Sharnin 2
Forumer storico
Europa e USA su due strade diverse
Alfonso Tuor
Gli ultimi dati economici non permettono di nutrire alcun dubbio: la recessione è globale e si preannuncia ben più severa delle più pessimistiche previsioni. I morsi non si avvertono solo nei paesi di vecchia industrializzazione (Stati Uniti, Canada, Europa e Giappone), ma anche nei paesi emergenti, dalla Cina alla Russia, dai paesi dell’Est europeo all’India. Sorprendono soprattutto la rapidità e l’entità della contrazione delle economie. Lo scoppio dell’enorme bolla del credito iniziata con la crisi dei mutui ipotecari subprime ha fatto crollare il castello di carta e di carte creato dalla nuova ingegneria finanziaria, ha messo in ginocchio il sistema bancario e ora sta producendo una pesante recessione, che potrebbe sfociare in una depressione. Questo processo è stato finora solo rallentato dai numerosi interventi degli Stati e delle banche centrali. La frenesia delle iniziative statali e i suoi scarsi risultati non solo hanno confermato che le condizioni di salute dell’economia mondiale sono gravi, ma hanno anche messo in luce che il paziente non risponde alle terapie finora dispensategli. Ma c’è di più: le difficoltà di accesso al credito delle imprese e l’aumento del suo costo accelerano i tempi della contrazione dell’economia che a sua volta aggrava la crisi finanziaria. Si rischia di entrare in una spirale da cui è difficile, se non impossibile, uscire. Oggi le imprese, che devono spesso fare i conti con una forte diminuzione delle vendite dei loro prodotti, non riescono a rifinanziarsi o, se sono grandi società, devono pagare tassi talmente alti da mettere in forse la loro redditività. Ad esempio, per raccogliere 1 miliardo di euro per tre anni la tedesca Daimler lunedì scorso ha dovuto accettare di offrire rendimenti superiori al 9%, ossia circa 20 volte quelli che pagava nel 2005. Quindi, oggi le imprese non devono solo fare i conti con forti riduzioni delle vendite, ma anche con un marcato aumento del costo del denaro, nonostante le banche centrali abbiano ridotto i tassi di interesse. La Daimler è da considerare fortunata, poiché vi sono società cui è completamente precluso l’accesso al credito. In ogni caso la combinazione di crollo delle vendite, come avviene nel settore automobilistico, e di forte aumento del costo del denaro è la miscela che conduce rapidamente al disastro qualsiasi impresa, anche quelle sane. Di fronte a questa realtà gli Stati Uniti hanno chiaramente rotto gli indugi ed hanno cominciato a stampare moneta, di fatto trasformando la banca centrale in un istituto onnipresente attivo nel finanziamento delle banche, nel sostegno dei fondi monetari, nell’acquisto dei titoli a breve con cui si finanziano le imprese (commercial paper) e dalla settimana scorsa anche delle obbligazioni in cui sono impacchettati mutui ipotecari, crediti al consumo e prestiti agli studenti. Il prossimo passo è scontato: la Federal Reserve acquisterà anche i titoli con cui lo Stato americano finanzia il proprio debito, se questi non verranno sottoscritti dal mercato. In pratica, la banca centrale americana si sta sostituendo alle banche commerciali e sta cercando di tappare le falle che continuano ad aprirsi nel mercato monetario e in quello dei capitali. Inoltre, come noto, il Congresso americano all’inizio dell’anno prossimo approverà un piano di rilancio dell’economia, preparato dal presidente eletto Obama. I ritmi molto rapidi della crisi fanno temere che questo pacchetto di oltre 500 miliardi di dollari arrivi troppo tardi e non riesca ad evitare l’avvitamento dell’economia. Ma c’è di più. Gli Stati Uniti stanno giocando con il fuoco: l’esplosione del debito pubblico e il ricorso alla stampa di quantità crescenti di moneta potrebbero incrinare la disponibilità dei Paesi asiatici ed arabi a sottoscrivere i titoli statali americani e, quindi, provocare una vera e propria crisi del dollaro, facendo precipitare il Paese nell’iperinflazione. Questo scenario, che a molti può apparire fantasioso, è addirittura invocato da alcuni esponenti del mondo finanziario e da alcuni giornali che ne sono di fatto i portavoce, come il settimanale britannico «The Economist» che nell’editoriale dello scorso 29 novembre scriveva: «L’opzione da tentare in extremis è rilanciare l’economia stampando moneta per finanziare il deficit pubblico. Questa scelta comporta il rischio dell’inflazione, che è un veleno economico, ma in Paesi altamente indebitati (come gli Stati Uniti) l’inflazione è meno micidiale della deflazione». Un grande incendio inflazionistico sarebbe considerato una manna dal mondo finanziario sempre più in difficoltà nel nascondere le voragini esistenti nei bilanci delle grandi banche, il fallimento della stragrande maggioranza degli Hedge Funds e dei fondi di Private Equity e nel rinviare la definitiva esplosione del mercato dei prodotti strutturati. Questo incendio inflazionistico permetterebbe inoltre all’oligarchia di Wall Street di non dovere rispondere delle proprie responsabilità e di continuare a conservare il potere. L’iperinflazione sarebbe però una manifestazione della depressione e non aiuterebbe affatto ad uscire dalla crisi, come dimostra l’esperienza tedesca della Repubblica di Weimar. L’Europa, grazie alla Germania e anche alla Banca centrale europea, sembra per il momento intenzionata ad imboccare una strada diversa, che può essere riassunta nella battuta: non usiamo ora tutte le cartucce. È quanto il cancelliere tedesco, Angela Merkel, continua a ripetere (e comincia a raccogliere consensi). I tedeschi sanno che i debiti pubblici degli Stati europei, già alti, aumenteranno fortemente a causa della riduzione delle entrate fiscali e dell’aumento delle spese sociali. In queste condizioni grandi pacchetti di rilancio dell’economia pregiudicherebbero la credibilità dei titoli del debito pubblico dei Paesi europei. L’eventuale sfiducia nei titoli di Stato tedeschi, nei Bot e CCT italiani farebbe saltare l’euro e renderebbe ingovernabile la crisi. Il governo tedesco dubita delle possibilità di successo di queste misure di rilancio e non vuole sprecare risorse finanziarie che saranno presto preziose per salvare la struttura industriale del Paese. La posizione tedesca rischia di rivelarsi meno sbagliata di quanto la vogliano far apparire il mondo della finanza e i suoi organi di stampa, che criticano duramente il governo tedesco. Nessuno, né negli Stati Uniti né in Europa, sa come uscire da questa crisi. Si sa solo quali potrebbero essere gli effetti immediati di alcune misure. Alcuni ritengono che la crisi debba seguire il suo corso e che da essa si uscirà solo grazie a grandi innovazioni tecnologiche e a radicali cambiamenti strutturali che investiranno la vita di tutti. Ma una domanda diventa sempre più impellente: è giusto continuare a prestare ascolto agli esponenti del mondo bancario che ci vogliono convincere che per salvare l’economia bisogna prima salvare il sistema finanziario, ossia i responsabili della crisi? La legittimità economica di questa asserzione non viene di fatto incrinata dalla stretta creditizia attuata dalle banche.
03.12.08 07:04:12
Alfonso Tuor
Gli ultimi dati economici non permettono di nutrire alcun dubbio: la recessione è globale e si preannuncia ben più severa delle più pessimistiche previsioni. I morsi non si avvertono solo nei paesi di vecchia industrializzazione (Stati Uniti, Canada, Europa e Giappone), ma anche nei paesi emergenti, dalla Cina alla Russia, dai paesi dell’Est europeo all’India. Sorprendono soprattutto la rapidità e l’entità della contrazione delle economie. Lo scoppio dell’enorme bolla del credito iniziata con la crisi dei mutui ipotecari subprime ha fatto crollare il castello di carta e di carte creato dalla nuova ingegneria finanziaria, ha messo in ginocchio il sistema bancario e ora sta producendo una pesante recessione, che potrebbe sfociare in una depressione. Questo processo è stato finora solo rallentato dai numerosi interventi degli Stati e delle banche centrali. La frenesia delle iniziative statali e i suoi scarsi risultati non solo hanno confermato che le condizioni di salute dell’economia mondiale sono gravi, ma hanno anche messo in luce che il paziente non risponde alle terapie finora dispensategli. Ma c’è di più: le difficoltà di accesso al credito delle imprese e l’aumento del suo costo accelerano i tempi della contrazione dell’economia che a sua volta aggrava la crisi finanziaria. Si rischia di entrare in una spirale da cui è difficile, se non impossibile, uscire. Oggi le imprese, che devono spesso fare i conti con una forte diminuzione delle vendite dei loro prodotti, non riescono a rifinanziarsi o, se sono grandi società, devono pagare tassi talmente alti da mettere in forse la loro redditività. Ad esempio, per raccogliere 1 miliardo di euro per tre anni la tedesca Daimler lunedì scorso ha dovuto accettare di offrire rendimenti superiori al 9%, ossia circa 20 volte quelli che pagava nel 2005. Quindi, oggi le imprese non devono solo fare i conti con forti riduzioni delle vendite, ma anche con un marcato aumento del costo del denaro, nonostante le banche centrali abbiano ridotto i tassi di interesse. La Daimler è da considerare fortunata, poiché vi sono società cui è completamente precluso l’accesso al credito. In ogni caso la combinazione di crollo delle vendite, come avviene nel settore automobilistico, e di forte aumento del costo del denaro è la miscela che conduce rapidamente al disastro qualsiasi impresa, anche quelle sane. Di fronte a questa realtà gli Stati Uniti hanno chiaramente rotto gli indugi ed hanno cominciato a stampare moneta, di fatto trasformando la banca centrale in un istituto onnipresente attivo nel finanziamento delle banche, nel sostegno dei fondi monetari, nell’acquisto dei titoli a breve con cui si finanziano le imprese (commercial paper) e dalla settimana scorsa anche delle obbligazioni in cui sono impacchettati mutui ipotecari, crediti al consumo e prestiti agli studenti. Il prossimo passo è scontato: la Federal Reserve acquisterà anche i titoli con cui lo Stato americano finanzia il proprio debito, se questi non verranno sottoscritti dal mercato. In pratica, la banca centrale americana si sta sostituendo alle banche commerciali e sta cercando di tappare le falle che continuano ad aprirsi nel mercato monetario e in quello dei capitali. Inoltre, come noto, il Congresso americano all’inizio dell’anno prossimo approverà un piano di rilancio dell’economia, preparato dal presidente eletto Obama. I ritmi molto rapidi della crisi fanno temere che questo pacchetto di oltre 500 miliardi di dollari arrivi troppo tardi e non riesca ad evitare l’avvitamento dell’economia. Ma c’è di più. Gli Stati Uniti stanno giocando con il fuoco: l’esplosione del debito pubblico e il ricorso alla stampa di quantità crescenti di moneta potrebbero incrinare la disponibilità dei Paesi asiatici ed arabi a sottoscrivere i titoli statali americani e, quindi, provocare una vera e propria crisi del dollaro, facendo precipitare il Paese nell’iperinflazione. Questo scenario, che a molti può apparire fantasioso, è addirittura invocato da alcuni esponenti del mondo finanziario e da alcuni giornali che ne sono di fatto i portavoce, come il settimanale britannico «The Economist» che nell’editoriale dello scorso 29 novembre scriveva: «L’opzione da tentare in extremis è rilanciare l’economia stampando moneta per finanziare il deficit pubblico. Questa scelta comporta il rischio dell’inflazione, che è un veleno economico, ma in Paesi altamente indebitati (come gli Stati Uniti) l’inflazione è meno micidiale della deflazione». Un grande incendio inflazionistico sarebbe considerato una manna dal mondo finanziario sempre più in difficoltà nel nascondere le voragini esistenti nei bilanci delle grandi banche, il fallimento della stragrande maggioranza degli Hedge Funds e dei fondi di Private Equity e nel rinviare la definitiva esplosione del mercato dei prodotti strutturati. Questo incendio inflazionistico permetterebbe inoltre all’oligarchia di Wall Street di non dovere rispondere delle proprie responsabilità e di continuare a conservare il potere. L’iperinflazione sarebbe però una manifestazione della depressione e non aiuterebbe affatto ad uscire dalla crisi, come dimostra l’esperienza tedesca della Repubblica di Weimar. L’Europa, grazie alla Germania e anche alla Banca centrale europea, sembra per il momento intenzionata ad imboccare una strada diversa, che può essere riassunta nella battuta: non usiamo ora tutte le cartucce. È quanto il cancelliere tedesco, Angela Merkel, continua a ripetere (e comincia a raccogliere consensi). I tedeschi sanno che i debiti pubblici degli Stati europei, già alti, aumenteranno fortemente a causa della riduzione delle entrate fiscali e dell’aumento delle spese sociali. In queste condizioni grandi pacchetti di rilancio dell’economia pregiudicherebbero la credibilità dei titoli del debito pubblico dei Paesi europei. L’eventuale sfiducia nei titoli di Stato tedeschi, nei Bot e CCT italiani farebbe saltare l’euro e renderebbe ingovernabile la crisi. Il governo tedesco dubita delle possibilità di successo di queste misure di rilancio e non vuole sprecare risorse finanziarie che saranno presto preziose per salvare la struttura industriale del Paese. La posizione tedesca rischia di rivelarsi meno sbagliata di quanto la vogliano far apparire il mondo della finanza e i suoi organi di stampa, che criticano duramente il governo tedesco. Nessuno, né negli Stati Uniti né in Europa, sa come uscire da questa crisi. Si sa solo quali potrebbero essere gli effetti immediati di alcune misure. Alcuni ritengono che la crisi debba seguire il suo corso e che da essa si uscirà solo grazie a grandi innovazioni tecnologiche e a radicali cambiamenti strutturali che investiranno la vita di tutti. Ma una domanda diventa sempre più impellente: è giusto continuare a prestare ascolto agli esponenti del mondo bancario che ci vogliono convincere che per salvare l’economia bisogna prima salvare il sistema finanziario, ossia i responsabili della crisi? La legittimità economica di questa asserzione non viene di fatto incrinata dalla stretta creditizia attuata dalle banche.
03.12.08 07:04:12