il falso problema della “bassa inflazione”

tontolina

Forumer storico
Le bolle sono causate dalle banche centrali, non dalla “natura umana”

10 novembre 2014 di David Stockman
E’ ufficiale: ormai la narrativa mainstream riguardo i fatti attuali della vita economica è impazzita. L’ennesimo segno di squilibrio mentale lo ritroviamo questa mattina in un pezzo del Wall Street Journal sull’imminente triplo fondo dell’Europa. Sembra che l’intoppo che affligge il continente sia rappresentato da prezzi al consumo insufficientemente esuberanti:
I timori di una pericolosa bassa inflazione e una crescita debole continuano a pesare sui mercati, con i titoli europei che si schiantano e una fuga verso i titoli di stato tedeschi, i quali fanno segnare un altro record.
Che c’è di così “pericoloso” in un periodo temporaneo di stabilità dei prezzi al consumo e stipendi che conservano il loro potere d’acquisto? La risposta è: assolutamente nulla; ma i giornalisti di oggi sono così pigri e servili che si limitano semplicemente a copiare e incollare le panacee erogate dalle case da gioco del mercato finanziario e dai burocrati.
Infatti chiunque non sia rimasto in letargo negli ultimi 45 anni, non si torcerebbe le mani per una inflazione sommessa. Prezzi quasi stabili sono la grande eccezione. La tregua temporanea dal deprezzamento cronico del nostro denaro è una manna dal cielo; ci ricorda che prima dell’età moderna del settore bancario centrale, il presunto “pericolo” di prezzi stabili era considerato la norma.
Al contrario, il grafico seguente mostra quanto è successo al potere d’acquisto dei salari europei sin dal 1970. Sul grafico ci sono solo brevi intervalli, difficilmente rilevabili, in cui i prezzi o facevano brevi scatti verso l’alto o calavano di poco. Complessivamente, i prezzi al consumo sono aumentati dell’11X nel corso degli ultimi 45 anni. Detto in modo diverso, la maggior parte degli europei al di fuori della Germania ha sperimentato un calo del 90% nel potere d’acquisto durante la fase post-Bretton Woods della cosiddetta gestione monetaria illuminata.

In tempi più recenti, dopo la nascita della moneta comune negli anni ’90, la storia è simile. L’inflazione al consumo è stata costantemente bloccata tra l’1.5% e il 2.5%, tranne per brevi intervalli alla fine del 1990, tra il 2008-2009 e il presente, in cui l’indice dei prezzi al consumo è andato alla deriva verso lo zero o più sotto. Sì, in tutti e tre questi periodi o i prezzi mondiali del petrolio sono calati o l’Euro stava guadagnando forza.

In breve, in Europa non c’è possibilità di un problema endemico legato alla “deflazione”. Infatti, come mostrato di seguito, la spesa al consumo delle famiglie nell’area Euro-17 è nettamente calata dopo la crisi finanziaria. E’ salita ad un CAGR del 3.8% durante il 1995-2007, ma è rimasta sostanzialmente stabile rispetto al picco pre-crisi 2007.
Ora non date la colpa ad un crollo dell’inflazione. Quando le oscillazioni guidate dal petrolio e dalle valute si estendono su un periodo di tempo ragionevole, il tasso di aumento dei prezzi al consumo è più o meno uguale. Il CAGR per il periodo 1995-2007 è 1.9%, e la media degli ultimi sette anni è di circa 1.8%.
In breve, non vi è praticamente alcuna correlazione tra il grafico di seguito sulla spesa al consumo reale nell’area Euro-17 e l’oscillazione minore nell’l’indice dei prezzi al consumo mostrata sopra. I consumatori spendono di più in prodotti petroliferi e meno su altre cose quando i prezzi mondiali del petrolio sono in subbuglio; e viceversa quando il mercato mondiale del petrolio passa attraverso un periodo d’estasi. I cali di prezzo di breve termine del petrolio sono buoni per le compagnie aeree, gli hotel e i ristoranti — proprio come hanno l’effetto opposto e causano una riallocazione delle priorità di spesa delle famiglie durante i loro rialzi. Ma il conseguente impatto modesto e fugace sull’indice ICP, non ha nulla a che fare con gli ingredienti fondamentali della crescita economica.

Lo spauracchio della deflazione è in realtà neolingua keynesiana che sta per “ristagno economico” e “domanda aggregata” insufficiente. Nella loro saggezza, gli economisti keynesiani postulano che le economie hanno un tasso naturale di crescita, diciamo del 3%, e che, quando l’espansione del PIL scende al di sotto di tale tasso, significa che una cosa magica chiamata “domanda aggregata” debba essere stimolata. Naturalmente è compito della stampante monetaria dello stato compensare l’allontanamento dal PIL potenziale per mezzo di uno stimolo della spesa attraverso iniezioni fiscali dirette o attraverso il canale dell’espansione del credito.
Le chiacchiere su una inflazione troppo bassa sono solo un proxy per una domanda aggregata debole e quindi una politica di maggiore “stimolo”. Ma ecco un’altra cosa: la domanda aggregata è debole se la produzione è debole. L’unico modo in cui i consumi delle famiglie possono superare il tasso di produzione e la crescita dei redditi, è se i rapporti medi di leva sono in aumento, integrando in tal modo il reddito guadagnato con fondi presi in prestito o riducendo il tasso di risparmio. Come dovrebbe essere evidente ormai, aumentare il coefficiente di leva finanziaria è un buon trucco temporaneo, ma ad un certo punto i bilanci diventano saturi e il gioco finisce. L’Europa è arrivata a questo punto ormai, e anche il resto del mondo.
Invece dell’ICP, quindi, la misura migliore per i fondamentali economici è quella legata ai fattori dell’offerta(che riflettono la produzione e l’onere dell’intervento statale) e ai fattori di bilancio (che riflettono il trend dei rapporti di leva). Come mostrato di seguito, questi fondamentali, e non lo spauracchio dell’inflazione debole, spiegano perché l’Europa si sta dirigendo in una depressione a triplo fondo.
In primo luogo, la zona Euro non ha registrato alcuna crescita netta della produzione industriale sin dalla fine del secolo. Dopo il picco del prezzo del petrolio e la crisi finanziaria del 2008-2009, la produzione industriale ha stagnato al livello raggiunto prima della bolla mondiale del 2004-2008.

Le ragioni sono strutturali: al di fuori della Germania i salari in Europa sono troppo alti, le leggi sindacali troppo onerose e il welfare state troppo generoso per competere con il resto del mondo. In una parola, l’Europa non cresce perché il comparto dell’offerta è compromesso. I suoi tassi di consumo reali e la crescita del PIL sono piatti perché la produzione e il reddito non sono in espansione, non perché l’inflazione è troppo tiepida.

In secondo luogo, i governi e le famiglie europee hanno esaurito il loro spazio di manovra nei rispettivi bilanci: sono saturi. Di conseguenza, le metriche del PIL non vengono più stimolate tramite il trucco di prendere in prestito dal futuro (per mezzo di rapporti di leva in aumento). Quindi le metriche di spesa keynesiane legate alla contabilità del PIL sono ancora una volta ancorate all’economia reale della produzione e dell’offerta.
Il grafico sottostante rappresenta la media ponderata dell’onere del debito pubblico/PIL nell’area Euro-17. A meno che l’intera Europa non voglia volteggiare sopra la soglia del 100%, non ha semplicemente spazio per la ricetta keynesiana “prendi in prestito e spendi” ora spacciata dalle burocrazie del FMI e di Bruxelles come l’antidoto al falso problema della “bassa inflazione”.

Anche il settore delle famiglie è alla frutta.

Dopo l’impennata durante i primi anni del progetto euro, i rapporti di leva si stanno sgonfiando, cioè la spesa delle famiglie è ancora una volta vincolata al livello di produzione e di reddito.



Infine va osservato che le tasse hanno il loro prezzo. Nonostante il modo eccentrico in cui l’ufficio statistico europeo presenta i suoi numeri, è evidente che il cuneo fiscale sulla produzione è in aumento.

Quindi c’è una ragione per cui l’Europa viene lasciata indietro rispetto alla crescita tiepida nel resto del mondo; e non ha ancora recuperato il livello di produzione reale del 2007. Di sicuro non perché l’ICP dell’area Euro, a causa di un euro forte, sta temporaneamente scendendo e i prezzi del petrolio stanno diminuendo (che rappresentano gran parte del rallentamento dell’inflazione): sveglia gente è colpa dell’offerta e dei bilanci!


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traduzione di Francesco Simoncelli: Johnny Cloaca's Freedonia

da Freedonia di Johnny Cloaca
 
L’origine inflazionaria della deflazione
giovedì, febbraio 16, 2012 di Marco Bollettino
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Senza entrare nei dettagli sul perchè la deflazione sia buona, cattiva o benigna dobbiamo prima comprendere quale sia la sua origine (Per chi fosse interessato agli effetti positivi della deflazione sono disponibili il libro di George Selgin “Less than Zero: The Case for a Falling Price Level in a Growing Economy” e quello di Philipp Bagus’s “Who’s Afraid of Deflation?”)

A rigor di termini, inflazione e deflazione possono avere origine solo da variazione del quantitativo di moneta nell’economia. Un aumento della quantità di dollari causa, a parità di altri condizioni, prezzi più alti. Una diminuzione del numero di dollari ha invece un effetto opposto. Mentre episodi inflazionistici possono accadere sotto qualsiasi regime monetario, la deflazione (1) può avvenire soltanto in un sistema bancario a riserva frazionaria.

Una volta il sistema bancario era costruito sul concetto di riserva piena sui depositi. Qualcuno portava i suoi sudati risparmi in banca, li depositava in cassaforte e la banca prometteva di custodirli sino a quando la stessa persona non fosse tornata per chiederli indietro. Poiché il denaro è un bene fungibile (non possiamo distinguere una moneta da un’altra, un po’ come per i chicci di grano), la banca prometteva di tenere il tantundem, una somma equivalente per quantità e qualità a quella depositata. Se avessi depositato un dollaro, la banca avrebbe promesso di custodire quel dollaro in cassa ma non necessariamente mi avrebbe restituito proprio lo stesso dollaro depositato.

Ad un certo punto il mondo delle banche adottò quello che noi oggi chiamiamo sistema a riserva frazionaria. Alle banche non era più richiesto di custodire tutti i depositi nella loro interezza. Dopotutto era raro che tutti quanti andassero a ritirare i loro depositi contemporaneamente. Le banche potevano prestare una frazione dei depositi, creando quindi dei “diritti di proprietà di denaro” in quantitativo superiore alla moneta effettivamente esistente (2).

La Federal Reserve oggi stabilisce quello che chiamiamo coefficiente di riserva obbligatoria per le banche. Questa è la percentuale minima di tutti i depositi che deve essere sempre mantenuta nei forzieri delle banche a beneficio dei loro clienti. Quindi se uno di loro apre un conto presso una banca americana e deposita 100$, il coefficiente di riserva stabilice quanti dollari la banca è costretta legalmente a tenere nei suoi forzieri. Può fare ciò che vuole del resto. Tipicamente quel denaro viene prestato a chi fa richiesta per ottenere un credito.

Oggi il coefficiente di riserva richiesto dalla Fed è vicino allo zero. Quindi le banche americane (3) hanno pochissimi obblighi di salvaguardia o di custodia su ogni deposito che viene fatto. Il cliente ipotetico dell’esempio precedente avrebbe potuto vedere quasi tutti i soldi che aveva depositato venir prestati a qualcun altro nel momento stesso in cui li affidava alla banca.

In molti pensano che questa sia una questione controversa. La banca mantiene sempre una piccola riserva come precauzione nel caso in cui i suoi clienti vengano a chiedere indietro i loro depositi. E quando le cose vanno bene ed i mercati sono molto liquidi, non sembra che ci siano particolari problemi con questo sistema. Tuttavia provate a chiedere ad uno dei clienti delle 92 banche che sono diventate insolventi nel 2001 se per lui questo sistema “a riserva frazionaria” sia una questione controversa. Quando i mercati si ritrovano in crisi di liquidità, diventa sempre più difficile, se non direttamente impossibile, ripagare tutti i depositi.

Mentre questo è un problema che viene comunemente associato con il sistema bancario a riserva frazionaria – un problema su cui tutti gli economisti sono d’accordo – c’è un punto aggiuntivo che non è meno importante.

Poichè soltanto una frazione dei depositi viene mantenuta dalle banche sotto forma di riserve, a queste ultime è concesso creare più denaro (più correttamente dovremmo parlare di moneta fiduciaria) di quanta moneta cartacea effettivamente esista. Questo incremento nell’offerta di moneta è ciò che mette in moto quel processo inflazionario di cui abbiamo parlato prima e che le banche centrali tentano di contenere intorno a valori tra il due e tre percento.

Quello che non viene compreso è che ogni periodo di deflazione è il risultato di una precedente inflazione monetaria. Come ha scritto Murray Rothbard in Man, Economy and the State:

Chiaramente, l’inflazione è l’evento principale e lo scopo principale dell’intervento monetario. Non ci può essere deflazione senza che un periodo di inflazione l’abbia preceduta. (p.990)
Il fenomeno che spaventa i banchieri centrali di tutto il mondo, e che vogliono combattere con tutti i mezzi a loro disposizione – la deflazione – è in realtà una loro creazione. Senza quel periodo di inflazione che ci ha condotto a questo punto, non ci potrebbe essere nessuna minaccia di deflazione. Il sistema bancario a riserva frazionaria permette quell’espansione della quantità di moneta che creerà le condizioni per il periodo di deflazione successivo. Se dobbiamo considerare la deflazione come qualcosa di indesiderabile (e vorrei enfatizzare il termine “se”), allora sarebbe utile eliminarla del tutto. Mettere fine al sistema bancario a riserva frazionaria eliminerebbe contemporaneamente la causa primaria che conduce ad un periodo di deflazione: l’inflazione.

Se i provvedimenti della Fed e delle altre banche centrali nei tre anni passati sono sembrate confuse non dovremmo essere troppo sorpresi. Stanno combattendo un nemico – la deflazione – che è una loro creazione. Pur di non ammettere le loro responsabilità, stanno cercando di coprire le loro tracce dando vita a provvedimenti sempre più fantasiosi ed implausibili. Invece, ciò che sarebbe necessario fare è proprio cambiare quel sistema bancario a riserva frazionaria che ci ha condotto a questo disastro.

Articolo originale di David Howden

Note
(1) Si intende deflazione monetaria, non dei prezzi.
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L'origine inflazionaria della deflazione - Ludwig von Mises Italia

Deflation's Inflationary Source - David Howden - Mises Daily
 

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