HO COMPRATO UN LiBRO SU COME GESTIRE LA FAME NERVOSA...

Il governo tedesco ha approvato una nuova legge che renderebbe molto più difficile alle persone provenienti da Kosovo, Montenegro e Albania chiedere asilo in Germania.
La norma, che dovrà essere discussa dal Bundestag a partire dal 1 ottobre e in seguito anche dal Bundesrat, viene annunciata in un momento in cui nel paese arrivano ogni giorno circa diecimila migranti, nonostante l’introduzione dei controlli alla frontiera con l’Austria.
Le nuove leggi stabiliscono che Albania, Kosovo e Montenegro saranno ritenuti dei “paesi d’origine sicuri”. L’obiettivo della norma è di impedire l’approvazione delle domande d’asilo e rendere quindi più semplice il rimpatrio dei migranti.
 
Putin ottiene il permesso del parlamento per inviare truppe all’estero.
Il presidente ha presentato alla camera alta della Duma la richiesta di impiegare le forze armate fuori dai confini russi, come previsto dalla costituzione, e i senatori l’hanno approvata all’unanimità.
Il passaggio prelude a un intervento russo in Siria contro lo Stato islamico.

Se vuole lo aiutiamo, gli mandiamo un paio delle nostre teste da ***** nucleari, senza fare nomi :up: ne abbiamo tante dislocate nella capitale :(
 
Aumentano le distanze della nuova direzione del Corriere della Sera da Matteo Renzi, dopo la partenza del supercritico Ferruccio de Bortoli.
Che se n’era andato da via Solferino dando del “maleducato”, sia pure “di talento”, al presidente del Consiglio e segretario del Partito Democratico.
In collegamento televisivo con Giovanni Floris per il Di martedì de La 7, seduto alla sua scrivania davanti alla solita libreria con gli imponenti volumi enciclopedici che ormai non consulta più nessuno in questa era dei computer, Luciano Fontana è tornato a lamentarsi del capo del governo.
Che pure, facendo un accordo con la minoranza del Pd sulla riforma del Senato ormai in votazione nell’aula di Palazzo Madama, ha in qualche modo accettato l’invito alle aperture fattogli proprio da lui, Fontana, in un editoriale che sembrò, anzi segnò la svolta nei rapporti fra il prudente successore di de Bortoli e Palazzo Chigi.
Evidentemente il compromesso di Renzi con Pier Luigi Bersani e compagni, sottoscritto dai rispettivi delegati, non ha convinto per niente il direttore del Corriere, come del resto si era capito a caldo nei giorni scorsi leggendo l’urticante e disincantato commento di Michele Ainis, il costituzionalista principe del giornale.
 
Fontana è rimasto dell’idea che la riforma del Senato non sia la priorità avvertita invece da Renzi, che le ha assegnato un cammino a tappe forzate, visti i tempi abituali del nostro bicameralismo ancora paritario, con il passaggio finale del referendum cosiddetto confermativo annunciato per l’autunno dell’anno prossimo, se non prima.


Ma, oltre a ribadire le sue riserve sulla riforma del Senato, il direttore del Corriere, calmissimo nonostante le tensioni esistenti nella redazione per un pesante piano di prepensionamenti e risparmi, con il ricorso ad uno stato di crisi per il quale non basta il consenso dei sindacati, ha contestato a Renzi l’assenza della “svolta” di cui il Paese ha bisogno.


Una svolta, ha ripetuto Fontana, non una lunga serie di “strappi”, non tutti condivisibili, per dimostrare il temperamento che certamente non manca al presidente del Consiglio.

Che intanto, in mutande davanti allo specchio, in una imbattibile vignetta di Giannelli, sempre sul Corriere, viene invitato in camera da letto dalla moglie Agnese ancora in camicia da notte a rendersi conto che per correre davvero deve decidersi a “buttare giù un po’ di grasso”, scritto in stampatello ma con la sola G intesa naturalmente con la maiuscola, visti i problemi che ha creato e può ancora creare al governo con la controversa riforma del Senato il presidente di Palazzo Madama.
 
Sarà un’assemblea infuocata quella che sabato e domenica prossimi andrà in scena alla Fondazione An.

Circa 700 membri dell’assise, convocati all’Hotel Midas di Roma (luogo di craxiana memoria), dovranno decidere sul futuro delle risorse che un tempo appartenevano ad Alleanza nazionale: circa 200 milioni di euro, una settantina liquidi e il resto in immobili, frutto del patrimonio accumulato dal Movimento sociale, prima, e dal partito di Gianfranco Fini, poi. Risorse su cui, ancora una volta, gli ex An si dividono.


LE MIRE DI ALEMANNO
Gianni Alemanno, infatti, guida una pattuglia di giovani che ha sottoscritto una “mozione dei quarantenni” per chiedere che le risorse vengano messe a disposizione di chi vuole ricostituire una nuova aggregazione di destra.

“Fratelli d’Italia non ha sfondato, è ferma al 4 per cento, mentre l’elettorato potenziale a destra può arrivare al 10. Quindi perché non usare quei beni per dare il via a un processo che da qui a un anno porti alla formazione di un’aggregazione che contenga tutte le sigle?”, è il ragionamento dell’ex sindaco di Roma.


LA SQUADRA ALEMANNIANA
Con l’ex sindacato ci sono giovani leve della destra come Francesco Biava, Sabrina Bonelli, Marco Cerreto, Fausto Orsomarso.

In appoggio anche qualcuno della vecchia guardia, come gli ex finiani Roberto Menia e Carmelo Briguglio.

“La fondazione non può diventare un partito, ma con le sue risorse può contribuire a generare una nuova forza politica, perché bisogna impedire che lo spazio lasciato vuoto da Berlusconi sia alla totale mercè di Salvini”, ha spiegato in più occasioni Alemanno.
 
IL FRONTE ANTI ALEMANNO
Alemanno però deve vedersela non solo con chi è storicamente contrario, ovvero gli ex An ora in Forza Italia come Maurizio Gasparri e Altero Matteoli, secondo cui la fondazione deve servire solo a preservare la memoria del Msi e di An, ovvero relegata a una sorta di museo, ma anche con chi a destra si muove, come Giorgia Meloni e Ignazio La Russa.

Che, per la cronaca, sono compagni di partito di Alemanno in Fratelli d’Italia.

Ma i rapporti, come si vedrà in seguito, non sono affatto idilliaci.


LE TENSIONI FRA MELONI E ALEMANNO
“Chi usa le risorse di An finirà in procura”, ha avvertito nei giorni scorsi Gasparri facendo balenare la possibilità di una denuncia per violazione della legge sul finanziamento pubblico ai partiti.

Mentre lo scorso fine settimana, a margine della festa di Atreju, l’assemblea di Fdi ha votato proprio su questa questione ed è passata la linea di Meloni contro quella di Alemanno. Con un bel po’ di polemiche.



“L’Assemblea nazionale di Fdi, convocata e svolta in modo confuso e improvvisato, si è conclusa con una votazione su un odg privo di ogni valore legale. Infatti, dopo aver strozzato il dibattito in pochissimi interventi, si è imposta una votazione in una sala piena di ospiti e presenze casuali, senza nessuna verifica del numero legale. Per questo i sottoscritti hanno preferito manifestare il proprio dissenso non partecipando a un voto il cui unico obiettivo sembra essere quello di un’indebita interferenza nella prossima Assemblea della Fondazione An”, hanno scritto in una nota i “quarantenni” Biava, Bonelli e Cerreto.

“Cara Giorgia”, dicono, “non è questo il modo per aggregare la destra”.



Alemanno e Meloni, dunque, sono ai ferri corti.

Secondo questo fronte, la Meloni teme che la formazione di una nuova forza a destra pregiudichi la sua leadership.

“Così, per scongiurare il rischio di essere tagliata fuori, si mette sulle stesse posizioni di Gasparri e Matteoli. Mentre una nuova aggregazione non potrà prescindere dal supporto di Giorgia”, racconta una fonte vicina ai “quarantenni”.
 
LE POSIZIONI DI FINI E STORACE
Nella partita si schiera anche Gianfranco Fini.

Il quale, in un editoriale sul sito “Libera destra”, fa capire di essere a favore della formazione di un nuovo soggetto politico.
Francesco Storace, invece, guarda da fuori.

“Non faccio parte dell’assemblea perché sono uscito da An prima del suo scioglimento”, spiega l’ex governatore del Lazio. “Detto questo faccio due considerazioni: da un lato mi lascia perplesso che a decidere sul futuro della destra sia gente che sta in Forza Italia o addirittura in Ncd; dall’altra sono altresì convinto che i partiti non nascono dalle fondazioni”.


QUESTIONE DI LOGO
Infine, last but not leaste, il prossimo week end l’assemblea dovrà decidere anche sull’utilizzo del simbolo: la concessione a Fdi è scaduta e la Meloni d’ora in poi non potrà più utilizzare il logo che fu di Alleanza nazionale.
 
Ventennio che vai, ponte che trovi. Si torna, dunque, a parlare del ponte di Messina.

Ora, gli italiani sanno già che si tratta della conferma che Renzi è un cazzaro così come il suo predecessore, e come i predecessori prima di lui.
Pensate che il primo articolo sul ponte di Messina è datato 5 Febbraio 1970.
Lo vedete in foto. È un ritaglio che custodisco per i miei nipoti quando sulla poltrona che guarda allo Stretto da Scilla e non da Cariddi, loro verranno a dirmi entusiasti che fanno il ponte.

E però non si può sorvolare. È cosa che rattrista profondamente.
Perché quella del ponte è proprio l’opera che potrebbe rimettere in moto l’intero paese.
Unire finalmente la Sicilia al resto dell’Italia, accelerando lo spostamento di persone e cose. Non esiste paese sviluppato che non abbia collegamenti ferroviari veloci.
E non c’è paese che non abbia costruito il suo benessere attorno a grandi opere d’ingegneria.

La Danimarca, che non è certo nota alle cronache per le infiltrazioni mafiose o per gli slogan di politici cazzari, sta per avviare il progetto di costruzione di un tunnel sottomarino che la collegherà alla Germania.
Un’opera che al tempo che fu esteticamente magnifico, quello dei primi del novecento, avrebbe avuto uno come Stefan Zweig pronto a farne una miniatura storica come in effetti fece all’epoca del varo dei cavi d’acciaio imbibiti di guttaperca e che resero possibili le comunicazioni da una parte all’altra dell’Atlantico.

Tutti i siciliani dovrebbero essere d’accordo a volere il ponte. E pretenderlo.
Sul ponte la Sicilia e i siciliani sono chiamati a una prova di maturità.
 
Curioso destino quello di Denis Verdini, e di quanti lo hanno seguito, o ne sono tentati, nell’abbandono di Silvio Berlusconi.


Staccatosi da Forza Italia per aiutare Matteo Renzi nell’eterno braccio di ferro con la minoranza del Pd, garantendo al presidente del Consiglio i voti necessari a non perdere la fiducia parlamentare al Senato in caso di rottura con i dissidenti interni, ora Verdini si trova impantanato in un’operazione di segno diametralmente opposto.

Che sarà più difficile, direi anzi impossibile spiegare e fare digerire agli elettori.


Verdini ora serve a Renzi non più per spingere la minoranza del Pd a preferire l’ennesimo compromesso alla scissione, ma per spegnere i fuochi nel partito di Angelino Alfano, anch’esso nato da una rottura con Berlusconi.


E’ un partito, quello del ministro dell’Interno, dove cresce la voglia di alzare il prezzo dell’alleanza di governo con il presidente del Consiglio su temi elettoralmente sensibili come la disciplina delle unioni civili, cioè delle coppie omosessuali, o elettoralmente meno sensibili ma ancora più vitali per un piccolo movimento: la difesa della propria sopravvivenza dai rischi del premio di maggioranza, introdotto nelle regole per il rinnovo della Camera a favore non di una coalizione, di cui gli alfaniani potrebbero o vorrebbero far parte anche con Renzi, ma della lista più votata.

Una lista nella quale il segretario del Pd e presidente del Consiglio, dovendo garantire la presenza della sua minoranza di sinistra trattenuta sulla strada della scissione grazie allo spauracchio dei voti sostitutivi di Verdini al Senato, ben difficilmente potrà aprire la porta a tutti gli alfaniani che dovessero aspirare ad entrare.
 

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