HUAWEI: LA “TRADE WAR” TRA USA E CINA COME UNA GROTTESCA CORRIDA
La strategia del presidente Donald Trump nei confronti di Pechino assomiglia a una delirante corrida il cui esito, tanto scontato quanto grottesco, sarà un bagno di “sangue”, ai danni della comunità internazionale.
Qualche mese fa, circa la “trade war” che da mesi interessa Stati Uniti e Cina, scrivevamo che
con Pechino non si scherza.
La storia recente insegna che tentare di imbrigliare l’irresistibile – e irresistita – ascesa economica cinese ricorrendo a coercizioni unilaterali dirette all’espansione della Cina nel mercato globale, non ottiene altro risultato che far imbizzarrire la bestia.
La strategia del presidente Donald Trump nei confronti di Pechino come del resto dei «nemici della nazione», dal Venezuela all’Iran, ricalca l’illusione dell’esito scontato di una grottesca corrida: da mesi i picadores dell’amministrazione americana infliggono ferite al toro cinese, mentre el matador Donald danza intorno ai tavoli delle trattative bilaterali a favore del pubblico nazionale in visibilio.
Pechino, nella pantomima trumpiana, appare accerchiata ed esangue, pronta a capitolare da un momento all’altro trafitta dalla lama del sovranismo.
Agli spettatori di questa triste messinscena qualche giorno fa sarà sembrato di scorgere lo scintillio della spada nascosta dietro la schiena del torero, quando l’ultima banderilla a stelle strisce si è conficcata nel dorso della bestia cinese.
Con uno scoop sensazionale, Reuters
ha dato notizia della sospensione a tempo indeterminato della partnership commerciale tra Google e Huawei, secondo produttore di smartphone al mondo in termini assoluti, dopo Samsung, appoggiato alla piattaforma Android.
Secondo quanto emerso, il colosso di Mountain View, dando seguito all’inserimento di Huawei nella lista di proscrizione commerciale statunitense (la «Entity List», lista nera di oltre duecento compagnie internazionali che per Washington rappresentano una minaccia alla sicurezza nazionale), avrebbe rescisso ogni accordo commerciale con la compagnia cinese, bloccando l’uso da parte di Huawei dei servizi offerti da Google: niente più Android caricato di default sui telefoni Huawei, stop all’accesso da smartphone Huawei a prodotti fondamentali come Google Maps, Gmail e Youtube.
L’embargo dalla piattaforma per smartphone più diffusa al mondo – notare bene: non si tratta di software, ma dell’intero ecosistema su cui girano i telefoni Huawei – seguiva una simile iniziativa intrapresa dalle aziende statunitensi produttrici di chip e processori come Intel e Qualcomm, di fatto andando a minare alla radice le aspirazioni di superpotenza tecnologica transnazionale di Huawei, pronta a svolgere un ruolo di primo piano nell’implementazione globale
dell’imminente tecnologia 5G: i binari su cui correrà il progresso tecnologico del secolo, l’interazione automatica tra la Rete e il mondo reale che ci circonda, l’«internet delle cose».
Si tratta di un attacco mai così potente e diretto nei confronti degli interessi di una compagnia cinese che, secondo i detrattori di Huawei, coincidono col progetto di egemonia economico-culturale intrapreso da Xi Jinping.
Senza potersi appoggiare alla piattaforma Android, Huawei sarebbe costretta a sviluppare un ambiente equivalente ma proprietario, un ecosistema «made in China» da implementare a tempo record su letteralmente milioni di telefoni in tutto il globo.
Se per i telefoni Huawei attualmente in uso, stando a
Bbc, non ci dovrebbero essere problemi sensibili nel breve termine, diversa sarà la situazione al prossimo aggiornamento di sicurezza, che gli utenti Huawei potranno scaricare solo quando sarà ottimizzato per la versione open source di Android.
Tutti i nuovi telefoni Huawei, invece, saranno di fatto «non certificati», quindi esclusi dall’ambiente Google proprietario. A ventiquattro ore dallo scoop di Reuters, confermato da Google, l’amministrazione Trump ha già proceduto
a mitigare il colpo introducendo una moratoria di 90 giorni all’esclusione di Huawei da Android.
Fino ad agosto, quindi, tutto rimane come prima, salvo la minaccia di implementare effettivamente una misura che diversi osservatori equiparano a una nuova «cortina di ferro digitale».
L’impressione è che Donald Trump, impegnato a combattere con ogni mezzo la macro-partita commerciale con Pechino, stia ostinatamente forzando le aziende americane a sacrificare i propri interessi sull’altare della questione nazionale.
Policy come i dazi e l’inserimento di determinati partner internazionali nella Entity List sono iniziative che, nel passato recente, sarebbero state intraprese a seguito di discussioni informali e collegiali, coinvolgendo nei processi decisionali i diretti interessati di Usa Inc.
Processo che non sembra affatto attuato in questa circostanza, considerando la reazione dei mercati: crollati in seguito all’annuncio della fine della partnership tra Google e Android, tiepidamente rimbalzati solo all’ufficializzazione della moratoria di 90 giorni.
Le reazioni cinesi, senza sorpresa, ricalcano il copione già evocato all’inizio di questo articolo. Ren Zhengfei, fondatore e presidente di Huawei,
ha dichiarato all’emittente cinese nazionale CCTV che «gli Stati Uniti ci sottovalutano», ricordando che da mesi la compagnia aveva già nel cassetto una piattaforma alternativa ad Android e, se costretti dalle misure incoraggiate da Washington, la rilascerà senza troppi grattacapi.
Il presidente Xi Jinping, durante una visita nella provincia del Jiangxi, ha fatto appello all’orgoglio nazionale, chiamando a raccolta tutti i cinesi per prepararsi
a una nuova «Lunga Marcia».
Il riferimento a uno dei passaggi chiave della storia cinese moderna – la ritirata delle truppe comuniste accerchiate dall’esercito nazionalista di Chiang Kai-shek proprio nel Jiangxi nel 1935, ricompattatesi attorno alla figura carismatica dell’allora semi-sconosciuto Mao Zedong – non è casuale: una fuga all’indietro che dà l’illusione della sconfitta, ma che in realtà rilancia il conflitto costringendo il nemico a una ritirata ingloriosa e definitiva a Taiwan.
È la bestia che sanguina all’angolo mentre si prepara a infilzare l’addome del matador, ad esempio rispondendo ai dazi di Trump applicandoli al mercato dell’estrazione delle terre rare,
che Pechino controlla al limite del monopolio.
Intanto, da più parti si rinnova l’apprensione per il prezzo, altissimo, che questa “trade war” reclamerà sui mercati.
Secondo Reuters, «le aziende americane potrebbero perdere fino a 56,3 miliardi di dollari in export nei prossimi cinque anni dalle limitazioni commerciali imposte nei confronti di Huawei». Conseguenze che metterebbero a repentaglio 74mila posti di lavoro.
Per l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (Oecd),
la “trade war” in corso rischia di mangiarsi lo 0,7 per cento del Pil globale: uno scenario che porterebbe a una perdita complessiva di quasi 600 miliardi di dollari entro il 2022.
Come nella corrida,
in questa guerra tra Cina e Stati Uniti c’è un solo esito scontato: scorrerà il sangue.