L'INTERVISTA ■ FRANCO CAVALLI
Cancro, vinceremo la sfida: o forse no
L'oncologia tra successi scientifici ed esplosione dei tumori nel Terzo mondo
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Dott. Franco Cavalli, in medicina le co­se oggi cambiano a un ritmo rapidissimo, e la popolazione è subissata di informa­zioni: ha ancora senso scrivere un libro sul cancro, come ha fatto lei con La gran­de sfida ?
«È quel che mi sono chiesto io, per primo, quando mi è giunta - dall'editore Favre di Losanna - la proposta di fermare su carta le conoscenze che ho accumulato, duran­te la mia esperienza di oncologo. È vero che, rispetto a 40 anni fa, dei tumori si par­la molto, e molti tabù sono scomparsi: ep­pure, mi accorgo quotidianamente che molti, anche se colti e preparati, si dimo­strano confusi su questo argomento. Ecco perché, alla fine, ho deciso di dare un con­tributo: per provare a chiarire le idee».
Quale approccio ha scelto?
«Ho cercato di seguire il canovaccio che adotto nelle mie conferenze pubbliche, ri­spondendo alle domande più frequenti: cosa è il cancro, come è stato affrontato nella storia della medicina, quali sono gli ultimi sviluppi della ricerca, senza dimen­ticare uno sguardo alla situazione globa­le, alle questioni etiche e alle frequenti con­troversie sulle terapie “alternative”».
In uno dei passi più sorprendenti, e im­portanti, lei spiega che «Il cancro non è il cancro». In che senso?
«Siamo abituati a parlare di questa malat­tia come di un'entità unica, quando inve­ce - sotto questa definizione - è raggrup­pata un'infinità di patologie, spesso mol­to diverse tra loro. Si tratta di un tema da tenere ben presente, soprattutto quando i media - spesso amanti delle semplifica­zioni eccessive - ci dicono che siamo vici­ni a una soluzione. In realtà, non possia­mo aspettarci nulla di simile dal futuro, perché quel che dobbiamo cercare sono piuttosto molte soluzioni specifiche».
Questa consapevolezza può aiutare an­che chi si trova confrontato a una diagno­si di tumore?
«In molti casi, i pazienti sono spaventati perché - pensando al cancro come a un'en­tità unica - tendono a fare paragoni con al­tri casi, caratterizzati però da patologie completamente diverse. Il tumore al seno, ad esempio, oggi non è più un flagello co­me in passato, e presenta tassi di mortali­tà nettamente minori rispetto ad altre ma­lattie, meno “mediatizzate” e generalmen­te considerate più benigne».
Resta il fatto che, come lei spiega, il can­cro sta diventando la prima causa di mor­te nei Paesi sviluppati. Questa ascesa a cosa è dovuta?
«Le cause sono almeno due. Anzitutto, i “grandi killer” del passato - in particolare le infezioni, ma anche le malattie cardio­vascolari - sono oggi trattati molto più ef­ficacemente dalla medicina. In secondo luogo, sebbene le patologie tumorali si pre­sentino a ogni età, la loro frequenza è stret­tamente legata all'anzianità: ed è innega­bile che oggi, in Occidente, si viva netta­mente più a lungo che in passato».
Questa tendenza all'aumento è uguale per tutte le forme di cancro?
«Niente affatto. Ci sono alcune forme tu­morali in netto aumento, ma altre che so­no addirittura scomparse. È il caso delle malattie della pelle che colpivano gli spaz­zacamini, o del cancro allo stomaco, mol­to ridotto da quando la conservazione de­gli alimenti, grazie al frigorifero, è diven­tata più efficace».
Si tratta di tendenze legate ai fattori am­bientali?
«Non siamo in grado di fornire risposte de­finitive, su questo punto. Solo in pochi ca­si - come quello del fumo - è possibile sta­bilire una correlazione diretta tra compor­tamento individuale e insorgere della ma­lattia. In generale, potremmo spingerci a dire che - con un comportamento perfet­to, ossia evitando ogni inquinamento, mangiando bene ed evitando ogni com­portamento a rischio - sarebbe possibile evitare al massimo il 50% dei tumori».
E l'altra metà?
«È legata a diverse altre cause: ai geni, a certi virus non evitabili, a elementi anco­ra sconosciuti e - naturalmente - anche al caso. Non c'è modo quindi di essere del tutto al riparo da un evento del genere, tan­to più che all'origine della malattia c'è sem­pre un'interazione complessa di numero­si fattori. Il cancro ha infatti origine dal mal­funzionamento di una sola cellula, che rie­sce a sfuggire ai meccanismi di controllo del nostro corpo e dà origine a una proli­ferazione nefasta. E ciò può avvenire an­che per caso, per quanto ciò sia difficile da accettare, soprattutto per il paziente».
Questa risposta introduce il tema del rap­porto tra oncologo e ammalato.
«La nostra specialità implica un contatto prolungato e intenso con i pazienti, che a volte si protrae per anni, e implica la con­divisione di dubbi e paure esistenziali. Quel che cerco di insegnare, ai giovani medici, è che un approccio scientista “duro” non è possibile nella realtà quotidiana del no­stro mestiere; bisogna avere il coraggio di farsi carico - nel limite del possibile - dei problemi della persona che abbiamo da­vanti».
Si tratta quindi di combinare il rigore scientifico con l'empatia.
«A livello filosofico, l'oncologo è legato al da­to sperimentale come pochi altri medici. Nella pratica di tutti i giorni, invece, ha qua­le obiettivo il benessere del paziente, e que­sto lo obbliga a non perdere di vista la di­mensione umana. Questo significa anche accettare - quando in gioco non c'è più una guarigione, ma solo la qualità della vita - che il paziente possa anche far ricorso a tera­pie alternative, almeno a certune. Se voglia­mo tracciare un parallelo, questo tipo di me­diazione è la stessa che serve in politica».
A proposito di politica, lei ha argomen­tato - in contrasto con altri esponenti del­la ricerca di punta - a favore della possi­bilità, per il popolo, di esprimersi in vo­tazione anche su temi scientifici.
«Non si tratta di fare in modo che la mag­gioranza determini il contenuto degli espe­rimenti scientifici: questo è di esclusiva competenza degli specialisti, e ogni inge­renza sarebbe un'aberrazione. Tuttavia, la ricerca non avviene in una torre d'avorio: ha un preciso quadro di riferimento socia­le, etico e anche finanziario. La politica è chiamata a sostenere e finanziare la scien­za, perciò è giusto che i cittadini indichi­no la direzione di fondo che desiderano sia intrapresa. Voler agire diversamente, per il nostro settore, comporterebbe il ri­schio di perdere il consenso e il sostegno della popolazione».
Ha già provato la sensazione che la scien­za possa spingersi troppo in avanti?
«Sono convinto che sia impossibile met­tere dei limiti a quel che possiamo cono­scere. Da quando è apparso sul Pianeta, l'uomo ha mostrato una inestinguibile se­te di sapere: noi siamo fatti per porci delle domande. Quel che serve, piuttosto, sono limiti all'uso delle cose che impariamo. Mi pongo il problema, in particolare, per quanto riguarda la ricerca genetica: sono contrario a che questa branca della scien­za porti a dei “brevetti sulla vita”, che ne consentano lo sfruttamento economico. Purtroppo, come nel caso degli Organismi geneticamente modificati, una perversio­ne del genere è già in atto: e le ripercussio­ni economiche di questo fenomeno - ad esempio sugli agricoltori del Terzo mon­do - mi preoccupano molto più che non gli ipotetici rischi per la salute legati al con­sumo di OGM».
E allora, cosa dovremo fare?
«Bisognerà che siano stabiliti dei chiari confini, a livello di società. Ecco perché è un peccato, e un pericolo, che nel no­stro Parlamento federale - ne parlo per conoscenza diretta - ci siano pochissi­me persone ferrate in ambito scientifi­co. I miei colleghi ricercatori dovrebbe­ro tornare a “sporcarsi le mani”, e con­tribuire al dibattito, anziché snobbare la politica».
A proposito di dibattito politico, un tema spesso evocato è quello dell'eutanasia.
«Le polemiche attorno a questo argomen­to sono esemplari. A dettare i termini del­la discussione sono i pregiudizi, perché po­chi - quasi nessuno - sono al corrente di quanto accade ogni giorno negli ospedali. La mancanza di chiarezza della nostra leg­ge, oggi, produce situazioni - come quelle legate alla sedazione terminale dei pazien­ti, quando la dose di narcotico viene gra­dualmente aumentata, fino all'arresto del­le funzioni respiratorie - dove in certi casi, in assenza di un chiaro consenso del pa­ziente, potrebbe configurarsi a norma di Codice perlomeno il reato di omicidio col­poso. Purtroppo, per il momento abbiamo scelto di mettere la testa sotto la sabbia, per non affrontare seriamente il problema».
Il che, produce situazioni controverse co­me quelle delle organizzazioni per l'aiu­to al suicidio.
«Si tratta di fenomeni collaterali, che scom­parirebbero da sé non appena disciplinas­simo la materia: se il suicidio assistito di­ventasse un compito medico, Exit e Digni­tas non avrebbero più ragione di esistere, e sapremmo esattamente cosa accade ad ogni paziente».
Tornando ad allargare lo sguardo dalla Svizzera al mondo, lei ammonisce riguar­do a un «disastro annunciato» e tuttavia ignorato: l'esplosione dei tumori nel Sud del mondo.
«Per fortuna rispetto a quando ero presi­dente dell'Unione internazionale contro il cancro, nel 2005, la situazione sembra volgere verso una maggiore presa di co­scienza. L'ONU ha deciso di dedicare il suo prossimo summit, nel settembre del 2011, alle malattie non trasmissibili, con un'attenzione particolare al cancro. Ciò significa che, perlomeno, sarà possibile introdurre il problema nell'agenda della politica mondiale. È un passo necessario, poiché entro il 2050 - se continuiamo ai ritmi attuali - i quattro quinti dei decessi per cancro avverrà nei Paesi del Terzo mondo».
Veniamo quindi alla domanda «giorna­listica» per eccellenza. Lei ha intitolato il suo libro La grande sfida , perciò è lecito chiedersi: vinceremo, oppure no?
«La mia convinzione profonda è che la ri­sposta sia affermativa, dal punto di vista medico e scientifico. Vinceremo la sfida, perché negli ultimi 20 anni abbiamo im­parato sui tumori più che in tutto il resto della Storia. Purtroppo, è però altrettanto vero che - dal punto di vista globale - que­sta sfida la stiamo perdendo: e non solo perché nel Terzo mondo i casi di tumore esplodono. Anche nei Paesi ricchi, infatti, le spese sanitarie aumentano a un ritmo ormai insostenibile: le terapie all'avanguar­dia, brevettate e controllate dai monopoli farmaceutici, hanno costi esorbitanti e non più sopportabili dal sistema. Prendiamo il caso dei medicinali: nell'ultimo venten­nio, i prezzi di alcuni prodotti sono aumen­tati di 30-50 volte (!) senza una proporzio­nale crescita dei risultati terapeutici: a im­pennarsi sono soltanto gli utili netti delle aziende, che continuano a crescere del 15-20% l'anno, a dispetto di ogni crisi. Così non possiamo più andare avanti, è certo».
Quali speranze ci sono di vincere la sfida anche globalmente?
«Un primo passo potrebbe essere mosso proprio nel nostro Cantone. Grazie alla Scuola europea di oncologia - fondata da Umberto Veronesi, e della quale oggi diri­go il Comitato scientifico - abbiamo inten­zione di organizzare a Lugano, nel 2012, la prima edizione del WOF».
WOF?
« Il
World oncology forum : l'obiettivo è di raccogliere i migliori esperti di tumori da tutto il mondo, e sottoporre loro una sem­plice domanda: “Come potremo vincere la sfida?”».
OLIVER BROGGINI
Non esiste «il cancro»: questa definizione raggruppa patologie molto diverse tra loro
L'oncologo è un uomo di scienza, ma non de­ve mai perdere di vista la dimensione umana
L'intenzione è di orga­nizzare a Lugano, per la prima volta, un
World oncology forum
PIONIERE Il dott. Franco Cavalli ha diretto, dal 1978, il reparto di oncologia dell'ospe­dale San Giovanni di Bellinzona. Alla fine degli anni '90, ha fondato l'Istituto oncolo­gico della Svizzera italiana.
(Foto Crinari)
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