Gramellescion

Ecco , qua c'e' tutto quello che chiedi :D quasi quasi...:lol: (scherzo, sempre)
 

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Ecco , qua c'e' tutto quello che chiedi :D quasi quasi...:lol: (scherzo, sempre)


;) guarda che è identico al programma del PD e del M5S :D
infatti ammia del finanziamento pubico dei partiti, numero parlamentari , retribuzione parlamentari, 'totale trasparenza' dei caffè ,eccecc importa nulla
unica eccezione al mio disinteresse, i due mandati :)



le mie saressero queste...


*applicazione dello Statuto del Contribuente
*responsabilità della PA (tutta) con sospensioni sotto giudizio e licenziamenti dei rei in primo grado
*inasprimento della pena per i pubblici ufficiali
*creazione di un gruppo di ispettori pubblici sulla efficienza della PA locale, magari con personale europeo
*definizione di parametri di customer satisfaction per la PA
 
Ultima modifica:
L’anno dei due premier



massimo gramellini



Dopo l’anno dei due Papi, è cominciato quello dei due premier. Il primo, Letta, è stato nominato nove mesi fa da una coppia di azionisti che oggi non esiste più: il Pdl e il Pd di Bersani. Il secondo, Renzi, è stato scelto dagli elettori democratici alle primarie dell’Immacolata ed è subito montato sull’onda di luce cavalcata per decenni da Berlusconi. Renzi è l’apertura fissa dei giornali, il bersaglio preferito dei comici, l’uomo nuovo che nella percezione dei media è già presidente del consiglio, anche perché come tale si comporta: fissa l’agenda quotidiana, propone leggi di lungo respiro, incalza ministri, sfotte viceministri inducendoli alle dimissioni, presidia studi televisivi, interviene su tutto lo scibile, specie se di competenza del governo, e non perde occasione per destabilizzare Letta e Alfano con l’alibi di pungolarli. Particolarmente luciferina, al riguardo, la mossa di inserire fra le riforme urgenti lo ius soli e le unioni civili per i gay: battaglie nobili che inglobano lo scopo più prosaico di far saltare i nervi al partitino cattolico che funge da stampella al centrosinistra.

Non è solo smania di potere, come insinuano i maligni, ma lotta per la sopravvivenza. Renzi sa fin troppo bene che c’è una tagliola innescata lungo il suo cammino: le elezioni europee del 25 maggio. Qualsiasi sondaggio, e anche il semplice buon senso, riconosce che il Pd renziano vincerebbe a mani basse le politiche, mentre rischia di perdere quelle continentali, fatte apposta per esaltare la pancia dell’elettorato di Grillo e Berlusconi che Renzi, leader dell’unico movimento di massa non populista, non può permettersi di assecondare.

Attribuire la colpa del probabile rovescio al governo Letta non gli servirebbe a nulla. La sconfitta europea scalfirebbe il suo mito mediatico, dissolvendo d’incanto l’alone che lo circonda. I giornalisti e i cortigiani lo abbandonerebbero al suo destino, e i piranha del suo partito ne spolperebbero i resti, consegnandolo al sacrario degli ex segretari trombati che vanta già numerose lapidi. Immaginate, la mattina del 26 maggio, il baffetto di D’Alema increspato in una smorfia di sarcasmo: «A-ha, ma questo Renzi non l’avevamo messo lì per farci vincere?» Perciò il segretario del Pd è costretto a fare saltare il banco al più presto, dando l’impressione di non volerlo, ma provocando gli alleati e strizzando l’occhio agli oppositori perché qualcun altro si sporchi le mani al posto suo.

È talmente diffusa la percezione che Renzi rappresenti il nuovo da mettere alla prova che Letta sembra sempre di più un sopravvissuto, addirittura un intruso. Eppure sta rivelando una tenuta nervosa invidiabile. Il potere non lo logora affatto: lo cementifica. A ogni bordata verbale dell’avversario («non ho nulla a che spartire con lui», «altro che larghe intese, questi fanno solo marchette», «sono il badante del governo»), Letta reagirà pure in privato con degli ululati, ma in pubblico conserva una posa da bonzo e scandisce instancabile il mantra «È tempo di un cambio di passo».

Difficile sapere chi tra i due premier la spunterà. Più facile scommettere su chi ci rimetterà. Noi. Dopo un ventennio trascorso a dividerci su Berlusconi, eccoci qui a perdere altro tempo nella guerra di logoramento tra il guelfo di Pisa e il ghibellino di Firenze.
 
la burocrazia è il vero potere romano. Una burocrazia parassitaria, che si autocontrolla e si autogoverna, alimentando i propri parassiti, espressione di una certa borghesia che colloca negli uffici i propri esponenti per ottenere un reddito. Si dice che tutte le strade portino a Roma. È vero, ma è anche vero che tutte le strade muoiono a Roma, così come muoiono le idee e la fantasia, sempre per colpa della burocrazia che paralizza, blocca, rallenta non solo la vita della capitale ma dell’intero Paese. La burocrazia romana è insomma una specie di potentissima dittatura all’interno della democrazia



La capitale degli interessi. La verità è che a condizionare la politica romana, incapace di pensare in grande come si converrebbe a una capitale europea, sono tanti interessi diversi. Anche quelli apparentemente più piccoli. Un caso? Vicepresidente del consiglio comunale è un giovanotto di nemmeno trentadue anni, che risponde al nome di Giordano Tredicine, eletto per la seconda volta. È un esponente della famiglia che controlla una bella fetta del commercio ambulante in città. Immigrati a Roma nel 1959 dall’Abruzzo, controllano l’80 per cento della rete dei camion bar collocati nelle aree turisticamente strategiche. Alla Camera di commercio risultano quasi settanta diversi esponenti della famiglia registrati come titolari di licenze. Per non parlare delle pressioni che hanno reso impossibile per vent’anni prendere una decisione che sarebbe stata naturale in qualunque città del mondo.
Ricorda bene, l’ex assessore Walter Tocci, l’inferno che si scatenò quando la prima giunta di Francesco Rutelli, della quale faceva parte, propose di vietare il transito dei veicoli a motore nella zona archeologica più importante del mondo, quella dei Fori imperiali. Per primi insorsero i tassisti. Quindi gli operatori turistici. E i negozianti. Di conseguenza il povero Colosseo non è stato mai affrancato dalla indecente condizione di gigantesco spartitraffico annerito dallo smog.
Nel 2010 Legambiente ha calcolato il passaggio di 2.120 veicoli l’ora, con un rumore perennemente superiore al limite massimo dei 70 decibel. Appena eletto, Marino ha annunciato la chiusura al traffico dei Fori: auguri. Per ora la ex via dell’Impero è chiusa appena a metà, e unicamente al traffico privato. In quella metà continuano a passare bus, taxi, auto blu... Nell’altra è tutto esattamente come prima. Un’operazione di semplice facciata, insomma. In linea con le titubanze che stanno segnando questi primi sette mesi di mandato del nuovo sindaco.
Le nomine, per esempio. La legge prevede che entro 45 giorni dall’insediamento i sindaci debbano provvedere alle designazioni di propria competenza. Nonostante ciò da sette lunghi mesi il Palaexpo, cioè l’azienda speciale che governa le Scuderie del Quirinale e il Palazzo delle Esposizioni, è senza vertice. Con ripercussioni potenzialmente gravissime considerando che le Scuderie sono uno dei rari spazi espositivi di altissimo livello in Italia che organizzano mostre di caratura internazionale.
Senza vertice è pure il Macro, il museo di arte contemporanea ristrutturato con 40 milioni di euro che rischia di diventare una costosissima scatola vuota perché privo di programmazione. Da sette mesi è poi vacante il posto da sovrintende comunale. L’assessore alla Cultura Flavia Barca, sorella dell’ex ministro Fabrizio Barca, punta su persone esterne all’amministrazione. Ma il bando dev’essere ancora pubblicato. Tutto questo mentre a causa delle difficoltà economiche il Comune sta progettando un drastico taglio ai finanziamenti della cultura.
Quindi i vigili urbani. Dopo un duro contrasto con il vecchio comandante Carlo Buttarelli, ereditato dal suo predecessore Gianni Alemanno, Marino designa il sostituto nella persona di Oreste Liporace, capo dell’ufficio relazioni con il pubblico del comando generale dei carabinieri. Nemmeno una settimana e si scopre che Liporace non ha i requisiti previsti non solo dal regolamento della polizia municipale ma anche dall’avviso pubblico stilato proprio dal gabinetto del sindaco: il comandante dev’essere stato dirigente almeno per cinque anni. Liporace dunque rinuncia. Pochi giorni dopo arriva al suo posto Raffaele Clemente. Che già a dicembre, mentre Marino è in Turchia, pensa di dimettersi perché lasciato da solo nel confronto con il potentissimo sindacati dei vigili che minacciano di bloccare la città con gli scioperi.
Poi c’è il caso dell’Ama. Dopo aver esaminato una montagna di curriculum, il 10 gennaio il sindaco mette Ivan Strozzi alla guida di un consiglio di amministrazione ridotto a tre membri. Ma il 16 dello stesso mese deve dimettersi: c’è un’indagine a suo carico, con avviso di garanzia da parte della procura di Patti, per una vicenda di sette anni fa quando era a capo di un’altra municipalizzata.
E che dire dell’Acea? Durante la campagna elettorale Marino subisce la conferma in blocco dei vertici. A cominciare dal presidente Giancarlo Cremonesi, sostenitore della campagna di Gianni Alemanno, e dall’amministratore e direttore Paolo Gallo gradito a Caltagirone. Al loro fianco, due rappresentati del socio francese Gdf, un dirigente del Comune, Francesco Caltagirone junior, l’ex parlamentare del Pdl Maurizio Leo, il consorte dell’ex guardasigilli Paola Severino, Paolo Di Benedetto, nonché il segretario generale della dalemiana fondazione Italianieuropei Andrea Peruzy.
Faraonici gli emolumenti: 408 mila euro al presidente, 1,3 milioni all’amministratore, circa 120 mila euro agli altri. Totale, oltre due milioni l’anno, da pagare comunque fino al 2016 in caso di licenziamento. Il che rende decisamente più complesso l’avvicendamento. Mentre il tempo passa.
Ma non riesce, Marino, nemmeno a scalzare Cremonesi dalla presidenza della Camera di commercio, snodo cruciale di poteri e interessi sul territorio. In compenso, Stefano Caviglia sostiene sul mondadoriano Panorama che lo staff suo e dei suoi assessori è arrivato a 97 collaboratori, di cui 96 ingaggiati, testuale nell’articolo, «senza procedure pubbliche» e punta a scalare quota 108.
Fatto sta che ora alla pratica Cremonesi ha deciso di provvedere Nicola Zingaretti, proponendo il commissariamento della Camera di commercio. Il sindaco in realtà doveva essere lui. Poi, quando la Regione Lazio è saltata per aria in seguito agli scandali di Batman & co., ha scelto di correre per il meno prestigioso incarico di governatore del Lazio. Marino ha vinto le primarie e ha ottenuto un successo elettorale pieno, ma è diventato primo cittadino della capitale quasi per caso. E il Partito democratico, a Roma, non è nelle sue mani: lo tiene saldamente in pugno Zingaretti. Che qualcuno, di fronte alle difficoltà e alle indecisioni del Campidoglio, arriva a considerare una specie di sindaco ombra.



Tanto più perché il sindaco sta pagando colpe non sue. Non lo aiutano le condizioni economiche disastrose del Comune: un disavanzo strutturale di 1,2 miliardi, con l’impossibilità materiale di contrarre debiti. Un freno micidiale a qualunque progetto di respiro, sempre che ce ne siano. A questo si aggiunga la valanga dei circa 4 mila dipendenti in più nelle società comunali graziosamente ereditata dalla precedente gestione.
Sarebbe poi ingiusto non riconoscere a Marino le cose fatte. Per la prima volta quest’anno è saltata la cosiddetta manovra d’aula: indecente distribuzione di soldi ai consiglieri comunali. Il sindaco va poi orgoglioso della scelta di chiudere Malagrotta, come pure della decisione di bloccare lo sviluppo urbanistico e lo sconsiderato consumo del suolo.
Governare una macchina come quella del Comune di Roma, inoltre, non è certo facile. Non lo è stato per i volponi della politica, romani. Figuriamoci per un chirurgo genovese con una lunga esperienza americana. Anche se chi ha voluto la bicicletta poi è giusto che pedali. Nonostante la strada in salita.
Le dimensioni, innanzitutto.
Il Campidoglio alimenta 62 mila buste paga, di cui 37 mila delle aziende municipalizzate: un groviglio di un’ottantina di scatole societarie. Quindi la complessità dei problemi. Basta pensare alla faccenda della Metro C, con i vincoli pazzeschi della zona archeologica e i costi mostruosi. Ma anche alle questioni che si presentano giorno per giorno. Le sole tre aziende più grandi, l’Atac, l’Ama e l’Acea, occupano 31.338 dipendenti, oltre 4 mila più di tutti i dipendenti degli stabilimenti italiani della Fiat Chrysler. L’Atac ne ha 12.276, il servizio è penoso e i conti sono un colabrodo con perdite di 1,6 miliardi negli ultimi dieci anni, vero. Ma in sette mesi non si è vista un’idea. Con le sue controllate, l’Ama paga circa 11.805 stipendi e non è mai stata un esempio di cristallina efficienza, verissimo. Ma l’igiene urbana è quella che è e i cittadini di Roma pagano le tasse più alte d’Italia.
Scendendo di scala, altre situazioni danno seriamente da pensare. Come le farmacie comunali, che hanno 362 dipendenti e 15 milioni di debiti. O Risorse per Roma, una società letteralmente inventata per fare da consulente al Campidoglio e assumere 565 persone. Società che a sua volta ha poi gemmato un’agenzia battezzata con un nome rigorosamente inglese: «Roma city investment». A che cosa serve? A «promuovere la crescita del sistema informativo territoriale romano e l’attrazione degli investimenti necessari per la realizzazione dei progetti di rigenerazione urbana».
In attesa che l’Urbe venga rigenerata, a Risorse per Roma hanno dato da smaltire le 150, forse 200 mila pratiche arretrate del condono edilizio. Uno dei capitoli più bui nella storia della città, su cui sarebbe doveroso fare luce. E non soltanto negli uffici comunali. Soprattutto per quei 5.900 abusi che erano stati scoperti grazie alle fotografie aeree e per i quali era stata presentata la domanda relativa all’ultimo condono berlusconiano ancora prima di costruire. Quasi seimila casi per cui sono stati colpevolmente lasciati scadere i termini di prescrizione del giudizio penale. Con il risultato che nessuno dei responsabili dovrà risponderne davanti alla giustizia. Roma è anche questa.
 
È perfettamente comprensibile che tanti cittadini non colgano il legame che esiste fra ciò che accade e, presumibilmente, accadrà alle loro vite o a quelle dei loro figli, e questioni «astruse» come la legge elettorale o i propositi di riforma della Costituzione. Essi pensano che tali questioni siano di interesse solo per i politici di professione, per i giornalisti e per gli esperti accademici di istituzioni. Molti ritengono anche che occuparsi di riforme elettorali e costituzionali sia, per i politici, una sorta di alibi, un modo per eludere i problemi «veri»: l’occupazione, il reddito delle famiglie, eccetera. Se è comprensibile che essi non vedano quel legame è anche un fatto che si sbagliano. Le due cose sono collegate.



Il problema italiano, quello che ci impedisce di porre le condizioni per il rilancio dell’economia, è l’immobilismo decisionale, il fatto che non sappiamo attuare quei radicali interventi che ci permetterebbero di affrontare con più ottimismo il futuro. Ma quell’immobilismo non è effetto del caso né, come vuole la vulgata anti-politica, dell’inadeguatezza dei nostri uomini di governo. Non è vero che i politici britannici o spagnoli o tedeschi, siano, mediamente, migliori dei nostri: i politici si assomigliano un po’ tutti. L’immobilismo, e le risposte inadeguate che diamo ai problemi sono conseguenze della frammentazione politica, del fatto che qualunque decisione debba passare attraverso infinite mediazioni, e si scontri con un grandissimo numero di veti. E la frammentazione è appunto figlia di un sistema istituzionale che, dopo averla generata, la perpetua.



Non faremo mai gli interventi che servono per avere di nuovo crescita economica e dare così un futuro ai nostri figli se non riusciremo a ridurre drasticamente la frammentazione, se non riusciremo a tagliare le unghie ai tanti poteri di veto che oggi ci paralizzano, se non disporremo di una democrazia capace di decidere. Sta precisamente qui il legame fra la questione istituzionale e la vita di ogni giorno delle persone. L’immobilismo condanna il Paese alla decadenza e l’unico modo per uscire dalla trappola è fare quei cambiamenti istituzionali che possano rimettere in funzione il motore imballato.



Se a molti cittadini sfugge quel legame, esso però non è mai sfuggito a coloro che resistono attivamente a qualunque cambiamento istituzionale di una qualche serietà. C’è, e c’è sempre stata, una sovrapposizione quasi perfetta fra gli adepti di quello che potremmo definire il «partito trasversale del socialismo reale» (all’italiana) e i cantori della «Costituzione più bella del mondo». Sono in realtà, più o meno, le stesse persone. Quelli che «la spesa pubblica non si tocca», quelli che «le tasse alte non sono un problema», quelli che «il mercato del lavoro non si tocca», eccetera eccetera . Sono gli stessi che difendono l’assetto istituzionale vigente, e la frammentazione che esso contribuisce a perpetuare. Essi difendono in realtà il proprio potere di veto, la propria capacità di impedire che l’immobilismo abbia termine.



È vero, in venti e passa anni di discussioni sulle questioni istituzionali abbiamo abbondantemente annoiato i cittadini mettendo in competizione tante proposte di riforma elettorale o costituzionale, alcune delle quali, peraltro, davvero astruse. Ma si consideri che gli obiettivi sono sempre stati gli stessi: ridurre la frammentazione, indebolire i poteri di veto, dare ai governi maggior potere decisionale. Non importa il colore del gatto purché acchiappi il topo. Non importa che si segua la via britannica o quella spagnola o quella francese. Non conta insomma il «modello costituzionale» a cui ci si ispira. Importa che i succitati obiettivi vengano, in un modo o nell’altro, raggiunti.



La legge elettorale oggi in discussione, in virtù dell’accordo fra Renzi e Berlusconi, non è certo la migliore possibile ma è, a quanto pare, il massimo che si possa realisticamente realizzare nelle condizioni politiche attuali. Se porterà con sé anche la riforma del Senato e la fine del bicameralismo simmetrico o paritetico, l’accordo suddetto avrà comunque dato un significativo contributo alla riduzione della frammentazione e all’indebolimento, almeno parziale, dei tanti poteri di veto. Vedremo se ciò basterà per lottare, finalmente ad armi pari, con il partito immobilista, con il partito del socialismo reale. Condizione necessaria, anche se non sufficiente, per svoltare, per fermare il declino.
 
I deputati hanno presentato oltre quattrocentocinquanta emendamenti alla legge elettorale. Avranno tutte le ragioni di questo mondo. Ma sono fuori dal mondo. È come in certe storie d’amore al capolinea: mentre uno dei due non ne può più, l’altro continua a inanellare i gesti consueti senza alcuna percezione della realtà. E la realtà è che gli italiani sono in stato d’emergenza. Vivono sotto un bombardamento di cattive notizie e reclamano decisioni urgenti, anzi immediate. Riduzione delle tasse, subito. Messa in discussione del rapporto deficit/Pil, subito. Abbattimento della burocrazia, subito, perché gli ingorghi di timbri stanno facendo scappare anche le poche aziende che vorrebbero ancora investire qui.

Dalle case delle persone comuni - dove ogni sera si recita il bollettino di guerra dei posti persi o non trovati - sale la pretesa che la politica sia altrettanto angosciata e consapevole della drammaticità della situazione. Un Parlamento convocato in seduta straordinaria per annullare le troppe leggi che complicano la vita agli intraprendenti. Un governo che in 24 ore o al massimo in 24 giorni, certo non in 24 mesi, trovi un modo per tagliare la spesa pubblica e le tasse.
 
Dalle case delle persone comuni - dove ogni sera si recita il bollettino di guerra dei posti persi o non trovati - sale la pretesa che la politica sia altrettanto angosciata e consapevole della drammaticità della situazione. Un Parlamento convocato in seduta straordinaria per annullare le troppe leggi che complicano la vita agli intraprendenti. Un governo che in 24 ore o al massimo in 24 giorni, certo non in 24 mesi, trovi un modo per tagliare la spesa pubblica e le tasse.
con 20.000 euri al mese più tutti i benefit del mondo, dimmi, tu saresti angosciato e consapevole?
 
hi ha vinto tra Grillo e Renzi, protagonisti in diretta tv di un breve saggio sull’incomunicabilità umana? Se la posta in palio dell’incontro tra il nemico del Sistema e la sua ultima faccia presentabile fosse stata la conversione di Grillo ai riti della democrazia, Renzi avrebbe perso su tutta la linea, ricevendo la prima dimostrazione plastica che i problemi non si risolvono solo perché al governo è arrivato lui. Ma se in gioco c’erano i voti dei grillini moderati, «the winner is» Matteo, che quegli elettori tenta di sedurre da tempo, a colpi di tagli alle province e alle autoblù. Si tratta di persone che detestano i privilegi dei politici, ma hanno ancora una insopprimibile predilezione per il rispetto delle forme. E quel Grillo che, come certi arnesi da talk show, interrompe l’interlocutore e si rifiuta di ascoltarlo, appare loro più un eversore che un liberatore.
Grillo ha sfondato tra i giovani, integralisti per natura, e tra i disperati, integralisti per necessità. I duri e puri saranno andati in sollucchero nel vederlo maltrattare colui che ai loro occhi rappresenta il volto giovane dell’Ancien Régime. C’è però un’altra Italia, che ha votato Cinquestelle per riformare il sistema, anche profondamente, ma non per rovesciarlo. Grillo, a cui non fa difetto la coerenza, ieri ha detto che questi oppositori all’acqua di rose hanno sbagliato a votare per lui. Se il leader del Pd avesse rovesciato il tavolo, come suggerito da Giuliano Ferrara, avrebbe conquistato il voto fondamentale di Giuliano Ferrara. Standosene invece buonino e calmino – come dice Renzi, che non è né l’uno né l’altro – ha discrete speranze di prendersi tutti gli altri.


:mumble::mumble::mumble:
 
La doppia morale a sinistra esiste, nelle cose piccole e in quelle grandi. Cominciando dalle piccole: si può essere sollevati nell’apprendere che al culmine della crisi ucraina la ministra Pinotti abbia trovato il tempo per andare a sgranchire le gambe sue e della sua scorta in una maratona a Ostia. Ma non ci si può fare a meno di domandarsi che cosa avremmo detto se un ministro della Difesa di Berlusconi, magari proprio Gnazio La Russa, avesse lasciato curvo sui dossier euroasiatici qualche generalissimo secchione e se ne fosse andato allo stadio con il figlio Geronimo e gli amici Malanimo e Boro Seduto.

Passando a questioni più serie, l’intero Paese fa la ola per il congelamento del sottosegretario Gentile, il luogotenente calabrese di Alfano coinvolto in una storiaccia di intimidazioni a un giornale. Ma, terminata la ola, qualcuno comincia a chiedersi perché Gentile sia fuori dal governo mentre i quattro sottosegretari indagati del Pd rimangono dentro. Lascia stupefatti Francesca Barracciu, la vincitrice delle primarie sarde indotta a ritirarsi per via dell’indagine che le contesta una cresta di 33 mila euro sulle note spese. Come mai chi non andava bene per fare la governatrice a Cagliari va benissimo per fare il sottosegretario a Roma? Forse perché nel primo caso sarebbe stata sottoposta al vaglio degli elettori e nel secondo no? Quando Barracciu uscirà dall’inchiesta bianca come un giglio sarà un piacere riabbracciarne i talenti sottosegretariali, ma nel frattempo un governo senza indagati rappresenterebbe una novità rivoluzionaria. Molto più del Pastrocchium elettorale appena varato.
 

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