(Il Sole 24 Ore) - Palla al centro. Fischio d'avvio. La partita per salvare Seat Pagine Gialle è iniziata. Le banche (che vedono Rbs, UniCredit e Bnp Paribas in prima fila) hanno infatti dato la "liberatoria" (waiver) alla società, per negoziare la ristrutturazione di un debito da 2,7 miliardi ormai insostenibile. L'idea – come anticipato ieri da Radiocor – è di trasformare in azioni il prestito obbligazionario da 1,3 miliardi di euro emesso per Seat dalla società-veicolo Lighthouse. Se Seat ci riuscisse, in un colpo prenderebbe tre piccioni con una fava: ridurrebbe il debito, aumenterebbe il capitale e risparmierebbe 108 milioni l'anno di interessi. Ma non sarà facile: serve infatti l'Ok dei fondi di private equity azionisti con il 49,5% (Cvc, Permira e Investitori Associati) che, sostengono alcuni, non sono tutti d'accordo. Cvc sembra infatti poco disposta a seguire questa strada, preferendone altre. E dire che a mettere Seat in questa situazione sono stati proprio i fondi di private equity. Il gruppo non avrebbe problemi se non fosse per quella gigantesca zavorra di debito, che proprio i fondi le hanno "iniettato" nel 2003 come in un'operazione di chirurgia plastica riuscita male. Quell'anno Cvc, Permira, Investitori Associati e Bc Partners (poi uscito) acquisirono il 62,5% di Seat da Telecom. Per farlo misero 960 milioni di euro di capitale di tasca propria, ma si fecero finanziare i restanti 2,2 miliardi da Royal Bank of Scotland. Questo è il peccato originale: quel debito fu ben presto scaricato in Seat. L'anno dopo i nuovi azionisti decisero infatti che il gruppo doveva distribuire loro un dividendo speciale: furono emessi i bond attraverso la società veicolo Lighthouse (1,3 miliardi), furono rifinanziati i prestiti e con i denari raccolti Seat staccò una cedolona da 3,46 miliardi di euro. È così che la società è stata riempita di debiti: non per investire in tecnologia o in personale, ma per ripagare i fondi che l'hanno acquisita. Questi poi hanno effettuato un aumento di capitale, vero. Ma non è bastato. Nel 2010 il gruppo ha anche ristrutturato il debito. Ma anche questo non ha risolto il problema. Oggi in circolazione ci sono debiti "senior" (più "forti"), tra i quali figurano quelli bancari. E poi c'è il prestito obbligazionario emesso dal veicolo Lighthouse, che è invece "junior" (in caso di default viene rimborsato dopo i "senior"). Questo bond è in mano a investitori istituzionali, ma – si dice – è finito anche in qualche gestione patrimoniale. Morale: questo fardello non è più sostenibile. L'unica soluzione è dunque di trasformarlo in parte in azioni. L'idea è di farlo proprio con il bond Lighthouse. Le banche creditrici sono d'accordo: hanno infatti dato in questi giorni il via libera (waiver), passaggio necessario per evitare che la ristrutturazione diventi un «evento di default». Gli obbligazionisti Lighthouse sono in gran parte d'accordo: esiste infatti un comitato (composto dai fondi Monarch, Marathon, Sothic, Anchorage, Alden e Howl Creek) che ha in mano tra il 40% e il 50% del bond e che voterà «sì». L'unico punto interrogativo sta nei fondi azionisti: si dice che alcuni preferiscano una ricapitalizzazione. La partita è appena iniziata.
Qui però trascurano un dettaglio: la votazione degli obbligazionisti non è a maggioranza relativa. Il 50% dei consensi non basta, ci vuole il 66%. Non è però chiaro se s tratta dei 2/3 del debito o dei 2/3 che parteciperanno alla votazione.