interessante articolo sui forconi
Ci saranno altri Forconi”
Pubblicato Martedì 10 Dicembre 2013, ore 9,00
Qual è il tratto della protesta che ieri ha tenuto in ostaggio Torino? Per lo storico Berta non si tratta di un fuoco di paglia: “Ormai basta una categoria per paralizzare la città. Le vertenze nelle fabbriche lasciano il posto alle rivolte dei padroncini" TRICOLORE e SALUTO ROMANO in piazza Castello
Erano pochi, ma sono stati in grado di paralizzare
Torino. Avevano argomentazioni confuse, ma attraverso la coercizione hanno imposto la linea a quasi tutti gli esercenti della città e dell’hinterland. Nel day after dei Forconi, con l'incognita di cosa succederà nelle prossime ore, ci si interroga sul Dna di un movimento che in tanti – probabilmente forze dell’ordine in primis – hanno sottovalutato. Una cosa è certa: la Torino delle grandi manifestazioni di massa, delle vertenze nelle fabbriche, della sinistra in piazza non esiste più, spazzata via dalla rivolta dei padroncini, dai poujadisti subalpini. Tornano alla mente manifestazioni come quella dei ragazzi con le magliette a strisce di piazza Statuto nel 1962, i blocchi stradali improvvisi alla fine degli anni Settanta. Ma questa volta sembra essere giunti a un punto di svolta nelle modalità e nei protagonisti della protesta.
«Episodi come questo sono destinati a moltiplicarsi con esiti sempre più incerti» spiega lo storico dell'economia
Giuseppe Berta. La miscela è esplosiva: «Abbiamo assistito alla saldatura tra una categoria, gli autotrasportatori, un nucleo organizzato di esercenti, e chi ha manifestato solo per menare le mani». Mercatali, camionisti, piccoli padroncini, ultras del calcio, centri sociali: c’era di tutto ieri in piazza. Quanto mai confuse le argomentazioni e le rivendicazioni di gente che tra loro aveva poco o niente in comune: l’unico collante era la rabbia, in un contesto di crisi economica, etica e politica in cui le classi dirigenti e le istituzioni hanno perso credibilità. «E poi c’è chi ci marcia su per sfruttare elettoralmente la protesta» diceva ieri da Verona il sindaco
Flavio Tosi, in attesa di raggiungere una
Torino assediata. In piazza c’era l’estrema destra, con
Forza Nuova e
CasaPound, ma non erano solo militanti della galassia extraparlamentare. Contro i palazzi e i poteri forti manifestava tra gli altri anche il consigliere comunale di Fratelli d’Italia
Maurizio Marrone, figlio del manager
Virgilio Marrone, per anni numero uno dell’Ifi, la cassaforte degli Agnelli, uno che è stato nei board dei più importanti centri di potere e al vertice di aziende della città, da Fiat a San Paolo. Il rampollo ieri era in piazza, con gli stessi che hanno assediato quel Palazzo Civico di cui lui stesso fa parte.
Insomma, c’era chi soffiava energicamente sul fuoco e mancava una forza di mediazione. «Questi episodi andranno a sostituire la mobilitazione sindacale e per questo sono ancora più pericolosi» afferma Berta, torinese ma docente nella milanese Bocconi. Rappresentano una conseguenza della crisi dei cosiddetti corpi intermedi:
associazioni datoriali, ordini professionali, sindacati. Quegli organismi che negli anni passati erano in grado di mobilitare e poi trattare con le istituzioni, di scatenare ma anche di governare una protesta. Ieri era tutto fuori dal controllo. Monadi impazzite, che scandivano cori da stadio in giro per Torino ("chi non salta del governo è").
«Oggi basta che una sola categoria blocchi i trasporti e le comunicazioni perché una città rimanga in ginocchio. Non è più una questione di numeri» prosegue Berta. Secondo molti tra quei manifestanti ha avuto un ruolo anche la criminalità, «insita in una attività esposta come quella dell’autotrasporto». Berta ne è certo: «Non siamo più di fronte a movimenti di massa, piuttosto di nicchia, ma non per questo fanno meno paura». Anzi.
E i paragoni, tutti impropri ma tutti così terribilmente evocativi, si sprecano. E allora dal registro della memoria tornano in vita i prolò dei primi anni Sessanta del secolo scorso e dal profondo Sud rieccheggia quel "Boia chi molla" di
Ciccio Franco che infiammò per quasi 8 mesi Reggio Calabria (slogan udito anche ieri, urlato da giovani poco più che adolescenti allevati alle coreografie da stadio). Ma è in quella Torino in chiaro scuro, nelle pieghe di quella città lunare e metafisica che nel 1970 vide sfilare la prima marcia antifisco, guidata da personaggi improbabili come l'editore
Sergio Gaddi, che va ricercato quel filo rosso (o nero che dir si voglia) che scavalca epoche e alimenta la propria sindrome di marginalità. E non è un caso che portavoce del "Coordinamento 9 dicembre" sia un agricoltore seguace di correnti mistiche, fondatore di una tecnica respiratoria in grado di connettere il corpo con lo Spirito.
Andrea Zunino non è un capopolo, non ne ha i tratti e neppure le ambizioni. E quand'anche lo volesse, quel manipolo eterogeneo che ieri ha tenuto in ostaggio Torino non lo consentirebbe, refrattario com'è a considerare la politica l'organizzazione degli interessi. E, infatti, mancano rivendicazioni credibili in questa protesta, credibili in quanto praticabili e ottenibili. E' la grande, ennesima sconfitta della politica. Da qui tocca ripartire.