lungo, poi­ché non vi è il coraggio politico so­stenuto da un consenso dell'opinio­ne pubblica per prendere quelle de­cisioni dolorose che ne potrebbero accorciare i tempi.

Alfonso Tuor
 
anche la svizzera esposta all crisi

Lo ha affermato Philipp Hildebrand, della BNS


Il presidente della Banca centrale svizzera ha partecipa­to al Swiss Economic Forum a Interlaken (BE) - I bilanci delle banche svizzere ammontano a 7 volte il PIL elvetico

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La Svizzera rimane fortemen­te esposta al pericolo di una cri­si del mondo finanziario, in par­ticolare riguardante una grande banca, e occorre quindi agire per porre rimedio alla situazione. Lo ha affermato il presidente della Banca nazionale (BNS) Philipp Hildebrand nel suo discorso al Swiss Economic Forum in corso a Interlaken (BE).
Oggi gli attivi degli istituti elveti­ci ammontano a sette volte il Pro­dotto interno lordo elvetico: UBS e Credit Suisse raggiungono già da sole quattro volte il PIL, e que­sto nonostante il fatto che le som­me di bilancio degli ultimi due anni siano regredite del 35%, ha spiegato Hildebrand.
Considerata questa esposizione estrema sarebbe irresponsabile aspettare la conclusione del pro­cesso di riforma delle regolamen­tazioni in atto a livello interna­zionale. Questo anche perché la crisi finanziaria ha mostrato in modo chiaro due aspetti centra­li: in primo luogo, nonostante i mercati globali, la responsabilità di una stabilizzazione o di salva­taggi spetta alle autorità nazio­nali, e secondariamente la fattu­ra di queste operazioni deve al­la fine essere pagata dal contri­buente locale. La Svizzera ha co­sì avviato alla fine del 2008 un'ambiziosa riforma per miglio­rare capitalizzazione e liquidità delle grandi banche. Questo non vuole però dire che vi sia disin­teresse per il processo di revisio­ne delle regole a livello sovrana­zionale: al contrario, la BNS si im­pegna intensamente nei lavori avviati dal Financial Stability Bo­ard. Anche a livello internazio­nale la priorità deve essere data ai temi del capitale e della liquidi­tà, nonché al problema del «trop­po grande per fallire».


cdt, oggi
 

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