Rottweiler
Forumer storico
La storia ci insegna che in tempi di crisi economica le tesi più grettamente egoiste tendono a conquistare ampio favore popolare.
E' altrettanto noto che, sorretto da questo andazzo, non manca mai il tentativo di nobilitare tesi normalmente confinate al bar di paese, elevandole al rango di nuove leggende.
Forse anche in previsione del confronto elettorale europeo, Alessandro De Nicola si propone di confutare alcune di queste nuove leggende:
Con l'approssimarsi delle elezioni europee, sembra prender fiato anche in Italia una nouvelle vague anti-euro. Sono infatti contrari alla moneta unica Fratelli d'Italia e Lega Nord più qualche settore della sinistra estrema. Grillo propone un referendum per decidere sulla permanenza dell’Italia nell’euro e Forza Italia non può schierarsi per l’uscita, ma certo non se ne erge a strenuo difensore. In televisione poi imperversano opinionisti i quali, con ragionamenti più o meno articolati, sostengono che la valuta comune è all’origine dei nostri guai.
Orbene, nessuno nega che un mercato comune con moneta unica, ma senza unione né bancaria né politica né fiscale, abbia insite delle inevitabili fragilità. Tuttavia, senza mettersi a discettare della teoria delle aree valutarie ottimali, è utile riassumere alcune delle bugie più eclatanti sull’euro e immaginare un futuro scenario in cui il ministro dell’Economia Casaleggio annunci l’intenzione del governo italiano di indire un referendum o di richiedere ai nostri partner dell’Unione di negoziare l’addio alla divisa europea.
Prima bugia: l’euro ha rallentato la crescita. Non è corretto. Se vediamo le statistiche dal 1999 (anno in cui i cambi erano già fissi) al 2012, le nazioni dell’area euro sono cresciute in media dell’1% l’anno, più o meno come gli altri paesi avanzati. Solo l’Italia è a zero, indice della presenza di problemi endogeni e non comuni a tutto il Vecchio Continente.
Seconda bugia. L’euro forte ha danneggiato malamente le esportazioni. Può darsi. Non certo quelle della Germania, che è semplicemente riuscita a essere più efficiente di noi, ma, sorpresa-sorpresa, nemmeno l’export italiano. Infatti, mentre secondo i dati Ocse dal 2000 al 2012 il nostro Pil boccheggiava, il costo del lavoro per unità di prodotto cresceva e la nostra produttività diminuiva più di ogni altro paese sviluppato (ancora una volta problemi nostri), le esportazioni se la cavavano assai bene salvo un collasso nel 2009. Le conclusioni sono che le industrie aperte alla concorrenza internazionale si sono ristrutturate, hanno tenuto botta su costo del lavoro e produttività, mentre il settore pubblico, dei servizi e domestico ha fatto molto peggio. Colpa dell’euro?
Terza bugia. È scoppiata l’inflazione e una pizza al ristorante è passata da 6 mila lire a 6 euro. Anche questo è falso. Salvo fenomeni a tutti visibili che pur si sono verificati, il livello dei prezzi al consumo è rimasto sorprendentemente stabile verso il basso per un lunghissimo periodo. Anzi, se guardiamo poi al differenziale dei tassi di interesse tra il periodo prima e post ingresso in area euro, scopriamo che i tassi di interesse sono crollati e i risparmi dello Stato italiano sugli interessi pagati sul debito pubblico sono stati enormi. Alcuni studiosi li stimano addirittura in diverse centinaia di miliardi.
Vediamo ora l’effetto dell’annuncio del nuovo ministro dell’Economia. È noto che l’argomento forte dei sostenitori della exit strategyè che con la neolira finalmente potremmo svalutare e dare impulso ad esportazioni e Pil. Ipotizziamo dunque che la popolazione e i mercati prendano sul serio questo obiettivo. Personalmente io andrei in banca, toglierei tutti i miei averi, liquidi e titoli, li trasferirei immediatamente e legittimamente in un altro paese e mi libererei degli euro comprando un bel paniere di franchi, dollari, sterline e yen per evitare di essere soggetto in futuro ad una conversione forzosa dei miei risparmi da euro a svalutatissime lire nonché alla chiusura delle frontiere (provvedimento più difficile, visto che il Trattato Ue proibisce ostacoli alla libera circolazione dei capitali). Gli stranieri, che detengono più di 600 miliardi del nostro debito pubblico, farebbero lo stesso: via tutti i Btp e i Bot, e chi li tiene pretenderà di essere pagato in euro veri. Risultato? È vero che l’inflazione temporaneamente aiuta il debitore emittente titoli a tasso fisso ma più avanti l’Italia non potrebbe più rifinanziare il debito pubblico se non con obbligazioni in carissima valuta straniera o in lire con interessi altissimi e quindi provocando comunque il collasso delle finanze pubbliche. Le banche non avrebbero più uno spicciolo depositato e di conseguen- za non potrebbero più prestarli. Ci sarebbe unsuper credit crunchcon fallimentisiadelle banche più deboli (che avrebbero in portafoglio Bot svalutati, dovendo però pagare in pieno i debiti con l’estero) che di migliaia di quelle stesse aziende le quali avrebbero dovuto approfittare della mitica svalutazione ma che si ritroverebbero senza fidi.
In una simile situazione la sfiducia sarebbe generalizzata: investimenti e consumi crollerebbero, mentre l’emigrazione di imprese e persone di alta qualità aumenterebbe.
Ma alla fine le nostre poche imprese sopravvissute riuscirebbero ad esportare di più? Secondo i diretti interessati mica tanto. Il Centro studi della Confindustria ha spiegato che il 60% del valore dei prodotti italiani è costituito da materie prime o semilavorazioni importate il cui prezzo ovviamente aumenterebbe immediatamente, mentre, prima di vedere gli effetti positivi del basso valore della lira, ci vorrebbero da 6 mesi a un anno. Inoltre, ci sarebbero subito svalutazioni di altre nazioni e nel frattempo, al riparo della moneta debole, le nostre imprese perderebbero competitività, risparmiando sull’innovazione ed evitando la riconversione industriale, pagando di lì a pochi anni la sbornia della liretta.
Il tutto accadrebbe mentre i lavoratori dipendenti e i pensionati (nonché gli autonomi, perché non si possono alzare troppo gli onorari se nessuno compra) si vedrebbero mangiati gli stipendi dall’inflazione galoppante (classica conseguenza della svalutazione).
Insomma, l’escapismo monetario individua la soluzione facile dell’uscita dall’euro per risolvere i nostri problemi, senza procedere alle necessarie riforme che consentano la flessibilità del mercato del lavoro e l’apertura dei mercati del prodotto nonché decurtino burocrazia, spesa pubblica, tasse e debito pubblico. È solo un sogno dalla bizzarra caratteristica che se si avverasse diventerebbe un incubo.
E' altrettanto noto che, sorretto da questo andazzo, non manca mai il tentativo di nobilitare tesi normalmente confinate al bar di paese, elevandole al rango di nuove leggende.
Forse anche in previsione del confronto elettorale europeo, Alessandro De Nicola si propone di confutare alcune di queste nuove leggende:
Con l'approssimarsi delle elezioni europee, sembra prender fiato anche in Italia una nouvelle vague anti-euro. Sono infatti contrari alla moneta unica Fratelli d'Italia e Lega Nord più qualche settore della sinistra estrema. Grillo propone un referendum per decidere sulla permanenza dell’Italia nell’euro e Forza Italia non può schierarsi per l’uscita, ma certo non se ne erge a strenuo difensore. In televisione poi imperversano opinionisti i quali, con ragionamenti più o meno articolati, sostengono che la valuta comune è all’origine dei nostri guai.
Orbene, nessuno nega che un mercato comune con moneta unica, ma senza unione né bancaria né politica né fiscale, abbia insite delle inevitabili fragilità. Tuttavia, senza mettersi a discettare della teoria delle aree valutarie ottimali, è utile riassumere alcune delle bugie più eclatanti sull’euro e immaginare un futuro scenario in cui il ministro dell’Economia Casaleggio annunci l’intenzione del governo italiano di indire un referendum o di richiedere ai nostri partner dell’Unione di negoziare l’addio alla divisa europea.
Prima bugia: l’euro ha rallentato la crescita. Non è corretto. Se vediamo le statistiche dal 1999 (anno in cui i cambi erano già fissi) al 2012, le nazioni dell’area euro sono cresciute in media dell’1% l’anno, più o meno come gli altri paesi avanzati. Solo l’Italia è a zero, indice della presenza di problemi endogeni e non comuni a tutto il Vecchio Continente.
Seconda bugia. L’euro forte ha danneggiato malamente le esportazioni. Può darsi. Non certo quelle della Germania, che è semplicemente riuscita a essere più efficiente di noi, ma, sorpresa-sorpresa, nemmeno l’export italiano. Infatti, mentre secondo i dati Ocse dal 2000 al 2012 il nostro Pil boccheggiava, il costo del lavoro per unità di prodotto cresceva e la nostra produttività diminuiva più di ogni altro paese sviluppato (ancora una volta problemi nostri), le esportazioni se la cavavano assai bene salvo un collasso nel 2009. Le conclusioni sono che le industrie aperte alla concorrenza internazionale si sono ristrutturate, hanno tenuto botta su costo del lavoro e produttività, mentre il settore pubblico, dei servizi e domestico ha fatto molto peggio. Colpa dell’euro?
Terza bugia. È scoppiata l’inflazione e una pizza al ristorante è passata da 6 mila lire a 6 euro. Anche questo è falso. Salvo fenomeni a tutti visibili che pur si sono verificati, il livello dei prezzi al consumo è rimasto sorprendentemente stabile verso il basso per un lunghissimo periodo. Anzi, se guardiamo poi al differenziale dei tassi di interesse tra il periodo prima e post ingresso in area euro, scopriamo che i tassi di interesse sono crollati e i risparmi dello Stato italiano sugli interessi pagati sul debito pubblico sono stati enormi. Alcuni studiosi li stimano addirittura in diverse centinaia di miliardi.
Vediamo ora l’effetto dell’annuncio del nuovo ministro dell’Economia. È noto che l’argomento forte dei sostenitori della exit strategyè che con la neolira finalmente potremmo svalutare e dare impulso ad esportazioni e Pil. Ipotizziamo dunque che la popolazione e i mercati prendano sul serio questo obiettivo. Personalmente io andrei in banca, toglierei tutti i miei averi, liquidi e titoli, li trasferirei immediatamente e legittimamente in un altro paese e mi libererei degli euro comprando un bel paniere di franchi, dollari, sterline e yen per evitare di essere soggetto in futuro ad una conversione forzosa dei miei risparmi da euro a svalutatissime lire nonché alla chiusura delle frontiere (provvedimento più difficile, visto che il Trattato Ue proibisce ostacoli alla libera circolazione dei capitali). Gli stranieri, che detengono più di 600 miliardi del nostro debito pubblico, farebbero lo stesso: via tutti i Btp e i Bot, e chi li tiene pretenderà di essere pagato in euro veri. Risultato? È vero che l’inflazione temporaneamente aiuta il debitore emittente titoli a tasso fisso ma più avanti l’Italia non potrebbe più rifinanziare il debito pubblico se non con obbligazioni in carissima valuta straniera o in lire con interessi altissimi e quindi provocando comunque il collasso delle finanze pubbliche. Le banche non avrebbero più uno spicciolo depositato e di conseguen- za non potrebbero più prestarli. Ci sarebbe unsuper credit crunchcon fallimentisiadelle banche più deboli (che avrebbero in portafoglio Bot svalutati, dovendo però pagare in pieno i debiti con l’estero) che di migliaia di quelle stesse aziende le quali avrebbero dovuto approfittare della mitica svalutazione ma che si ritroverebbero senza fidi.
In una simile situazione la sfiducia sarebbe generalizzata: investimenti e consumi crollerebbero, mentre l’emigrazione di imprese e persone di alta qualità aumenterebbe.
Ma alla fine le nostre poche imprese sopravvissute riuscirebbero ad esportare di più? Secondo i diretti interessati mica tanto. Il Centro studi della Confindustria ha spiegato che il 60% del valore dei prodotti italiani è costituito da materie prime o semilavorazioni importate il cui prezzo ovviamente aumenterebbe immediatamente, mentre, prima di vedere gli effetti positivi del basso valore della lira, ci vorrebbero da 6 mesi a un anno. Inoltre, ci sarebbero subito svalutazioni di altre nazioni e nel frattempo, al riparo della moneta debole, le nostre imprese perderebbero competitività, risparmiando sull’innovazione ed evitando la riconversione industriale, pagando di lì a pochi anni la sbornia della liretta.
Il tutto accadrebbe mentre i lavoratori dipendenti e i pensionati (nonché gli autonomi, perché non si possono alzare troppo gli onorari se nessuno compra) si vedrebbero mangiati gli stipendi dall’inflazione galoppante (classica conseguenza della svalutazione).
Insomma, l’escapismo monetario individua la soluzione facile dell’uscita dall’euro per risolvere i nostri problemi, senza procedere alle necessarie riforme che consentano la flessibilità del mercato del lavoro e l’apertura dei mercati del prodotto nonché decurtino burocrazia, spesa pubblica, tasse e debito pubblico. È solo un sogno dalla bizzarra caratteristica che se si avverasse diventerebbe un incubo.
Ultima modifica: