IL PROBLEMA E' LA NOTTE, IL BUIO FA LUCE A TROPPI PENSIERI.

Dove abbiamo i decessi ?

40 - 49 anni = 273 decessi. Su 29.942 infetti = 0,9%

50 - 59 anni = 1.109 decessi. Su 41.435 infetti. = 2,7%

60 - 69 anni = 3.259 decessi. Su 30.880 infetti. = 10,6%

70 - 79 anni = 8.562 decessi. Su 33.141 infetti.

80 - 89 anni = 12.980 decessi. Su 40.532 infetti.

superiori ai 90 anni = 5.415 decessi. Su 18.602 infetti.

E da 70 anni in sù, chi di noi non ha "altre patologie" pregresse ?
Non ho 70 anni, ma ne ho almeno 3 in corso.
 
E qui cade il discorso legato agli insegnanti.

Quanti insegnanti ci sono con età superiore a 60 anni ?
Una cifra ridicola. Perchè sono già (quasi) tutti in pensione.
 
Dati aggiornati al 3 giugno

0-9 50%

0,3%
10-19 00%

0%
20-29 150%

0,1%
30-39 630,2%

0,3%
40-49 2790,9%

0,9%
50-59 11333,5%

2,7%
60-69 330710,2%

10,6%
70-79 867726,8%

25,9%
80-89 1323340,9%

32,4%
>90 564117,4%

29,9%
Non noto 10%

2,2%
Totale 32354100%
 
Nella lontana metà degli anni Settanta, Salvatore Satta, giurista assolutamente geniale coraggiosamente propenso a dire la verità in pubblico, e perciò anche sulle riviste specializzate, se ne fece una tutta sua e la chiamò “Quaderni del diritto e del processo civile”.

Praticamente se la scriveva da solo, per il semplice motivo che ben pochi suoi colleghi, pur valenti ed apprezzati giuristi, ntendevano condividerne la spregiudicatezza e l’ardimento intellettuale, che invece in lui altro non erano che le dimensioni costitutive della sua coscienza morale e giuridica.

Ne uscirono ovviamente pochi numeri – appena sei – come non poteva non essere; eppure, se gli studenti di giurisprudenza
- invece di assopirsi su noiosissimi tomi ripieni del nulla o faticare per decodificare una massima della Cassazione di sedici righe,
ma senza neppure un punto e virgola – dedicassero ancor oggi un poco di tempo alle pagine di questa rivista, la loro mente si aprirebbe.


Ma cosa scriveva Satta di tanto interessante?

Scriveva la verità delle cose, che a lui e ad altri – che però preferivano tacere – appariva già chiara e manifesta
e cioè che il Consiglio Superiore della Magistratura era organo che, invece di difendere l’indipendenza dei magistrati,
di questa indipendenza costituiva la minaccia più concreta.



Profetiche parole quelle di Satta e soprattutto vere.


Infatti, già a quel tempo, le correnti, nate da pochi anni, erano operative e facevano sentire i loro nefandi effetti
sulla organizzazione dell’amministrazione della giustizia e Satta non poteva che denunciare questo pericolo gravissimo,
vedendo non solo i guasti di quel momento ma anche quelli futuri che oggi sono sotto gli occhi di tutti.

Il più grave sta nel fatto che appunto il Csm quale organo costituzionale ha tralignato dalle proprie funzioni,
in quanto gravemente contaminato dalle correnti contrapposte e dalla loro inarrestabile contesa accaparratrice.

In questa situazione, oggi palese, sostengo che il Capo dello Stato, Sergio Mattarella,
non solo abbia il potere di sciogliere il Csm, ma, contrariamente al parere di tutti i costituzionalisti, ne abbia perfino l’obbligo.

La legge, in proposito, stabilisce soltanto che egli può sciogliere il Csm nel caso di suo non funzionamento.

Da questa disposizione, i costituzionalisti desumono che, siccome dal punto di vista pratico – cioè numerico – il Csm,
nonostante gli scandali, le dimissioni e le successive integrazioni, ancora sia in grado di funzionare,
cioè di esprimere una valida maggioranza, qualunque essa sia, allora Mattarella non possa scioglierlo.

Però, non ci vuol molto a capire che il Csm, in quanto organo di rango pienamente costituzionale,
non è per nulla parificabile ad una assemblea di condominio o ad un consiglio di amministrazione di una società,
ove si bada essenzialmente alla possibilità di comporre delle maggioranze, in grado di garantire il loro funzionamento.

Infatti, requisito fondamentale di ogni organo costituzionale (Governo, Parlamento ecc.)
è la sua credibilità sociale e politica ed è proprio per questo che il suo “funzionamento”
è costituito anche da questa dimensione, mancando la quale, esso letteralmente “non funziona”.



Che farsene infatti di un Governo che, per scandali vari, colpito da dimissioni e polemiche intestine,
da azioni giudiziarie ed intercettazioni scandalose – come l’attuale Csm – fosse del tutto squalificato dal punto di vista della sua credibilità politica?

Tutti, ma proprio tutti, ne invocheremmo le dimissioni e il Parlamento lo sanzionerebbe con la sfiducia.

Non solo.

Per il Csm, va registrato qualcosa di ancor più grave che ne mina in modo irrimediabile la credibilità.

Esso infatti, nel disegno costituzionale, svolge funzioni delicatissime in ordine alle sanzioni a carico dei magistrati,
ai trasferimenti, alla assegnazione dei posti direttivi, ma non gode di alcuna funzione rappresentativa:
non è un organismo chiamato a rappresentare i magistrati.


Eppure è proprio questo che oggi accade.

Innervato, dominato, lottizzato, soffocato dalle correnti contrapposte,
il Csm ha assunto una autentica funzione rappresentativa delle stesse e, attraverso esse,
dei magistrati, arrogandosi in via di fatto un ruolo che in punto di diritto nulla e nessuno gli concede.

Ciò produce una gravissima patologia del sistema costituzionale, con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti.

In altre parole, la credibilità sociale e la fedeltà al proprio ruolo sono parte integrante del “funzionamento” del Csm,
in quanto organo costituzionale, non potendosi tutto ridurre ad un calcolo ragionieristico/aritmetico
circa i numeri necessari per formare una qualunque maggioranza:

limitarsi a questo, come oggi intendono i costituzionalisti, sarebbe puerile perché si ignora in tal modo
che qualunque maggioranza del Csm, oggi, nasce già avvelenata, portando nel proprio grembo il proprio destino di autodissoluzione sociale e politica.

Come dicevo, il Csm non è una assemblea di condominio e per questo Mattarella ha l’obbligo di scioglierlo
(ferma restando ovviamente una nuova legge elettorale da varare al più presto).

Che forse esiti a farlo per timore di compromettersi politicamente,
cosa che il Quirinale deve evitare in modo assoluto per mantenere il ruolo di garante “super partes”?

Se Mattarella ciò temesse, conforterebbe la mia tesi, in quanto riterrebbe che il Csm goda di fatto
di una rappresentatività politica delle correnti e che perciò ogni suo intervento inciderebbe su tale dimensione politica,
macchiando la verginità del Quirinale.

Vero.

Ma è proprio tale rappresentatività politica che il Csm non può in alcun caso possedere, perché stravolge il disegno della Costituzione.

Sarebbe come se il Cnel – Consiglio nazionale della economia e del lavoro – altro organo costituzionale,
peraltro di rilievo assai più ridotto del Csm, si mettesse in testa di rappresentare politicamente categorie di imprenditori
e di sindacalisti organizzate in correnti contrapposte, facendosi da queste dominare ed occupare e comportandosi di conseguenza.

Sarebbe tollerabile per il Quirinale?

Sciogliendo un organo costituzionale gravemente “malato” di rappresentatività politica surrettizia e antigiuridica,
Mattarella non rischia di compromettersi politicamente, ma adempie ad un dovere imposto dal suo ruolo, quello di garante della Costituzione.

Che qualcuno lo dica ai nostri costituzionalisti, troppo impegnati forse a destreggiarsi nei labirinti della loro scienza (del diritto),
per prestare orecchio alle esigenze della coscienza (del giurista).

Ma quella, senza di questa, è meno che nulla.
 
Del tutto consapevoli che in questo momento storico c’è un crescente numero di italiani
disposti a bersi qualunque scemenza, così come dimostra la vicenda del più assurdo lockdown d’Occidente,
i maghi al potere si sono inventati l’ultima di una lunga serie di pagliacciate: gli Stati Generali.


Ovviamente l’iniziativa, che ha fatto letteralmente imbestialire l’intero stato maggiore del Partito Democratico,
sembra il frutto di una “profonda” elaborazione della coppia sempre più sola al comando:
il premier Giuseppe Conte e il suo spin doctor Rocco Casalino.

Ora io vorrei proprio evitare di commentare le finalità dell’iniziativa medesima,
sbandierate ai quattro venti da chi oramai sembra averci preso gusto nel trattare come mentecatti i cittadini di questo disgraziato Paese,
arrivando persino a dire, come ha fatto nell’ultima conferenza stampa, che grazie ai sacrifici imposti agli stessi cittadini
in Europa ci possiamo permettere il lusso di riaprire prima di tanti altri.

Cosa naturalmente del tutto destituita di fondamento, visto che a tutt’oggi,
mentre ovunque ha da tempo ripreso persino l’attività scolastica,
noi stentiamo a tornare alla normalità, paralizzati da una paura irrazionale
indotta e da una serie infinita di protocolli, uno più demenziale dell’altro,
elaborati dalla pletora di task force in servizio attivo permanente.



Quello che invece mi preme sottolineare è proprio la stupefacente disinvoltura con la quale Conte utilizza la parola vuota per imbonire il popolo.

Attività tipica di chi fa politica in queste lande desolate.

Tuttavia l’avvocato del popolo ha spinto una simile inclinazione al di là di ogni possibile immaginazione.

Oramai ci troviamo nella condizione, descritta mirabilmente in “Totem e tabù” da Sigmund Freud,
del primitivo che tendeva ad utilizzare la parola come funzione magica,
immaginando di modificare la realtà circostante con una qualche formula verbale.

Ma in realtà, al pari del truffatore che spaccia assegni a vuoto, l’intera narrazione dell’uomo
che ci ha chiuso agli arresti domiciliari per due mesi con totale nonchalance,
è da sempre priva di qualsiasi copertura concreta.

Una sorta di infinito campionario di sogni nel cassetto, che tali resteranno,
con cui tenersi a galla nel marasma politico che egli stesso sta grandemente contribuendo ad alimentare.



In questo senso, egli può permettersi il lusso di restare in piedi, pur nell’ambito di una linea di governo assolutamente catastrofica,
solo grazie al fatto che facciamo parte dell’Unione europea e della moneta unica.

Altrimenti, dopo un blocco dell’economia tanto insensato e una gestione altrettanto insensata di una epidemia
che di fatto non c’è più ma che prosegue a oltranza, il sistema nel suo complesso sarebbe finito nel baratro di una colossale bancarotta.



Tuttavia ogni cosa prima o poi raggiunge il suo limite.

E se quello della decenza è stato ampiamente superato dalla coppia fantastica che occupa la stanza dei bottoni,
noi liberali comunque una domanda ce la stiamo ponendo da tempo, soprattutto a nome di chi ancora tira la carretta in Italia:

quousque tandem abutere, Conte e Casalino, patientia nostra?
 
L’istantanea del Movimento Cinque Stelle di questa stagione della politica è una foto confusa, ambigua, distonica.

Visto in superficie, il Movimento è un’armata allo sbando.

La catena di comando, con l’avvento del “burocrate” Vito Crimi al ruolo di capo politico, è spezzata.

Le truppe parlamentari grilline obbediscono ai comandi del premier Giuseppe Conte
per il terrore che il Governo rosso-giallo possa crollare sotto il peso delle sue contraddizioni
e loro essere rispedite a casa con biglietto di sola andata.

I pentastellati di superficie somigliano a un boxeur che continua a prendere pugni senza reagire.

Un pugile, però, a cui non importa più l’esito finale del match ma soltanto la possibilità di arrivare ancora in piedi all’ultimo gong.

Il prossimo jab che i grillini si preparano a incassare è il ricorso all’indebitamento con il Meccanismo europeo di stabilità (Mes).

Gli alleati del Partito Democratico, supportati dai renziani,
stanno esercitando una pressione fortissima su Conte perché accetti il prestito
nonostante i rischi di una ricaduta negativa che tale scelta potrà avere sull’autonomia decisionale dell’Italia
e sul merito di credito del nostro debito sovrano presso i mercati finanziari.

Per i grillini il “no Mes” è un totem del loro armamentario ideologico
.

Cambiare rotta anche su questo punto, un tempo non negoziabile, fornirebbe la prova definitiva
della rinuncia alla propria identità in cambio della sopravvivenza al potere della sua classe dirigente.

Tuttavia, questa è solo una parte dell’immagine che il Movimento proietta all’esterno.

C’è n’è un’altra, più offuscata, che ritrae tutto ciò che si muove sotto la superficie del grillismo.

Si tratta di correnti sottomarine che scuotono il fondale del Movimento, dove incrociano pesci che indugiano a emergere.

Il più insidioso di questi è Alessandro Di Battista.

Non sono pochi i pentastellati che reclamano da tempo il suo ritorno.

Ciò che sconcerta del “descamisado”, che per qualche momento nella vita si è illuso di essere un Ernesto “Che” Guevara redivivo,
è l’indecifrabilità della volontà.

Il “Dibba” tornerebbe per fare cosa?

Non per far cadere il Conte bis perché sarebbe un suicidio.

Neppure per rafforzare il processo di confluenza del grillismo nel corpaccione della sinistra egemonizzata dal Pd.

Men che meno per farsi interprete di un “contrordine compagni!” in favore della Lega.

Allora cosa?

Per Di Battista si profilerebbe la missione di riequilibrare i rapporti di forza con gli alleati “dem”.


Da semplice militante nessuno lo prende in considerazione, ma se, a furor di piattaforma digitale “Rousseau”,
fosse eletto capo politico del Movimento in luogo del diafano Crimi,
Di Battista darebbe il meglio di sé recitando il copione del rompiscatole che sta con un piede nel Governo e con l’altro fuori.

Praticamente, strapperebbe la parte in commedia a Matteo Renzi.

E il dissidio con Luigi Di Maio?

Tutta scena.

Il ministro degli Esteri non aspetta altro che si ricomponga la coppia al comando per arginare lo strapotere di Conte.

I due riproporrebbero la manfrina del poliziotto buono e quello cattivo
per costringere gli alleati a riconoscere nel vertice politico dei Cinque Stelle l’unico interlocutore,
portatore di un effettivo peso contrattuale, nelle dinamiche dell’azione di governo.

Attualmente decide tutto Conte, che neanche si preoccupa più di consultare il partito che lo ha espresso;
domani, con Di Battista leader politico del Movimento sarebbe oggettivamente un’altra musica.

Lo statista per caso Giuseppe Conte, a cui l’emergenza da coronavirus ha dato alla testa,
sarebbe ricacciato nell’angusto ruolo notarile delle scelte prese da altri.

Ruolo al quale un arrembante Di Maio aveva pensato di relegarlo già ai tempi della prima esperienza di governo con la Lega di Matteo Salvini.

Se qualcuno volesse cercare d’indovinare la collocazione ideologica del Dibba sprecherebbe tempo.

Lui non è di destra e non è di sinistra.

Il brodo di coltura in cui possa liberare le sue potenzialità è il caos.

Più la situazione si mostra confusa, maggiore è l’efficacia della sua vis polemica.


Di Battista riuscirebbe benissimo nella schizofrenica modalità di essere al Governo con “Italia Viva”
e, nello stesso momento, dare impunemente del farabutto a Matteo Renzi,
in una sorta di sdoppiamento della personalità che, a ben vedere, è il modus agendi di Beppe Grillo e dei suoi adepti in politica.

Il ritorno del mancato eroe dei due mondi consentirebbe il cambiamento dello schema di gioco.

Per questa ragione si fanno più pressanti le richieste di convocazione degli Stati generali Cinque Stelle per l’elezione del nuovo capo politico.

Il quadro delle correnti attive all’interno del Movimento ne uscirebbe più nitido:

un’ala destra stabilmente presidiata da Luigi Di Maio,

una ultra sinistra di testimonianza affidata alla figura mediocre di Roberto Fico,

una ridotta di pretoriani di Giuseppe Conte schierata a ultima difesa del premier

e una componente movimentista, capitanata da Di Battista, pronta a stupire scartando dal percorso tracciato.


Un tale assetto metterebbe in seria difficoltà il padre-padrone Beppe Grillo che lo scorso anno,
dopo la rottura dell’intesa con la Lega, aveva imposto una exit-strategy che portasse il Cinque Stelle dritto alla confluenza nel Partito Democratico.

I rumors di palazzo confermano che la resa dei conti in casa Cinque Stelle sarebbe inevitabile dopo la tornata delle elezioni regionali
che ne segneranno l’ennesimo crollo elettorale.

Sull’onda della batosta prossima ventura per i pentastellati sarà conseguenziale invocare l’uomo della Provvidenza
da portare sugli scudi in vista della palingenesi.

Ora, le ipotesi sono ipotesi: tutte legittime, nessuna detentrice di verità.

Tuttavia, una cartina al tornasole per verificare l’attendibilità dello scenario delineato esiste.

Basterà osservare il comportamento di Luigi Di Maio in relazione alle candidature a capo politico.

Se nella rosa degli aspiranti dovesse mancare il suo nome ma esserci quello di Alessandro Di Battista,
vorrebbe dire che l’accordo con la divisione dei ruoli è stato trovato a spese del premier Giuseppe Conte.

E di Beppe Grillo.

Il tutto per centrare il solo vero bersaglio che sta a cuore a tutta la classe dirigente grillina:
tenere in piedi la legislatura fino alla scadenza naturale del 2023, anche a dispetto della volontà degli italiani.


.
 
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Il covid-19 si abbatte sui Comuni per 1,6 miliardi.

È l’ammontare dei minori tributi incassati negli ultimi due mesi dell’anno in corso
rispetto allo stesso periodo del 2019, pari ad una contrazione del 65,4%.

In Toscana, Emilia-Romagna, Puglia, Sicilia e Veneto gli enti locali con le casse “più sofferenti”.

Secondo il presidente di Demoskopika, Raffaele Rio,

“lo scenario è di progressiva perdita di liquidità. Le misure previste finora nel decreto Rilancio sono necessarie ma insufficienti.
Numerosi Comuni rischiano il dissesto”.



Nel bimestre marzo-aprile del 2020, le casse degli enti locali
hanno subìto una corposa sforbiciata di oltre il 65% delle entrate derivanti dai principali tributi locali:
oltre 1,6 miliardi di euro in meno rispetto agli stessi mesi del 2019.

La diminuzione degli incassi è stata mediamente pari a 207 mila euro per ciascun ente comunale italiano:
si va dai 536 mila euro della Toscana ai 35 mila euro del Trentino-Alto Adige.

Quasi il 70 per cento dei minori introiti tributari, pari a 1.119 milioni di euro,
sono attribuibili alla mancata riscossione dell’imposta unica comunale (IUC).

È quanto emerge da uno studio di Demoskopika che ha confrontato gli incassi dei Comuni italiani
del periodo marzo-aprile del 2020 con lo stesso periodo dell’anno precedente rispetto ai principali tributi locali:
addizionale Irpef, imposta municipale propria (IMU), tassa sui rifiuti (TARI), tributo per i servizi indivisibili (TASI),
tassa di occupazione di spazi e aree pubbliche (TOSAP-COSAP), imposta di soggiorno e imposta comunale sulla pubblicità (ICP).

La fonte utilizzata – precisa la nota di Demoskopika – è il SIOPE, il sistema informativo sulle operazioni degli enti pubblici,
nato dalla collaborazione tra la Ragioneria Generale dello Stato, la Banca d’Italia e l’Istat,
che rileva telematicamente gli incassi e i pagamenti effettuati dai tesorieri di tutte le amministrazioni pubbliche.

“L’emergenza sanitaria si è inevitabilmente abbattuta anche sulle entrate comunali
producendo effetti negativi sui sistemi economici locali e, soprattutto, mettendo a rischio alcuni servizi essenziali,
non ultimo quello della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti.
È ipotizzabile che, nel prossimo periodo, tra rinvio del pagamento dei tributi e difficoltà di pagamento per imprese e lavoratori,
si consolidi uno scenario di progressiva perdita di liquidità per gli enti locali che potrebbe costringere molti amministratori comunali
al taglio dei servizi o, peggio ancora, alla dichiarazione del dissesto finanziario.
In questo allarmante contesto – conclude Raffaele Rio – le misure previste finora nel decreto Rilancio sono necessarie ma ancora insufficienti.
Bisogna fare di più”.


Anche i Comuni italiani entrano in crisi di liquidità.

In soli due mesi, da marzo ad aprile dell’anno in corso, il covid-19 ha travolto anche le casse comunali
con una sforbiciata di ben 1.639 milioni di euro di mancati incassi, pari al -65,4%,
derivanti dai principali tributi locali rispetto allo stesso periodo del 2019:
dai 2,5 miliardi di euro del 2019, agli 867 milioni di euro del 2020.

Ben 684 milioni di mancati incassi tributari, pari al 41,7% dell’ammontare complessivo rilevato, sono ascrivibili all’imposta municipale propria (IMU).

A seguire la tassa sui rifiuti (TARI) che ha generato un minor gettito per le casse comunali pari a oltre 429 milioni di euro (26,2%)
e l’addizionale Irpef con minori introiti per 328 milioni di euro (20,1%).

E, ancora, una contrazione delle entrate tributarie è stata registrata con la tassa per l’occupazione di spazi e aree pubbliche (- 92 milioni di euro),
con l’imposta comunale sulla pubblicità (- 63 milioni di euro), con l’imposta di soggiorno (- 37 milioni di euro)
e, infine, con il tributo per i servizi indivisibili (- 5 milioni di euro).

Ognuno dei quasi 8 mila comuni italiani ha subìto una contrazione media delle entrate tributarie pari a poco più di 207 mila euro.

Spostando l’osservazione sul livello regionale emerge un quadro abbastanza differenziato.

In particolare, sul podio delle casse più “prosciugate” si posizionano i Comuni di tre realtà regionali: Toscana, Emilia-Romagna e Puglia.

In particolare, in Toscana, i Comuni registrano una flessione degli incassi pari mediamente a 536 mila euro per ente locale (-74,3%)
quantificabile in oltre 146 milioni di euro immediatamente seguito dall’Emilia-Romagna,
i cui Comuni hanno registrato mancati incassi per 421 mila euro (-70,2%) pari a 138 milioni di euro in valore assoluto.

A chiudere questo primo raggruppamento, gli enti locali della Puglia,
le cui mancate risorse finanziarie ammontano mediamente a 375 mila euro per Comune (-62,6%) pari a 96 milioni di euro in valore assoluto.

Sul versante opposto, ad aver subìto minori contraccolpi negli ultimi due mesi dell’anno in corso,
risultano i Comuni del Trentino-Alto Adige con una flessione degli incassi tributari
pari mediamente a poco meno di 35 mila euro per ente locale (-43,9%) quantificabile in quasi 10 milioni di euro.

A seguire gli enti locali del Molise con una riduzione media per Comune di quasi 46 mila euro (-58,6%)
pari a oltre 6 milioni di euro e del Friuli Venezia Giulia le cui mancate risorse finanziarie
ammontano mediamente a quasi 47 mila euro per Comune (-37,1%) pari a oltre 10 milioni di euro in valore assoluto.
 
All’inizio della scorsa campagna elettorale Donald Trump non piaceva nemmeno a me,
tant’è che grazie alla mia esperienza, nei panni del candidato Alex Anderson lui e la Clinton erano i miei bersagli preferiti.

«Ogni voto a Trump è un voto a Hillary Clinton» era lo slogan contenuto in uno dei miei tweet,
che il giorno successivo fu copiato pari pari da un candidato “vero”, il repubblicano Marco Rubio.

Attenzione: quella mia campagna fake non durò un giorno ma nove mesi,
nel corso dei quali ebbi modo di entrare in contatto con decine di migliaia di elettori dell’area
che oggi conosciamo come alt-right, ovvero la destra alternativa il cui maître à penser
è quello Steve Bannon che fu capace di conferire al trumpismo la matrice identitaria che ancora non aveva.

Un vero e proprio popolo fatto di donne e uomini che con il passare delle settimane
si sono stretti sempre di più attorno al loro nuovo leader anche grazie al contributo della stessa Clinton,
autrice di autogol colossali come quando associò i repubblicani ai «gruppi terroristici»
e apostrofò come «deplorevoli» i supporter del suo avversario, che da par loro presero quell’aggettivo dispregiativo
e ne fecero un vero e proprio brand anti-establishment.
Durante quei mesi ebbi la possibilità di assistere da una posizione assolutamente privilegiata
alla nascita del fenomeno politico destinato a cambiare i connotati non soltanto degli Stati Uniti, ma dell’intero pianeta.

Una delle caratteristiche che consentirono al “mio candidato” di ottenere quell’enorme successo
fu la scelta di rispondere a chiunque gli scrivesse, anche per insultarlo.

Si chiama comunicazione orizzontale.

Risultato: ogni santa notte per nove mesi mi confrontai direttamente con centinaia di americani,
dibattendo con loro dei temi più importanti della campagna elettorale.


Immigrazione, economia, Secondo Emendamento, diritto alla vita, ma anche privacy
(argomento che era in cima al mio programma, dal momento che Edward Snowden era il mio candidato vice) e lotta al pensiero unico.

Su molti temi andavamo d’accordo, su altri decisamente meno, ma ciò non toglie che quell’esperienza
mi consentì di sintonizzarmi sulle loro frequenze comprendendo le reali ragioni che stavano alla base delle loro battaglie.


Quando, dopo essere uscito allo scoperto, venni ingaggiato da Vanity Fair per andare alla Convention Repubblicana di Cleveland,
in un certo senso fu come ingoiare la pillola rossa di Matrix: dopo essere sceso dall’aereo
mi trovai proiettato dalla dimensione virtuale a quella reale della campagna elettorale,
avendo la possibilità di conoscere personalmente alcuni degli artefici della cavalcata trionfale di Trump,
con l’enorme vantaggio che molti di loro già conoscevano me.

Questo mi consentì di essere invitato ad alcuni importanti eventi “a porte chiuse”,
ovvero riservati ai delegati repubblicani, tra cui quello organizzato dall’American Conservative Union Foundation,
una potente organizzazione di area repubblicana vicina alla NRA, durante il quale conobbi, tra gli altri,
Mike Pence e Kellyanne Conway poi diventati, rispettivamente, vicepresidente e consigliere del presidente.

Giusto per fare un esempio, in quella circostanza compresi per la prima volta
quanto la base repubblicana rivedesse in Trump la figura di Ronald Reagan.


«Su internet troverete una mia vecchia immagine, in cui probabilmente avevo l’età che oggi ha mio figlio,
che mi ritrae insieme al Presidente Reagan – esordì Pence nel suo intervento – conoscevo Reagan,
conosco l’uomo Trump e conosco il suo cuore. E fidatevi se vi dico che lui mi ricorda in tutto e per tutto Ronald Reagan».

Pence ha poi continuato definendo Trump «un costruttore e un combattente, un padre e un patriota.
Sarà un grande presidente degli Stati Uniti d’America, perché il suo cuore batte con il cuore del popolo americano».
 

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