Postato il 10/07/2014 da Pasquale Marinelli nella categoria Economia
Liberi di rifiutare lo stato
La scorsa settimana il
50,5% dei cittadini chiamati alle urne per il secondo turno delle elezioni dei sindaci dei comuni italiani
non ha votato (nel comune di Bari non ha votato il 63,85% dei baresi - perché al mare o allo stadio dove la squadra di calcio cittadina si giocava l'accesso in serie A). Stanno aumentando gli italiani i quali hanno compreso che ogni schieramento di partito protagonista della sciagurata politica nostrana è un covo di
farabutti o incapaci e, probabilmente, stanno anche comprendendo che, oggi, partecipare alle elezioni (a prescindere da chi si vota) significa soprattutto contribuire all'unico meccanismo giuridico che
legalizza la delinquenza e l'idiozia a governare in Italia.
Durante queste elezioni 2014, lo devo ammettere, mi sono divertito tantissimo a
provocare gli italiani in rete circa il fenomeno dell'astensionismo dal voto. I miei post in merito, pubblicati sul blog e sui social network, sono stati seguitissimi (vi ringrazio), a volte sono stati disprezzati a volte molto quotati e compresi: il bello della libertà di opinione!
Ma fra le tante frasi fatte e qualunquiste sprecate, le quali condannano chi non vota e per cui non mi interessa esprimermi oltre ciò che ho già avuto modo di disquisire, solo un lettore in particolare ha detto una cosa che mi ha fatto riflettere. Egli ha scritto: "[…] sarebbe il caso di
dare un senso al partito degli astensionisti, visto che è il primo partito in Italia […]".
Probabilmente, secondo questo commentatore, il senso da dare alla dilagante diserzione dalle urne sarebbe un senso politico. Io invece colgo questa occasione per provare a proporre, non un senso politico (la soluzione a questa Italia non è politica, è invece dapprima individuale e culturale), ma a considerare quelle che dovrebbero essere le
condizioni ideali da pretendere affinché l'astensionismo dal voto possa aver un senso.
Allora immaginate una società in cui il singolo cittadino abbia la possibilità di scegliere se servirsi dei servizi pubblici oppure no e, di conseguenza a tale scelta, che il cittadino sia
libero di contribuire oppure no allo stato che offre tali servizi. Chi non contribuisce al finanziamento dei servizi di stato non avrebbe né il diritto al voto né il diritto ad usufruire dei vantaggi dei servizi di stato (laddove ce ne fossero).
Lo so, qualcuno di voi lettori avrà già storto il naso. Ma vi assicuro che, per quanto estrema possa essere questa idea (e non lo è nemmeno così tanto rispetto a come io la pensi veramente), essa non è assolutamente campata in aria. Se avete la pazienza di seguirmi,
vi illustro il perché.
Per proporre una condizione in cui il cittadino sia libero di scegliere se contribuire o meno ai servizi pubblici io faccio riferimento all'osservanza di un
principio naturale che ritengo basilare per il rispetto della dignità dell'essere umano, a cui ogni stato, governo o costituzione, attualmente, non è mai soggetto, ma che invece dovrebbe rispettare e considerare sopra ogni cosa:
"niente e nessuno può violare l'altrui diritto di disporre del proprio corpo e dei propri beni"
Esso è un principio molto semplice che, in assenza del quale (o in presenza di inopportune deroghe), giustizia e pace fra gli individui sono in continua violazione.
Possiamo estrapolare da questo principio primario il seguente
corollario:
"niente e nessuno può agire contrariamente alla volontà di un altro individuo circa la sua proprietà"
Ciò cosa significa? Nel nostro caso significa semplicemente che, se riconoscete come veri e sacrosanti i principi di cui sopra, dovrete riconoscere come vero e sacrosanto anche il fatto che ogni imposizione fiscale perpetuata dallo stato sui redditi di proprietà di una persona, se contraria alla volontà di quest'ultima,
ha sempre violato il principio e il corollario su enunciati, dai quali invece si deduce che nessuno (nemmeno uno stato) può disporre dei redditi di proprietà altrui (ad esempio, attraverso l'imposizione delle imposte e contributi sui redditi di proprietà delle persone).
Ebbene, affinché tali enunciati non siano violati e la dignità dell'individuo sia rispettata, si dovrebbero
lasciare liberi i cittadini di non aderire allo stato per cui essi sono in disaccordo e non dovrebbe essere riconosciuto allo stato il potere di obbligare il cittadino all'adempimento fiscale senza prescindere dalla volontà di quest'ultimo. Quindi, costoro, in quanto contrari allo stato e ai servizi da esso erogati, non dovrebbero essere minacciati di pagare le tasse per finanziare i servizi pubblici non graditi, altrimenti i principi di cui sopra verrebbero scalfiti.
Quali sarebbero le
conseguenze di una simile condizione?
Innanzitutto, in un simile contesto, i cittadini si potrebbero ritenere
veramente liberi di poter destinare tutti i propri averi (e non solo una parte di essi) ad attività ritenute solo da essi più efficienti e necessarie, senza che qualcuno abbia il diritto di estorcergliene una parte contro la propria volontà, o che gli detti come destinarli.
In secondo luogo, i cittadini i quali decidono liberamente di non contribuire alle spese per i servizi pubblici ad essi non graditi, dovrebbero vedersi esclusi, non tanto dalla possibilità di usufruire dei servizi pubblici in sé, quanto dalla possibilità di usufruirne ai probabili più convenienti prezzi pubblici, i quali invece sarebbero riservati soltanto a chi è regolare contribuente dello stato. Chi non contribuisce alle spese pubbliche avrebbe comunque la possibilità di usufruire dei servizi pubblici ma, per essi,
solo ai prezzi di mercato.
Contestualmente, sarebbe doveroso pretendere che i mercati relativi ai servizi offerti dalla pubblica amministrazione siano
liberalizzati, nel senso che si dia la possibilità di erogare gli stessi servizi offerti dallo stato anche ad enti privati, senza che vi sia alcuna concessione di privilegi ad una categoria piuttosto che ad un'altra, senza che vi sia possibilità alcuna di costituire in questi mercati monopoli legali (quelli stabiliti per legge dallo stato).
Sarebbe di fondamentale importanza assicurarsi che lo stato eroghi i suoi servizi pubblici in
perfetta concorrenza con quelli erogati dai privati, affinché i servizi siano messi in
continua discussione e vengano continuamente migliorati. In libera concorrenza, i prezzi di mercato sarebbero
liberi di allinearsi con le reali disponibilità economiche di coloro che si rivolgono agli operatori privati anziché a quelli pubblici. A tale scopo, lo svolgimento delle attività degli operatori privati di questi servizi non dovrebbe essere
mai condizionata dal rilascio di abilitazioni da parte dello stato (se si lasciasse questo potere allo stato, ci sarebbe un conflitto di interessi da parte di quest'ultimo, per cui esso avrebbe la possibilità legale a suo favore - esclusiva rispetto al resto della concorrenza - di mettere il bastone fra le ruote al settore privato concorrente e impedire che quest'ultimo si sviluppi liberamente).
Tutto ciò per
dare la possibilità di usufruire dei servizi necessari alla propria vita, non solo a coloro che decidono liberamente di contribuire allo stato e ai suoi servizi, ma anche a coloro che, altrettanto liberamente, decidono di non contribuirvi e di rivolgersi privatamente.
Un'ultima conseguenza degna di considerazione è che, in un regime in cui uno stato non posa pretendere imposte e contributi dai cittadini a prescindere dalla loro volontà, questo stato sarebbe costretto a rendere sempre
appetibili, concorrenziali ed efficienti i propri servizi, affinché gli si riconosca un gettito fiscale dai cittadini. Inoltre, la sua funzione istituzionale nella società si ridurrebbe, rispetto a quella che noi oggi conosciamo, a quella di
garantire il minor interventismo statale nelle vite dei cittadini, per dedicarsi alla più utile attività di
scoperta delle consuetudini rispettate spontaneamente dalla società, così da renderle parte delle norme di diritto e di difenderle, il tutto al fine di rispettare la libertà degli individui e il principio naturale cardine su enunciato.
Ma veniamo alla mia risposta circa la questione che ha aperto il presente post: che senso dare al non voto?
In condizioni come quelle poc'anzi descritte, a coloro che non contribuiscono al finanziamento dei pubblici servizi, regolarmente e alle condizioni dello stato,
non dovrebbe essere consentito il diritto al voto, in quanto essi andrebbero considerati rinunciatari (per propria volontà) al sostegno della pubblica attività. È una condizione, questa, rispettosa soprattutto nei confronti di coloro che vogliono e sostengono lo stato, ed è logica e accettabile per chi, in disaccordo con uno stato per cui non ha interesse a finanziarne i servizi, dovrebbe essere tanto meno interessato a poterlo votare.
Quindi,
libertà di mercato e la
non obbligatorietà a contribuire alle spese pubbliche, come sopra intesi, sarebbero le condizioni ideali che darebbero un senso alla libertà di un cittadino a non partecipare alla votazione di uno stato con cui è in disaccordo. In altre parole, la libertà di mercato e la libertà di esprimere il proprio dissenso sono due condizioni che insieme, se poste correttamente in essere, danno un senso alla possibilità concessa ad un cittadino di negare l'esercizio del voto per uno stato non gradito.
Il post terminerebbe qui se non fosse per il fatto che, date le mie particolari doti di preveggenza, sono sicuro che più di qualcuno obietterà a quanto finora da me scritto, con
argomentazioni idiote alle quali rispondo di seguito, ancor prima che mi vengano poste. Al netto di ciò che segue, resto a disposizione, in sede di commenti a questo post, circa una discussione riguardante il
come mettere in pratica tutto ciò di cui vi ho parlato.
Prima obiezione: "se a ognuno si concedesse la libertà di non pagare le tasse è ovvio che non le pagherebbe più nessuno"
Se nessuno pagasse più le tasse, approfittando della libertà concessa a non pagarle, significherebbe che
tutti considerano lo stato inutile e incapace di offrire efficientemente i servizi utili alla vita in una società rispetto al più efficiente settore privato e, per questo, non meritevole di continuare ad essere finanziato con i soldi sudati dai singoli cittadini, i quali, sottraendosi dal pagamento di imposte e contributi, si rifiutano di contribuire all'inefficienza pubblica. Grazie a questa possibilità, quello stato sarebbe giudicato inutile (o dannoso) e, laddove ci fosse una necessità spasmodica ad avere per forza uno stato, in questo modo si manderebbe a casa lo stato inefficiente e si stimolerebbe la formazione di un altro stato
maggiormente a favore delle necessità dei cittadini, più velocemente di quanto non lo si possa fare attraverso cento, cinquecento, mille, diecimila consultazioni elettorali.
Seconda obiezione: "chi non desidera sottostare alle decisioni di uno stato con cui è in disaccordo, dovrebbe andarsene in un altro stato ad egli più favorevole, e non pretendere di rimanerci senza contribuire alle spese della collettività"
In una società libera, quella della fuga dallo stato non più gradito deve essere un'opzione concessa e mai ostacolata come oggi purtroppo avviene, perché osservante di un altro corollario (non oggetto di questo post): il
diritto all'autodeterminazione degli individui. Se si avesse l'arguzia di organizzare un paese secondo il più civile modello istituzionale adottato dalla vicina
Svizzera del quale, per ciò che interessa questo post, vi evidenzio la particolarità di esso nell'aver disegnato le proprie regioni (detti cantoni) ognuna con una propria
sovranità fiscale, in concorrenza con quella delle altre, questo principio sarebbe efficacemente rispettato, perché una pluralità di sistemi fiscali presenti nello stesso territorio darebbe l'opportunità di scegliere con più facilità e meno onerosità il luogo più adiacente alle proprie esigenze e disponibilità.
In uno stato accentratore come l'Italia invece, lasciare il proprio paese, non significa trasferirsi da una regione all'altra, ma emigrare in paesi con culture completamente distanti a quelle di origine. Ma questa non è una soluzione per tutti praticabile, per svariate ragioni, non necessariamente economiche, ma soprattutto affettive, formative, lavorative, psicologiche, ecc.. Se una società vuole ritenersi libera, civile e rispettosa della dignità dell'individuo, allora deve anche
concedere la possibilità di autodeterminazione a colui che ritiene di essere in grado di potersi servire da soggetti diversi da quelli pubblici (o da differenti soggetti pubblici). Dare a costui, come unica prospettiva, quella di abbandonare il luogo in cui risiedono le sue attività, i suoi affetti e i suoi patrimoni, è stupidamente sfavorevole per l'intero paese, perché ci si priva di una risorsa la quale, anche se ha deciso di non contribuire alle spese per il finanziamento dei servizi pubblici che non desidera usufruire, egli serve comunque la società svolgendo il suo mestiere, contribuisce comunque a far girare l'economia, può arricchire il territorio col suo talento e la sua sensibilità.
Terza obiezione: "secondo il tuo ragionamento, a chi non contribuisce alla spesa pubblica non dovrebbe essere consentito nemmeno il passaggio sulle strade pubbliche per cui egli non contribuisce alla loro manutenzione. Inoltre, come si escluderebbe costui da servizi pubblici come l'illuminazione pubblica visto che, non pagando le tasse utili per sostenere i costi collettivi dell'energia elettrica, egli non ne avrebbe diritto?"
Come già detto, colui che rinuncia ai servizi pubblici e che, secondo le condizioni ipotizzate nel post, può non contribuire alle spese pubbliche, costituisce comunque una risorsa per la società. Ad uno stato
non converrebbe impedire a costui la circolazione sulle strade pubbliche, o il godimento dell'illuminazione pubblica perché, così facendo, lo stato ostacolerebbe l'esperienza di vita di costui all'interno della società e rinuncerebbe all'occasione di far incrementare i redditi di coloro i quali hanno deciso di contribuire alle spese pubbliche. Infatti, non consentire a chi ha deciso di non contribuire alle spese pubbliche di percorrere le strade pubbliche (e di godere dei servizi annessi) ostacolerebbe l'interazione di egli con la società, a favore di quest'ultima. Di conseguenza, la società non approfitterebbe, per esempio, delle occasioni di spesa che costui farebbe nei negozi e nelle svariate realtà economiche della società, cosa che contribuisce alla formazione del reddito dei suoi componenti i quali, contrariamente a costui, hanno invece deciso di contribuire alle spese pubbliche, e su cui lo stato potrebbe calcolare maggiori imposte e contributi, che costituirebbero, a loro volta, maggiore gettito fiscale.
Per intenderci, è come se per le vie comuni di un grande centro commerciale, il gestore non consentisse alla gente di percorrere le sue vie illuminate e attrezzate perché essa non contribuisce direttamente alle spese di manutenzione (riservandole solo ai negozianti che pagano il fitto per esercitare la loro attività commerciale nei lotti del centro commerciale): così facendo, il gestore non consentirebbe ai negozianti di ricevere comodamente la clientela, grazie alla quale essi possono produrre un reddito e con esso riuscire a pagare il fitto. Se così fosse, il gestore
non farebbe il proprio interesse.
Attenzione: se coloro i quali abbiano deciso di non contribuire alle spese pubbliche, possedessero una proprietà nel territorio in cui abbia giurisdizione lo stato con cui essi sono in disaccordo, questi non sarebbero dei semplici locatari (come invece lo sarebbero i negozianti del centro commerciale di prima), essi sarebbero dei
proprietari a tutti gli effetti. E come tali, il rapporto fra essi e lo stato non sarebbe da considerare come quello fra locatari e affittuario, fra contribuenti ed esattore, fra servi e padrone, bensì come quello
fra proprietari di cose distinte. In considerazione di ciò, il regolamento dei rapporti fra essi e lo stato dovrebbe essere demandato alla
libera contrattazione fra le parti: lo stato come proprietario delle strade pubbliche, coloro che non contribuiscono alle spese pubbliche come proprietari della loro abitazione o dei locali in cui esercitano un'attività.
Buona riflessione.