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La Fed versa altri 142 miliardi di liquidità nel sistema. Si infittiscono le voci su una banca o un fondo in difficoltà
I trader del New York Stock Exchange ascoltano la conferenza stampa del presidente della Fed Jerome Powell nella quale annuncia le decisioni sui tassi di interesse (Foto di Spencer Platt/Getty Images)
C’è un elefante nella stanza? E’ questa la domanda che ormai, sottovoce e senza dare troppo nell’occhio quando la si pone, circola insistentemente negli ambienti finanziari. La settimana in corso, infatti, era vista da molti analisti come il primo, vero banco di prova, dopo l’emergenzialità dei picchi sui tassi repo overnight che aveva accompagnato il board della Fed del 17 e 18 settembre scorsi e aveva obbligato quest’ultima a dare vita, dopo 10 anni di digiuno, ad aste a brevissimo termine (1 giorno) per fornire liquidità al sistema. Tanta liquidità, 75 miliardi al giorno. Andati in sovra-sottoscrizione per tre giorni su quattro. All’epoca si parlò di tensioni legate alle decisioni della Federal Reserve su tassi e possibile nuovo Qe che erano andate a combinarsi con quelle tipiche di metà settembre, periodo dell’anno che negli Usa coincide con un ingorgo di obbligazioni che vanno a maturazione e scadenze sulla corporate tax. Insomma, emorragia di liquidità e incertezza sul futuro. Qualche dubbio in più sorse quando la Fed, dopo aver trasformato un’asta repo da
unicum in appuntamento fisso per tutta la settimana, concluse il ciclo di operazioni annunciando il loro prolungamento fino al 10 ottobre prossimo, comprendendo per la settimana in corso anche tre aste repo a termine, ovvero finanziamento a 14 giorni e non 1 giorno soltanto, come sintetizza la tabella qui sotto:
Fonte: Federal Reserve of New York
E come è andata? La prima asta repo del 23 settembre ha visto le richieste fermarsi a “soli” 65,7 miliardi di dollari su un massimale di 75 miliardi, un dato che poteva essere letto attraverso la famosa metafora del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto. Da un lato, non c’era più sovra-sottoscrizione, quindi richiesta di liquidità inevasa, sintomo che la buriana si stava calmando, come testimoniato anche dai tassi overnight dell’interbancario, rientrati più o meno nei parametri di oscillazione prefissati dalla Fed. Dall’altro lato, però, molti analisti si aspettavano una domanda molto più bassa, quantomeno facendo affidamento all’aspetto psicologico legato alla garanzia di liquidità fino al 10 ottobre: come dire, se sei il primo della fila già all’inizio della settimana non offri un bel segnale riguardo il tuo stato di salute.
Leggi anche: “Crisi di liquidità, la Fed interviene ancora: iniezioni da 90 miliardi a settimana fino al 10 ottobre. Cosa c’è sotto?“
Ieri, doppio appuntamento: asta repo ed esordio per la term repo a 14 giorni. La prima è tornata in eccesso di domanda, visto che a fronte dei soliti 75 miliardi a disposizione, la richiesta è stata per 80,2 miliardi. La seconda, addirittura, ha visto la ratio raddoppiare, visto che l’ammontare di almeno 30 miliardi è stato polverizzato da richieste per 62 miliardi. Quindi, volendo prendere la questione in prospettiva, la prima giornata di doppia asta ha registrato necessità di finanziamento per 142 miliardi di dollari, il massimo dalla ripresa delle operazioni. Anche in questo caso, la corrente di pensiero meno allarmista fa notare come l’approssimarsi delle scadenze di fine trimestre, soprattutto quello a cavallo fra terzo e quarto dell’anno, porta sempre con sé necessità di liquidi in più per il sistema, quindi quell’asta a 14 giorni con domanda doppia dell’offerta base potrebbe non nascondere nulla di terribile. L’altra faccia della medaglia, però, parla chiaro: come mai negli ultimi nove anni, la Fed non era mai dovuta intervenire e con questa magnitudo, al netto di scadenze e incombenze del terzo trimestre sempre e comunque presenti? Questo grafico:
Fonte: Zerohedge/Fed
mette la situazione in prospettiva: dopo 10 anni di assenza di aste repo e un anno e mezzo di dimagrimento dello stato patrimoniale attraverso le
redemptions di Treasuries e Mbs acquistati in seno ai cicli di Qe, la Fed è stata costretta a intervenire direttamente sul mercato. Ed emergenzialmente. Perché? Una risposta che è suonata ai più come un ulteriore infittirsi del giallo,
ha provato a darla al Financial Times lo stesso John Williams, capo della Fed di New York che sta gestendo le aste: “Stiamo cercando di capire perché la liquidità non si muova dai conti delle banche presso la Fed per fluire nel mercato repo, dove istituti e investitori prendono a prestito denaro in cambio di Treasuries per coprire le necessità di finanziamento a breve. C’è uno spezzettamento nel sistema”. Per Lorie Logan, vice-presidente del markets group, “le riserve in eccesso relative al livello minimo che le banche sono chiamate a detenere sono concentrate. E la domanda chiave da porsi è come quelle riserve, visto che il loro livello sta calando, potrebbero essere redistribuite e quanto non invasivo quel processo di redistribuzione possa essere”.
Tutto molto tecnico ed estremamente autorevole, quasi accademico. Ma la domanda, alla fine, è sempre la stessa: al netto di riserve ufficiali a quota 1,3 trilioni di dollari, cosa spinge alcune banche a non prestare soldi a loro colleghi in apparente, disperata necessità di liquidi? Talmente disperata da richiedere, per bloccare terremoti overnight che portino i tassi all’8%, il ritorno in campo diretto della Fed dopo dieci anni. Ed ecco che ritorna la questione iniziale: c’è un elefante nella stanza, talmente grande da non poter cadere senza portare con sé tutto l’arredamento e magari anche i muri ma a cui, viste anche le dimensioni/esposizione, le altre banche non si vogliono nemmeno avvicinare, facendo capire alla Federal Reserve che doveva rompere gli indugi? E non per un giorno, come sembrava. O due, tre. O quattro, tanto per finire la settimana. Ma fino al 10 ottobre con le aste repo, cui affiancare – per ora – anche 3 aste a termine. E la questione fa paura anche soltanto per un particolare: la liquidità repo che la Fed metterà a disposizione quotidianamente ancora per due settimane rappresenta denaro che viene prestato a 1 giorno, quindi il congelamento dell’interbancario significa che c’è sfiducia totale anche nella capacità di ripagare denaro il giorno successivo che lo si era ottenuto. Si teme, forse, che qualcuno possa andare a zampe all’aria nottetempo, insomma. E questo grafico:
Fonte: Bloomberg
mostra un particolare: ovvero, tra il serio e il faceto, qualcuno comincia a porre il dito inquisitore verso le componenti gialle della tabella relativa alle riserve depositate presso la Fed. Ovvero, le banche estere attraverso le loro filiali Oltreoceano. Le quali non solo ottengono un discreto 1,80% annuale di interesse sui depositi ma, soprattutto, hanno attualmente 521 miliardi di cash parcheggiati presso la Banca centrale Usa. Solo speculazione? Volontà di allontanare i sospetti dalle banche Usa? Chissà, il mistero pare l’unica certezza. Resta il fatto che i traders di più lungo corso cominciano ad aggrottare le ciglia, poiché con il passare dei giorni e la continua partecipazione massiccia alle aste, il ricordo che emerge è quello dell’uso massiccio per finanziarsi della cosiddetta
discount window nei giorni precedenti al crollo di Lehman Brothers. Oltretutto, oggi, in tempi di riserve totali del sistema a 1,3 trilioni di dollari. Chi era o è tutt’ora così disperato da obbligare il sistema a chiamare la Fed all’intervento prima emergenziale e poi, di fatto, semi-strutturale per evitare un crisi di liquidità in piena regola?
E la domanda sul tempo verbale da utilizzare riguardo la natura e lo stato di salute del vero o presunto elefante nella stanza non appare questione di poco conto, almeno stando
all’ultimo report di Goldman Sachs, il quale mette tutti in guardia da un impazzimento dei mercati a inzio ottobre. L’analisi della banca d’affari fa riferimento, principalmente, a un trend storico che appare valido dal 1928 e che vede la volatilità azionaria in questo mese dell’anno essere del 25% superiore alla media. Di più, negli ultimi 30 anni questo mese è stato quello che ha registrato gli scostamenti più violenti sui maggiori benchmark e settori, soprattutto tech e farmaceutici. Anche in questo caso, si fa diretto riferimento alle pressioni tipiche delle scadenze fisse di inizio autunno, sia finanziarie che fiscali. Ma in molti pensano che attraverso questo stratagemma, Goldman Sachs abbia voluto mettere le mani avanti e dar vita a una sorta di messa in guardia “sotto copertura” rispetto all’iceberg che potrebbe essere in movimento sotto il pelo dell’acqua del mercato. Se l’elefante sarà sì stabilizzato ma non fuori pericolo, i primi giorni di ottobre saranno infatti quelli che vedranno tutti i partecipanti al casinò interbancario cominciare a prezzare in anticipo l’arrivo del 10 del mese, ovvero la fine delle aste repo della Fed. E, quindi, del suo supporto diretto al finanziamento.
Sarà questo il detonatore dell’eventuale caos di mercato di inizio ottobre, al netto dei trend storici? Una cosa è certa: dopo appunto Goldman Sachs, Nomura e JP Morgan,
ora anche Bank of America ha rotto gli indugi: a novembre la Fed partirà con qualche forma di Qe4 strutturale. E dello stesso avviso è anche Simon Potter. Chi è? L’ex capo del markets desk della Fed di New York, licenziato lo scorso maggio dallo stesso John Williams che oggi farfuglia risposte al
Financial Times. Senza preavviso, né apparente motivo. Almeno ufficiali. Le coincidenze e le incongruenze cominciano a essere un po’ troppe.