Euro ... perchè?

NO
giochino facile il tuo

sei tu che hai cambiato il discorso e uscito fuori tema



amico

fino alla pagina precedente l'argomento era solo ed esclusivamente l'effetto dell'euro come moneta unica sulle nazioni europee


io resto della opinione che le politiche fiscali ed euro siano collegati


per altro, nonostante tu dica di voler palrare solo dell'euro, editi questi post:

guarda che quando si farà davvero chiarezza
si scoprirà che il debito tedesco è molto alto
e ci si chiederà chi compera i Bund; solo la BUBA?
eggià i tedeschi fanno il QE perenne e nessuno dice niente
guarda che hanno i conti tarokkati alla greca



ma qui naturalmente siamo in tema al thread, secondo te
la tua opinione è che posso avere delle opinioni anche io ?
 
uppete
lo so che Bagnai è proprio un Komunista di sinistra sinistra
non so se mi sono spiegata
ma quando parla da esperto è meglio ascoltarlo


Oh, in quanto Komunista, Io sono +sx di Lui.:D

Infatti, Lui, si riferisce all'€ come moneta unica in Europa, in un Mondo in cui la speculazione è/fà parte dell'Economia dei/delle Paesi/Nazioni.

Io, invece, intendo/vorrei che ci fosse (almeno) una Moneta&Lingua comune/riconoscita/usata nel MONDO. (chiamarla € non è fondamentale)

LA SPECULAZIONE E' UN MESTIERE! E come tale NON ELIMINABILE! Men che meno con la filosofia.
 
SPECIAL REPORT: Il disastroso successo dell’EURO (III)


Scritto il 21 febbraio 2013 alle 14:36 da gaolin@finanza
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Ecco perchè l’Italia è finita in un inferno da cui non potrà più uscire

All’indirizzo EURO I ed EURO II i lettori di I&M possono leggere la prima e la seconda parte di questa serie di post.
Dopo aver esposto nella prime due parti, seppur sommariamente, l’evoluzione nel decennio trascorso della situazione economica dei primi 4, fra i 5 paesi PIIGS e poi quella dei paesi della Unione Europea più importanti, dedico questa terza parte a quelli che, nel contesto dell’economia internazionale, sono i più importanti per le relazioni che intercorrono fra questi e l’Europa, ovvero USA, Giappone e Cina. In aggiunta qualche accenno sulla Corea, quale degno rappresentante delle altre economie asiatiche in grande sviluppo.
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USA

Questo paese, a seguito dell’esito della II^ guerra mondiale, si è conquistato una leadership economica, finanziaria, politica e militare largamente riconosciuta dal resto del mondo, volenti o nolenti.
Quanto ciò sia un bene per il resto del mondo non è lo scopo di questo post che intende concentrare l’analisi sullo stato della sua economia reale basato, come per tutti gli altri, sulla competitività del proprio sistema industriale manifatturiero e del sistema paese nel suo complesso.
Se è vero che quanto a servizi gli USA sono certamente ancora il paese leader assoluto non altrettanto si può dire del suo sistema industriale in generale e manifatturiero in particolare.
Gli USA sono stati il primo paese che ha intrapreso la strada della delocalizzazione produttiva. Prima di ciò vi è stata, verso gli anni 70 e 80, la fase in cui la forza della sua moneta (USD) ha reso il costo del lavoro in particolare e del sistema paese in generale talmente elevato che ogni altro paese che produceva in competizione manufatti adeguati agli standard americani potesse avere vita facile nel penetrare questo mercato.
In un numero relativamente ridotto di anni, i negozi americani sono stati invasi da prodotti provenienti da ogni dove, in particolare Europa prima e Giappone subito dopo. Le aziende locali in difficoltà cominciarono a chiudere l’attività produttiva e progressivamente a specializzarsi sempre più in attività di trading e sviluppo di prodotti da realizzare altrove ma non in USA.
Fu questo l’inizio della delocalizzazione produttiva che ha, praticamente in un trentennio, desertificato questa nazione, quanto ad attività manifatturiere di prodotti destinati al consumo e all’investimento delle famiglie.
Con quali effetti?
Vediamoli analizzando i dati della solita tabella.

I dati sono limitati agli ultimi 8 anni ma se andassimo di altri 8 indietro, o di più, la situazione sarebbe la stessa.
Si nota che da un bel po’ gli USA convivono con un saldo delle partite correnti enorme. Per loro fortuna pagano tutto in US$ che, come è noto, è la moneta di riferimento per gli scambi economici e finanziari internazionali e ancora accettata da tutti quasi, dico quasi, fosse oro.
Insomma da anni gli USA importano merci e danno in cambio carta.
L’evoluzione della situazione ha fatto sì che il paese che dovrebbe avere una solidità finanziaria a prova di bomba, in quanto detentore della valuta di riferimento, è invece quello che ha e sta accumulando un debito verso l’estero enorme tale da averlo reso ormai un paese tecnicamente insolvente. Poi sappiamo che non è proprio così per tante altre ragioni.
Gli effetti di tutto ciò è che il popolo americano, nel suo complesso, è diventato sempre meno capace di produrre beni, sta dimenticando cosa sia il lavoro con annesso un po’ di sudore della fronte, sta perdendo la capacità di intraprendere attività tradizionali ma necessarie, sta perdendo la capacità di far da sé e si sta rendendo sempre più dipendente dalla involontaria generosità altrui.
Gli Usa sono diventati un popolo di affamati consumatori di prodotti realizzati altrove e, per il momento ancora, tutto ciò non li turba. Continuano a consumare energia al di là di ogni minima razionalità nell’uso della stessa, ad alimentarsi tutt’ora con esagerazione, a essere sempre più sedentari e, come risultato di tutto ciò, a essere sempre più rammolliti.
D’altra parte l’abitudine a fare i mantenuti dagli altri ha reso gli americani arroganti e dispotici. Si sono assunti il ruolo di guardiani con la forza dei loro interessi in tutto il mondo fino a causare guerre, quando lo ritengono funzionale all’interesse americano e soprattutto delle loro lobby militari, economiche e finanziarie, al punto che in buona parte del mondo gli USA sono visti con diffidenza, se non con ostilità e spesso con vero odio.
Insomma, nonostante non tutti la pensino così, gli USA sono una nazione già bene avanti sulla via del declino economico. La loro attuale supremazia politica, militare e finanziaria per il momento maschera le magagne di questo paese ma sarebbe il caso che cominciasse a preoccuparsi maggiormente del suo futuro, visto che qualcuno non fa mistero di voler insidiarne la supremazia ed è conscio della possibilità di poterlo fare (La Cina ovviamente).
In questi ultimi 5 anni negli USA sono state attuate politiche di stimolo dell’economia mai immaginate prima. Il debito pubblico è cresciuto di oltre il 50% in questi ultimi anni, con risultati praticamente nulli per la maggioranza della popolazione. In compenso è stata generata una situazione esplosiva, quanto a precarietà della situazione finanziaria del paese e, di conseguenza, per l’intero sistema planetario, visto il ruolo che svolge.
Come si evolverà la situazione?

Difficile fare previsioni per il breve termine. Per il medio lungo invece si può pronosticarne un declino a velocità sempre maggiore. Personalmente non vedo come gli USA possano sganciarsi dalla dipendenza cinese per un parte cospicua dei loro consumi interni se non con un drastico abbassamento del tenore di vita generalizzato a tutti i livelli. Nel futuro non avranno più la possibilità di mantenere la supremazia nei confronti della CINA che, quanto a popolazione li supera di 4 volte circa e che continuerà ad avere tassi di sviluppo dell’economia reale 4-5 volte superiori, maturando nel contempo attivi commerciali e non debiti, come gli americani.
Non si può pensare che l’espansione della finanza possa supplire in eterno al declino dell’economia reale e alla perdita di know-how, fatto di tecnologie e risorse umane qualificate. Quando i prodotti cinesi costeranno il giusto e gli americani dovranno comprarli comunque, perché non sono più in grado di produrli, che ne sarà dei loro consumi, motore della loro economia? Per il momento si va avanti a suon di Q1, Q2, Q3, ….. ben sapendo che così facendo si va verso il suicidio economico.
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GIAPPONE

Che dire di questo paese e dei suoi abitanti.
I giapponesi sono un popolo che ama vivere sobriamente. Appare veramente strano come, tutto sommato, il tenore di vita dei giapponesi non sia per nulla paragonabile a quello americano e neppure a quello europeo, pur essendo sulla carta un paese ricco.
Le loro case sono piccole, modeste. L’orografia del Giappone li costringe a vivere in spazi ristretti qualsiasi sia l’attività che vi si svolge. Hanno raffinato una mirabile attitudine a fare tanto, con efficienza e molto bene in poco spazio. Bisogna riconoscere che in questo i giapponesi sono i maestri, al punto che hanno costretto un po’ tutti a imparare da loro. Le moderne tecniche di organizzazione della produzione e della qualità derivano in buona parte dai loro insegnamenti.
Oggi tutti riconoscono nella qualità del prodotto giapponese un riferimento assoluto. Non vi è prodotto Made in Japan che non sia al massimo livello di qualità in ogni settore, compresi quelli tradizionali o magari considerati maturi.
Detto ciò come si spiega allora che il Giappone da quasi 2 decenni patisce una profonda e strutturale crisi economica?
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Be’. Qui bisogna andare un po’ indietro con gli anni a quando il Giappone era una vera e propria tigre che, attraverso il suo sistema industriale manifatturiero, uccideva le aziende degli altri paesi, in primis quelle dei paesi che avevano aperto i loro mercati al prodotto Made in Japan, cominciando dagli USA, per poi andare negli altri paesi occidentali e poi in tutti gli altri.
Ma perché era così facile allora per le industrie giapponesi penetrare nei mercati ricchi degli altri paesi? Probabilmente molti come risposta hanno che la loro qualità faceva da pass par tout. Costoro non sanno o hanno dimenticato che, prima di arrivare agli odierni primati nella qualità, i giapponesi per molti anni sono stati i cinesi di oggi. Costo dei loro prodotti molto basso e qualità scarsa ma in costante miglioramento.
Per chi non lo sapesse il basso il costo dei prodotti realizzati in un paese è strettamente correlato al tasso di cambio della propria moneta rispetto agli altri. Una variazione di questo rende immediatamente più o meno competitivo il paese in questione. Il Giappone per sviluppare la propria economia ha puntato a suo tempo fortemente sull’export, fino a diventarne fortemente dipendente. Condizione per mantenere questa situazione era di riuscire a tenere molto debole il cambio YEN/USD, azione svolta con tenacia dalla BOJ per tantissimi anni.
Inoltre la dedizione e l’impegno nel lavoro dei giapponesi è sempre stata veramente ammirevole. Ciò, nel progredire del tempo, ha reso il sistema produttivo giapponese in grado di invadere il mondo con prodotti tecnologicamente sempre più avanzati, fino a essere considerato troppo invadente e degno di una drastica punizione, puntualmente arrivata quando gli USA imposero ai giapponesi una violenta rivalutazione dello YEN.
Da allora la situazione economica del Giappone ha cominciato a manifestare le sue crepe.

Le aziende giapponesi che con l’export facevano elevati guadagni si sono viste da subito contrarre gli utili, l’enorme liquidità giacente nelle banche, che aveva alimentato l’immane, per chi se lo ricorda, bolla immobiliare e finanziaria giapponese di allora, venne man mano a ridursi fino a costringere lo stato, attraverso la Bank of Japan a continue iniezioni di liquidità nell’economia attraverso lo stato, che cominciò da allora ad accumulare un debito pubblico in crescita costante fino ai topici livelli attuali.
Nel mentre, le imprese giapponesi, divenute forti, hanno iniziato a creare stabilimenti produttivi in tutto il mondo, essendo questa diventata l’unica via per aumentare la loro penetrazione nei mercati delle aree geografiche economicamente ricche (USA ed Europa).
Questo processo si è però interrotto a causa di un altro paese che li ha scalzati dal ruolo di invasori dei mercati altrui e che lascio ai lettori indovinare chi sia.
Comunque, per il momento, i numeri del Giappone che abbiamo analizzato finora anche per gli altri paesi appaiono buoni. Vediamoli:

Dalla tabella risaltano 2 considerazioni.
Una è l’elevato attivo del saldo delle partite correnti che è un dato strutturale ormai da decenni e che dipende da quanto detto sopra.
La seconda è che il Giappone in definitiva ha bassi valori percentuali di Export e Import. Il basso valore dell’import è sempre stato così. I giapponesi sono fortemente autarchici e patrioti. Fargli comprare un prodotto straniero, che sono in grado di produrre anche loro, è una vera e propria impresa destinata al fallimento. Per quanto riguarda l’export invece, i prodotti Made in Japan 100% e che sono destinati all’export riguardano ormai il settore automobilistico e alcuni prodotti o componenti ad altissima tecnologia, frutto di ricerche e know-how che i giapponesi tentano di mantenere ancora in casa, nonostante l’elevato costo del lavoro interno, divenuto tale per le continue rivalutazioni dello YEN, avvenute fino poco tempo fa.

Rivalutazioni che hanno fatto sì che nel tempo, su ciò che le aziende giapponesi faticosamente esportano, i margini di guadagno sono diventati molto bassi e spesso non ci sono proprio o addirittura sono negativi. Insomma, se una nazione ha una moneta troppo forte va a finire che il suo sistema produttivo va in crisi, anche se realizza prodotti di qualità o tecnologicamente evoluti.
Insomma ancora, anche essere i più bravi di tutti non basta a far fronte a un tasso di cambio troppo sfavorevole.
Il tentativo attuale del governo giapponese, da poco insediato, di uscire da questa situazione di gravissima difficoltà del suo sistema produttivo industriale dipende da questi motivi. Infatti, la svalutazione dello YEN, che il governo giapponese sta tentando di imporre ai mercati, ha come obiettivo di ridare competitività e margini di guadagno alle imprese e conseguentemente riavviare la crescita interna attraverso l’export, da cui il Giappone è da oltre mezzo secolo troppo dipendente.
Obiettivo che però sarà contrastato in tutti i modi dai suoi acerrimi nemici, Cina e Korea in primis, che anche loro intendono continuare a fare altrettanto utilizzando, come hanno sempre fatto, l’arma della moneta debole per garantire lo sviluppo economico dei loro paesi.
Purtroppo gli orientali in genere sono popoli sobri quanto a tenore di vita. Non hanno l’abitudine mentale consumistica all’americana per intenderci ma neppure europea. Nel loro complesso hanno tutti una vocazione innata all’accumulo di denaro da destinare al risparmio, anche perché il loro welfare è ancora ben lontano dal livello a cui ci siamo abituati in occidente. In occidente si pensa che il welfare, ovvero gli altri, devono garantire il benessere di tutti, anche di coloro che nella vita se la prendono comoda e lasciano volentieri che a lavorare sia il prossimo. Nei paesi orientali invece vale di massima la regola che se non lavori non mangi e non trovi facilmente chi provvede a te, se non nell’ambito della tua famiglia o delle tue amicizie dove invece, al contrario che dalle nostre parti, la solidarietà ai massimi livelli è dovere di ognuno.
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KOREA del Sud

La storia recente di questa nazione assomiglia molto a quella vissuta due decenni prima dal Giappone, diventato, oggi un suo acerrimo competitor nel commercio mondiale, soprattutto per il fatto che la forza della sua economia è basata sull’export, come lo fu a suo tempo per il Giappone.
Di sostanzialmente diverso c’è che la Corea ha un sistema finanziario più aperto e collegato a quello occidentale di cui ne subisce le vicende e le malefatte ma non troppo, come vedremo.
Anche i coreani hanno abitudini di vita morigerate e severe. Se sono comandati da un regime forte sopportano tutte le angherie e tirannie immaginabili oggi, come incredibilmente accade nel Nord Korea, abitato dalla stessa gente.
I Coreani inoltre, come molti altri popoli asiatici, sono dei lavoratori infaticabili e ciò, unito alla capacità di mantenere una propria moneta debole, rende questo paese un competitor economico formidabile.
A parte queste considerazioni in questo post interessa fare la solita analisi sommaria basata sui soliti dati economici riferiti alla Corea. In aggiunta per comprendere meglio le cose, sono riportati anche i numeri riguardanti l’andamento del PIL di questo, paese espresso nella valuta locale, il WON Coreano, che alla fine è ciò che interessa il popolo, ovvero la gente comune :

A parte l’anomalo dato sul PIL Koreano del 2008 che, espresso in USD ne subisce numericamente la forte svalutazione del WON intervenuta allora, i dati esposti consentono di fare le seguenti considerazioni:
La Korea è un paese che ha un’economia fortemente dipendente dall’andamento del commercio internazionale e basato su un’economia molto competitiva per tre ragioni. L’operosità del suo popolo, la sua valuta mantenuta debole e in aggiunta un ottimo livello di qualità dei prodotti, raggiunta recentemente.
La Korea ha un saldo delle partite correnti costantemente attivo e rilevante per effetto di quanto sopra detto.
La crescita del PIL coreano, espresso in WON, è stata costante, quasi da fare invidia ai cinesi. Il calcolo lo si può fare facilmente, rapportando il PIL del 2011 con quello del 2004. Il risultato è un +72% che, depurato dall’inflazione del periodo, pari al 33%, dà un incremento netto del PIL pari al 39%.
Tanto per fare un paragone l’Italia, con il suo prezioso EURO in tasca, è cresciuta nello stesso periodo del 33% che, analogamente depurato dall’inflazione del periodo pari al 27%, porta a un misero più 6%.
Per la Germania, nazione dell’unione monetaria più invidiata e baciata dal per lei basso valore dell’EURO, gli stessi conti portano a un più 23%.
Nell’anno della grande crisi 2008 il WON Coreano subì per un breve periodo una forte svalutazione. La Corea è morta per questo, l’inflazione è esplosa, l’economia si è fermata? Nulla di tutto ciò. I Coreani hanno continuato a sviluppare il loro PIL, a lavorare sodo perché l’export è addirittura esploso, la loro industria si è ulteriormente rafforzata nella competizione globale e oggi la Corea è più forte che mai. Di questo ce ne stiamo accorgendo un po’ tutti, visto che molto di coreano ci accompagna in ogni dove.
Che dire. Meglio avere una valuta forte, che non si può neppure gestire, o una valuta debole?
A tutti lascio l’ardua risposta.
Coreani e Cinesi non hanno dubbi.
Quindi, per concludere questa carrellata sui dati, analizziamo la Cina.
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CINA

Parlare della Cina brevemente è fare un gran torto a questo paese.
Cosa è accaduto in Cina a livello di sviluppo economico e modernizzazione del paese ha dell’incredibile. Dall’essere uno dei paesi più arretrati e poveri di 20 anni fa circa, si è passati all’essere un paese dove la modernità, nel bene e nel male, è presente in ampie zone della Cina, il benessere si è diffuso come a noi europei è impossibile immaginare. Però le contraddizioni e le differenze fra le varie aree del paese sono ancora grandissime, come pure le sperequazioni fra le classi sociali. Il livello di benessere varia moltissimo fra regione e regione e così via.
Insomma della Cina si può dire tutto il bene e il male possibile, si possono fare tante critiche ma resta il fatto che questo paese ha avuto e vuole continuare ad avere una crescita come mai è stato sperimentato nella storia. Per fare ciò ha usato l’arma migliore che una nazione possa adottare per ottenere questo risultato:
UN TASSO DI CAMBIO DELLA PROPRIA MONETA IL PIU’ BASSO POSSIBILE.

Politica messa in atto, come già più volte detto da molti altri paesi, per primo dal Giappone nel dopoguerra, proseguito poi dalle altre tigri asiatiche e adottato con la massima efficienza fino ad oggi dalla Cina.
In merito ho scritto molto in miei precedenti post su I&M. Uno, abbastanza profetico, scritto circa 2 anni fa è questo: http://intermarketandmore.finanza.com/ogni-tanto-si-parla-di-cina-anche-alla-radio-27422.html
Un secondo, ugualmente attuale, è il seguente: http://intermarketandmore.finanza.com/il-micidiale-dumping-valutario-della-cina-22217.html
Se poi uno ci prende gusto può leggersi questo: http://intermarketandmore.finanza.c...uicidio-industriale-dell-occidente-21284.html e questo: http://intermarketandmore.finanza.com/cina-vs-occidente-abbraccio-mortale-17907.html
Per chi invece vuole in breve farsi un’idea della Cina con i numeri già analizzati per gli altri paesi eccoli:

L’inflazione del periodo è stata del 30% circa, calcolata con sistemi simili a quelli occidentali, ovvero con paniere di prodotti e incidenza delle varie voci penalizzanti nei confronti dei beni di prima necessità ma sostanzialmente veritiera.
Il valore del PIL medio pro capite appare comunque molto basso ma se lo rapportiamo al loro costo della vita, che mediamente è 3-4 volte inferiore a quello europeo, appare in tutt’altra dimensione. Se poi ancora consideriamo la grande disparità che ancora c’è fra le varie zone della Cina, sviluppate e non, accade che in alcune il tenore di vita sia paragonabile a un paese occidentale benestante.
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Comunque i cinesi in 8 anni hanno:
incrementato il loro PIL in USD, depurato dall’inflazione, del 300%;
Incrementato le loro esportazioni, in gran parte verso i paesi occidentali, del 350% in valore;
Accumulato un saldo delle partite correnti nello stesso periodo di quasi 2.000 Miliardi di USD.
Insomma numeri incredibili che, a quanto pare però non preoccupano abbastanza i paesi occidentali che, beatamente si godono gli ultimi anni di supremazia economica e politica, aumentando i loro debito verso i paesi del Far-East in generale e Cina in particolare.
I cinesi, con la pazienza che li contraddistingue, aspettano che i fatti, ovvero i numeri, dimostrino quale sarà il futuro paese leader del mondo. Nel frattempo fanno la voce grossa o lo gnorri quando si chiede loro di rivedere la politica monetaria del Renmimbi debole, ben sapendo che se ascoltassero questi inviti sarebbe la loro rovina.
La Cina non intende per il momento cambiare radicalmente la propria politica economica se non timidamente, incentivando i consumi interni con moderazione. Lo fa dettando alle imprese la politica salariale che prevede una graduale crescita della paga minima degli operai. Mediamente negli 8 anni trascorsi, presi a riferimento, i salari degli operai sono aumentati di 2,5 volte circa. Ora in molte zone raggiungono i 250-300 circa netti/mese . Importo che è per esempio ben superiore, quanto a potere d’acquisto, rispetto a quello di un analogo salariato di un paese est europeo low-cost. Insomma la CINA, se non vogliamo prendere provvedimenti contro, continuerà a svilupparsi basando la propria competitività sulla moneta debole che, fino ad oggi, per l’occidente ha significato delocalizzazione di imprese, trasferimento di produzioni di ogni genere, con annessa perdita continua di know-how e di ricchezza. Il tempo dirà chi, fra i competitor del mondo, è stato più lungimirante/furbo o dissennato/scemo.
Personalmente non ho dubbi da quale parte stanno Italia e Cina.
Con questa considerazione invito alla lettura del prossimo post (IV^ Parte), dedicato all’ITALIA.
 
Il 12 luglio 2012 un importante dirigente dei Democratici mi scriveva: «sono d’accordo con te e depresso per il conformismo culturale di tanti a noi vicini. Dobbiamo vederci per il piano B», dove “piano B” stava appunto per “uscita da sinistra dall’euro

L’euro è ormai un morto che cammina. Occorre tentare una exit strategy “da sinistra”

link: L
 
Il 12 luglio 2012 un importante dirigente dei Democratici mi scriveva: «sono d’accordo con te e depresso per il conformismo culturale di tanti a noi vicini. Dobbiamo vederci per il piano B», dove “piano B” stava appunto per “uscita da sinistra dall’euro

L’euro è ormai un morto che cammina. Occorre tentare una exit strategy “da sinistra”

link:
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SPECIAL REPORT: Il disastroso successo dell’EURO (Ultima parte)

Scritto il 22 febbraio 2013 alle 14:25 da gaolin@finanza
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Ecco perchè l’Italia è finita in un inferno da cui non potrà più uscire

All’indirizzo EURO I, EURO II, ed EURO III i lettori di I&M potranno leggersi le prime tre parti di questo complesso e lungo post, dedicato all’analisi del “successo” dell’EURO, secondo una visione prettamente imprenditoriale del problema. Già l’EURO è veramente diventato il problema numero UNO dell’Unione Europea.
Se ci si ricorda le aspettative che la nascita della moneta unica aveva suscitato nella pubblica opinione, oggi possiamo dire che per un motivo o per l’altro ogni nazione che vi appartiene ha di che recriminare, magari per motivi contrapposti. Ognuno ha le sue buone ragioni, dipende da che parte si vuole vedere il problema. Quest’ultima IV^ parte del post riguarda l’ITALIA
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L’ITALIA e l’Euro


Ormai sono trascorsi 11 anni da che una parte dei cittadini dell’Unione Europea ha la moneta l’Euro in tasca. Per le aziende l’Euro ha cominciato a funzionare 3 anni prima come unità di conto, con valore del cambio praticamente fisso.
In Italia si visse quel periodo con grande eccitazione e speranza. L’Euro ci venne presentato come il mezzo per darci una regolata come paese che, anche allora come oggi, soffriva per la sua incapacità di seguire politiche di gestione della cosa pubblica così dette virtuose. L’aspetto più attraente della moneta unica per l’Italia era che, facendovi parte, il costo del denaro si sarebbe abbassato ai livelli dei paesi europei virtuosi, Germania in testa. Così in effetti fu e la cosa inizialmente fece un gran bene all’Italia, sia allo stato, sia alle imprese e ai cittadini.
Quest’ultimi si accorsero che andare in giro per il mondo con l’Euro in tasca era ben diverso e meglio che con le precedenti lirette che nessuno accettava.
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A tutti non parve vero di sembrare più ricchi andando all’estero.

Le imprese poterono cominciare a finanziarsi a tassi bassi.

Il costo del debito diventato più sostenibile facilitava gli investimenti nell’immobiliare dei cittadini.
Anche alle imprese italiane l’Euro parve una buona cosa inizialmente.

Il maggior beneficiato però fu lo stato che si trovò in poco tempo a poter emettere nuovi titoli di debito pubblico a tassi molto più bassi. Man mano che questi sostituivano quelli in scadenza il costo del debito pubblico calava e calava, addirittura, anche il suo ammontare complessivo nei primi anni.
Visto che accadeva questo, alla classe politica e agli organi amministrativi dello stato non parve vero di poter riavviare la gestione “allegra” della cosa pubblica, di accaparrarsi risorse, al fine di aumentare la dimensione dell’apparato pubblico, gli stipendi dei suoi dipendenti, gli sprechi e le ruberie di ogni sorta e forma.
Per dirla ancora meglio, invece di approfittare del momento per cominciare a razionalizzare l’amministrazione pubblica e la gestione complessiva dello stato per renderlo più efficiente, la classe politica e quella dirigente statale in quegli anni ingaggiò una sorta di gara per fare l’esatto contrario ogni anno di più.


In questa missione poco nobile è difficile dire chi è stato meno bravo. Tutti, destra e sinistra politica [i soli governi Berlusconi/Lega hanno in pratica raddoppiato il debito lasciato da Craxi], organizzazioni sindacali di ogni categoria, amministrazioni pubbliche locali e centrali si impegnarono al loro meglio per aumentare regalie, sprechi, inefficienze e costi dell’apparato statale/pubblico.
Risultato: il costo dello stato nel suo complesso ha raggiunto in Italia un livello insostenibile al punto da minare la competitività delle imprese del paese che in quegli stessi anni si è trovato pure ad affrontare una competizione economica internazionale sempre più agguerrita.
La mancanza totale di visione globale che caratterizza da sempre la nostra classe politica è stata micidiale in negativo. L’assoluta assenza di percezione del problema della competitività del sistema paese Italia è veramente devastante. Tanto per analizzare il problema con i soliti numeri vediamo come questi sono per l’Italia:

Chi volesse sapere nel rank internazionale del saldo delle partite correnti dove sta l’Italia e avere un bel sussulto, è invitato a dare un’occhiata al sito: Current Account Balance - Country Comparison .
Come appare chiaro dalla tabella, ormai l’Italia ha un deficit delle partire correnti cronico ed elevatissimo. In pratica ogni anno dall’estero devono provenire finanziamenti da varie fonti pari a 70 Miliardi di USD all’anno, ovvero il sistema paese ITALIA si indebita ogni anno di più verso l’estero da vari anni. Questi 70 Miliardi per buona parte non sono altro che la quantificazione in valore di quanto lavoro viene tolto alle imprese italiane per acquistare beni prodotti altrove, Cina e Germania in primis.
Va bene così? Non è possibile fare nulla per invertire questa situazione?
Se poi vogliamo sapere da quando accade questo, ecco un grafico che descrive l’andamento delle partite correnti degli ultimi 20 anni:

Interessante vero? Infatti questo grafico ci dice tante cose.
Per chi se lo ricorda, il 1992 è stato l’ultimo anno in cui l’Italia ha dovuto e potuto svalutare la propria moneta per recuperare la propria competitività perduta per cause sue interne. Erano gli anni in cui si manifestavano gli effetti perversi di tante leggi e accordi passati, che regalavano a varie categorie di popolazione prebende, privilegi, trattamenti economici esagerati e benefici vari a carico delle generazioni presenti e soprattutto future.
Anni in cui la politica ne ha combinate di tutti i colori e di cui ancora oggi ne subiamo le conseguenze. Portate avanti da attori che ancora oggi pretendono di restare nell’agone politico, come se questi disastri li avessero fatti altri. Anzi per addirittura continuare con lo stesso andazzo.


Chi viveva allora nel mondo delle imprese forse si ricorda quale tremenda situazione stavano vivendo le aziende in quei tempi. Esportare era diventato ormai proibitivo, poche avevano margini di guadagno per farlo convenientemente. I costi di produzione in Italia erano lievitati tanto negli anni precedenti, al punto che la competitività del paese era andata persa e quindi l’export calava, mentre era diventato più economico acquistare beni importati. Allora, fortunatamente direi, non c’erano i vincoli della moneta unica e, nonostante le prediche di Ciampi e le paure di tutti coloro che avrebbero perso qualcosa o tanto dalla svalutazione, questa avvenne e fu molto forte. Per quantificare il fenomeno il valore del marco tedesco che a agosto 1992 era di circa 750 lire per 1 marco, schizzò in pochi mesi fino a 1.200, 60% in più. Poi nel tempo si arrivò a un cambio di circa 1.000 lire per un marco, che poi è stato quello prima dell’avvento dell’Euro.
Accadde in Italia la catastrofe?

Niente affatto. Niente perdite di posti di lavoro, niente nuovi poveri, niente imprese che chiudevano, niente banche sull’orlo del fallimento, niente di ciò che sta accadendo oggi.
Addirittura la Banca d’Italia poté tirare un sospiro di sollievo e finire lo svenamento delle riserve valutarie ormai ridotte a zero. Non so di preciso quanto alla Banca d’Italia, ovvero all’Italia, costò il tenace tentativo di mantenere una parità monetaria impossibile ma grosso modo agli italiani costò il 60% del valore che queste avevano prima della crisi valutaria.
Qualcuno è stato accusato, inquisito, mandato in galera per questo crimine finanziario? Neanche per sogno, per questi reati non esiste atto d’accusa e magari uno dei potenziali maggiori imputati diventa Presidente della Repubblica.
Nel mondo, non solo in Italia, va così, purtroppo.
Ma che accadde invece all’economia reale?

Accadde quella che si chiama ripresa economica vera, non sussidiata, non alimentata con il deficit dello stato, che poi dovrà essere pagato dalle future generazioni come accade oggi. Si verificò quello che possiamo definire l’ultima parte del miracolo economico italiano.
Le imprese esportatrici ripresero in breve ad acquisire ordinativi a gogò, a investire tantissimo, ad assumere personale, a guadagnare come da tempo non si ricordava. Il resto dell’Italia trascinato da questa onda anch’esso poté godere di questa situazione. Insomma l’Italia tornò ad essere la tigretta europea. Purtroppo però la lezione non servì a molto. In breve tutti dimenticarono le cause che ci avevano portato al 1992 e si ripresero le politiche dissennate e di corta visone, che sembra si addicano molto alla nostra classe politica.Si riprese a legiferare come prima, ad assegnare benefici insostenibili nel medio lungo termine, nessun articolo del campionario in mano alla classe politica fu trascurato fino a riportare l’Italia allo stato in cui è ora. Infatti l’andamento del grafico non dice altro che questo.
Ora che si fa?

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Il problema è la competitività del sistema paese ITALIA.
Con la sciagurata decisione di entrare in questo Euro, impostato a misura della Germania, non riesco a vedere nessuna possibilità praticabile, se ci vogliamo rimanere dentro.

Intendo dire che politiche e le decisioni, che farebbero riacquistare competitività all’Italia, sarebbero talmente draconiane da risultare improponibili e anche ingiuste, almeno in parte.
Infatti per far riacquistare quel 25-30% di competitività necessario da subito alle imprese italiane, i costi di queste dovrebbero ridursi di altrettanto. Significherebbe costo del lavoro (salari più contributi da abbattere del 30-40%), stipendi della pubblica amministrazione allargata da ridurre mediamente del 30%. Pensioni da falcidiare, specie se sono alte, anche per coloro che ce l’hanno già. Riduzione delle tasse e imposte varie in modo da portarle ai livelli dei paesi che le hanno basse, eccetera. Poi, contemporaneamente, ci sarebbe da intervenire decisamente in tutti quei comparti, burocrazia in particolare, che hanno fatto diventare questo paese un nemico per le imprese e per chi ha voglia di lavorare. L’Italia ridiverrebbe sì competitiva ma a un prezzo e con degli scompensi non ben valutabili a priori.
Tutti le promesse di questa campagna elettorale a cui stiamo in questi giorni assistendo sono una burla. Tutti i provvedimenti preannunciati, suggeriti, proposti, che mirano a togliere a qualcuno qualcosa per darla ad un altro non aumentano la torta presso cui sfamarsi né ad allargare la coperta, semmai spesso il contrario.
Cosa si può invece fare?

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Anche se molti economisti, burocrati di basso e alto bordo, finanzieri e banchieri interessati a far soldi con i soldi ma non con la fatica e a proprio rischio, dicono di no, che sarebbe un disastro, la strada dell’uscita veloce e pilotata dall’Euro è l’unica praticabile, pur con tutti i rischi e perdite che ci saranno per alcuni, tutto sommato pochi ma oggi molto privilegiati dall’essere nell’Euro. Se a questo non si vuole pensare o non lo si vuol fare oggi, lo si dovrà fare in un domani non lontano, in modo catastrofico e con un sistema industriale manifatturiero italiano ormai andato in frantumi. La mia previsione è che ancora 2 anni di Euro e l’industria italiana sarà ridotta ai minimi termini. Se aspettiamo che passino sarà veramente dura per tutti, anche per i tifosi dell’irreversibilità dell’ EURO.
CONCLUSIONE

Lo scopo di questa serie di post era di far comprendere quando decisivo per la competitività di una nazione sia il fattore cambio, l’exchange rate fra le monete. Si può anche essere i più bravi di tutti ma non basta. Giappone docet. Se il cambio è troppo alto le industrie di un paese perdono competitività nel mercato internazionale. Se accade questo possono succedere più cose:
le aziende, se vogliono continuare a vendere, devono ridurre i margini fino al punto da non guadagnare più o addirittura perdere soldi e allora falliscono;
le aziende, se sono finanziariamente molto solide, possono scegliere fra investire ancora di più all’interno della propria impresa, nei fattori produttivi che dipendono da loro oppure, se si ha la voglia e le capacità, de localizzare in paesi dove, per il fattore cambio, i costi sono più bassi;
le aziende, allocate nei paesi dove il cambio è sfavorevole e lavorano prevalentemente per il mercato interno, devono in tempi più o meno veloci sostenere la pressione dei prodotti importati, che costano molto meno e quindi, se possono, fanno come al punto 2, oppure prima o poi chiudono.
L’Italia, a causa della mancanza di visione sul futuro del paese della sua classe dirigente, politica in particolare, ha fatto troppi errori in questi 20 anni che ormai sono irrimediabili. La competitività persa non è più riguadagnabile stando in una camicia di forza qual è l’unione monetaria europea. Come è pensabile riconquistare rispetto l’enorme divario creatosi fra Italia e Germania?

Tutte le buone idee che ci possono essere, in questa situazione sono sostanzialmente delle velleità. Chi, anche in buona fede, pensa che il nostro paese possa uscire dall’inferno in cui già siamo o, se uno preferisce, verso cui velocemente ci stiamo dirigendo, con l’innovazione, la ricerca di nuovi mercati, con la ricerca, ecc. ecc. ecc., può essere solo uno che nella vita mai ha avuto a che fare con le dure leggi della competizione economica. Queste belle cose le può fare e le fa l’impresa che guadagna, il paese che ha una struttura di costi e una situazione finanziaria che può permettersi di destinare grandi risorse a questi scopi. L’Italia purtroppo non è in queste condizioni, anzi l’esatto contrario. L’Italia oggi è un paese ingessato, con una corda al collo che ogni giorno è un po’ più tesa, messo su uno sgabello posto su un terreno cedevole.
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Altro che salvati dal baratro. Sarebbe meglio dire che siamo stati parcheggiati sull’orlo di un precipizio in fondo al quale si sta alacremente lavorando, per farlo più profondo, 24 ore su 24, in attesa di essere buttati dentro.
Pare un’esagerazione ma non è così. Questa è la realtà, purtroppo.
GAOLIN
 
Senti un pò che dice Zingales… L’aspetto criminale dei fondatori dell’Euro è che tutto questo lo sapevano, e non solo non han fatto nulla, ma anzi l’hanno fatto apposta: la crisi dell’Euro di oggi era inevitabile. Dire che è colpa degli Stati Uniti è una balla: è vero che è stata quella la causa scatenante, ma la crisi era inevitabile. Non fosse successo il patatrac negli Usa sarebbe successo altro. Era una scelta premeditata: “Nel momento di crisi, ci uniremo di più“, si pensava. Abbiamo buttato il cuore oltre l’ostacolo, solo che il corpo è rimasto di qua. TAGLi.me

da http://icebergfinanza.finanza.com/2013/03/06/bersani-e-renzi-fate-presto-fermate-angela/
 
Senti un pò che dice Zingales… L’aspetto criminale dei fondatori dell’Euro è che tutto questo lo sapevano, e non solo non han fatto nulla, ma anzi l’hanno fatto apposta: la crisi dell’Euro di oggi era inevitabile. Dire che è colpa degli Stati Uniti è una balla: è vero che è stata quella la causa scatenante, ma la crisi era inevitabile. Non fosse successo il patatrac negli Usa sarebbe successo altro. Era una scelta premeditata: “Nel momento di crisi, ci uniremo di più“, si pensava. Abbiamo buttato il cuore oltre l’ostacolo, solo che il corpo è rimasto di qua. TAGLi.me

da http://icebergfinanza.finanza.com/2013/03/06/bersani-e-renzi-fate-presto-fermate-angela/
L’onda anti Euro pervade l’intera Europa


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6 marzo 2013 |
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Autore Domenico Proietti | Stampa articolo
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Fonte: lospecchiodelpensiero.wordpress.com

Germania
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Guidato dall’economista di Amburgo Bernd Lucke, il partito «Alternativa per la Germania», che ha tra i suoi membri fondatori anche l’ex presidente della Confindustria tedesca Hans Olof Henkel, correrà alle prossime elezioni di settembre con un programma contrario ai salvataggi europei e con un piano B che, in caso di peggioramento della crisi, non esclude la separazione dell’Eurozona in un euro del Nord e un euro del Sud.

Austria
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In vista delle elezioni di settembre, il Partito della libertà di Heinz-Christian Strache (FPO, estrema destra) guadagna più del 20% nei sondaggi, dietro ai due grandi partiti della coalizione di governo, Socialdemocratici e Popolari. Criticati dagli euroscettici per l’accordo sul budget Ue giudicato sfavorevole per l’Austria: “Basta contributi alla Ue, non diamo via il denaro degli austriaci”, è uno degli slogan del FPO.

Francia
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Il Fronte nazionale di Marine Le Pen è arrivato terzo con il 17,9% al primo turno delle presidenziali della scorsa primavera. Il suo programma prevede la possibilità di un’uscita della Francia dall’euro. Sulla sponda opposta, Jean-Luc Mélenchon ha ottenuto l’11% con il suo no all’austerità imposta dalla Ue.

Olanda
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Il partito della libertà guidato da Geert Wilders ha fatto cadere il Governo olandese nell’aprile scorso perché contrario a nuovi sacrifici in nome dell’euro. La sua piattaforma anti-moneta unica non ha però sfondato alle elezioni di settembre: il suo movimento ha ottenuto solo 16 seggi, contro i 24 del 2010.

Grecia
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Alba dorata, il partito di estrema destra guidato da Nikolaos Michaloliakos, ha usato toni molto duri contro gli immigrati, ma anche contro il rigore. Alle elezioni del 2012 ha ottenuto il 7% dei voti. Sul fronte opposto, Syriza è diventato il secondo partito greco: la sua parola d’ordine è il no all’austerity.

Finlandia
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In Finlandia è l’opposizione al salvataggio di Portogallo e Grecia ad aver fatto conoscere i True Finns di Timo Soini, euroscettici al punto da rinunciare a entrare nel governo di coalizione, malgrado il terzo posto raggiunto (19,1%) nelle elezioni dell’aprile 2011.

Gran Bretagna
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Lo Uk Independence Party di Nigel Farage (UKIP) sta guadagnando sempre più consensi nelle elezioni locali (le ultime le suppletive a Eastleigh a fine febbraio) con l’obiettivo di entrare in Parlamento nel 2015: il partito fa leva sulla stanchezza verso l’Unione Europea, e la diffidenza verso gli immigrati in tempi di crisi. Il premier David Cameron, alle prese con una crescente fronda anti-europea all’interno del suo partito, ha annunciato che in caso di vittoria alle prossime elezioni del 2015, organizzerà un referendum sulla permanenza del Regno Unito nella Ue.
Il Sole 24 Ore: notizie di economia, finanza, borsa, fisco, cronaca italiana ed esteri
 
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L’euro? Un fallimento prima ancora di nascere. Prove dal 1971

Pubblicato il 07 03 2013 alle 10:11 da Erika Di Dio
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Riportiamo alcuni passaggi del testo scritto dall’economista post Keynesiano Nicholas Kaldor nel 1971 in “Effetti dinamici del mercato comune”. Importante notare come egli avesse già previsto esattamente le cause della crisi dell’euro, già trent’anni prima della sua creazione.
Un giorno le nazioni d’Europa potranno essere pronte ad unire le loro identità nazionali e creare una nuova Unione europea - gli Stati Uniti d’Europa. Se e quando lo faranno, ci sarà un governo europeo che assumerà tutte le funzioni che il governo federale fornisce ora agli Stati Uniti, o come succede in Canada o in Australia. Ciò comporterà la creazione di una "piena unione economica e monetaria". Ma è un errore pericoloso credere che un’unione monetaria ed economica potrebbe precedere un’unione politica o che potrebbe agire (come si legge nelle parole del rapporto Werner) come "un agente di fermentazione per l’evolversi di un’unione politica, della quale nel lungo termine, non sarà in grado di fare a meno". Poiché se la creazione di un’unione monetaria e il controllo della Comunità rispetto ai bilanci nazionali riusciranno a generare pressioni che porteranno ad un guasto di tutto il sistema, sicuramente lo sviluppo di un’unione politica verrà impedito, certamente non promosso.
Il rapporto tra paesi in surplus e paesi in deficit

Gli eventi degli ultimi anni – in cui era necessaria una rivalutazione del marco tedesco e una svalutazione del franco francese - hanno dimostrato l’incapacità della Comunità con il suo attuale livello di integrazione economica. Il sistema presuppone piena convertibilità della moneta e tassi di cambio fissi tra i paesi membri, pur lasciando la politica monetaria e fiscale alla discrezione dei singoli paesi. Con questo sistema, come gli avvenimenti hanno dimostrato, alcuni paesi tenderanno ad acquisire crescenti (e indesiderati) surplus nei loro rapporti commerciali con gli altri membri, mentre gli altri dovranno affrontare deficit crescenti. Questo avrà due effetti indesiderati. Trasmetterà le pressioni inflazionistiche provenienti da parte di alcuni membri ad altri e farà sì che i paesi con surplus dovranno fornire finanziamenti automatici in scala crescente ai paesi in deficit.
Questo è un altro modo di dire che l’obiettivo di una piena unione monetaria ed economica è irraggiungibile senza un’unione politica, e la seconda presuppone integrazione fiscale, non solo armonizzazione fiscale. Si richiede la creazione di un Governo e di un Parlamento della Comunità, che si assumano la responsabilità almeno della maggior parte della spesa ora finanziata dai governi nazionali e che la finanzino attraverso tasse uniformi in tutta la Comunità. Con un sistema integrato di questo tipo, le zone ricche finanziano automaticamente le zone più povere, e le aree le cui esportazioni sono in calo vengono automaticamente alleggerite pagando in meno, e ottenendo di più dal Fisco centrale. Le tendenze cumulative al progresso e declino sono quindi tenute sotto controllo da uno stabilizzatore fiscale, che permette alle aree in surplus di fornire automaticamente aiuto fiscale a quelle in deficit.
Ciò che il Rapporto non riesce a riconoscere è che l’esistenza stessa di un sistema centrale di tassazione e di spesa è uno strumento per l’erogazione di "aiuti a finalità regionale" molto più potente rispetto a qualsiasi cosa che l’"intervento speciale” per lo sviluppo delle regioni sia in grado di fornire. Dall’altra parte, l’attuale piano della Comunità è come la casa che "divisa contro se stessa non può stare". L’unione monetaria e il controllo comunitario rispetto ai bilanci impedirà ad un paese membro di perseguire autonome politiche di piena occupazione, ma senza il beneficio di un forte governo comunitario capace di proteggere i suoi cittadini dalle peggiori conseguenze.
Causazione circolare e cumulativa

Myrdal (economista e politico svedese, n.d.r.) ha coniato l’espressione "causazione circolare e cumulativa" per spiegare perché il ritmo di sviluppo economico delle diverse aree del mondo non tende ad uno stato di equilibrio uniforme, ma, al contrario, tende a cristallizzarsi in un numero limitato di aree a crescita elevata, il cui successo ha un effetto inibitorio sullo sviluppo degli altri. Questa tendenza non potrebbe funzionare se i cambiamenti dei salari monetari fossero sempre tali da compensare la differenza tra i tassi di incremento della produttività. Questo, tuttavia, non è il caso, per motivi che non sono forse completamente compresi, la dispersione nella crescita dei salari monetari tra le diverse aree industriali tende sempre ad essere notevolmente inferiore rispetto a quella relativa alle variazioni della produttività.
È per questo motivo che all’interno di un’area valutaria comune, o in un sistema di valute convertibili con tassi di cambio fissi, le aree che crescono di più tendono ad acquisire un vantaggio competitivo cumulativo rispetto alle aree relativamente più lente. I “salari efficienti” (salari monetari divisi per produttività) nel corso naturale degli eventi, tenderanno a diminuire nel primo gruppo di paesi rispetto al secondo. E quindi proprio in ragione degli incrementi nei differenziali di produttività, i costi comparati di produzione nelle aree a crescita più rapida tendono a diminuire nel tempo rispetto a quelli a crescita lenta e quindi migliorare il proprio vantaggio competitivo sui secondi.
Traduzione italiana a cura di Erika Di Dio. Fonte: Concerted Action
 

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