News, Dati, Eventi finanziari in 8 anni 556 miliard take at look

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CATASTROFE DERIVATI DELLO STATO ITALIANO: BUCO DI 37 MILIARDI INGESTIBILE

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23 febbraio - Il famoso ''mark to market'' (valore di mercato) dei derivati sottoscritti dallo Stato Italiano è in negativo per circa 37 miliardi di euro (2 punti percentuali di Pil). Questo disastro è stato gestito nelle stanze della Direzione Debito del Ministero del Tesoro, disastro che presto si concretizzerà in una perdita secca per i contribuenti. Se infatti prima era possibile diluire le perdite su un arco temporale più lungo “ristrutturando” gli swap in essere, con la nuova normativa europea di calcolo del debito il Tesoro sarà obbligato ad appostare come perdita il valore di mercato al momento della ristrutturazione. Questo vuole dire che tutti i nodi arriveranno al pettine a partire dal prossimo anno. Ed è già ora una catastrofe
 
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Il traguardo del Jobs Act è finalmente raggiunto: l’introduzione dei demansionamenti unilaterali chiude il cerchio della liquefazione del lavoro. Ma c’è una raggelante novità: l’attacco ai pilastri della sicurezza del lavoro contenuto nel nuovo art. 2103 c.c. segna la strada verso la “macellazione” dei lavoratori e l’abrogazione di fatto del valore fondante della Repubblica: l’art. 1 della Costituzione.

di Domenico Tambasco

Trasportava ogni giorno, per i grigi corridoi della banca, un carrello carico di oggetti di cancelleria. E lo faceva piangendo sommessamente, porgendo le penne, i quaderni, le gomme, i fogli richiesti da quelli che erano stati i suoi colleghi, almeno fino a quando la banca non aveva deciso, per “ragioni di riorganizzazione interna”, di sottrarlo ai compiti di impiegato addetto alla gestione dei flussi contabili e di assegnarlo alle nuove mansioni di riordino e consegna dei materiali e degli strumenti di lavoro, quasi un “cartolaio ambulante”.

Ormai svuotato da mesi di umiliazione personale e professionale, impossibilitato a ricollocarsi sul mercato per la progressiva perdita della propria qualificazione, aveva deciso di ottenere giustizia invocando i principi dell’art. 13 dello Statuto dei Lavoratori[1]: nessuno può essere adibito a mansioni lavorative inferiori rispetto a quelle di assunzione, né può vedersi diminuita la retribuzione; ogni patto o accordo contrario è nullo, anche se sottoscritto con il consenso dello stesso lavoratore.

Quella che alcuni anni fa era stata una vertenza a lieto fine, con il risarcimento per il “lavoratore carrellista” degli ingenti danni patrimoniali e non patrimoniali subiti e la reintegra nelle originaria mansioni, oggi è soltanto un malinconico ricordo. L’approvazione dell’art. 55[2] dello “Schema di decreto legislativo recante il testo organico delle tipologie contrattuali e la revisione della disciplina delle mansioni, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183”[3] infatti, con l’introduzione nell’art. 2103 c.c. della possibilità di assegnare unilateralmente il lavoratore “a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore” nel vago e generico caso di “modifica degli assetti organizzativi aziendali”, addivenendo anche alla decurtazione degli “elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa”, ha ufficialmente cancellato con un tratto di penna decenni di civiltà del lavoro, riportandolo a condizioni addirittura anteriori all’approvazione del codice civile del 1942.

Partiamo proprio da questo punto, per capire la “modernità regressiva” dell’ultima riforma introdotta dal Jobs Act.

Addirittura nella versione originaria dell’art. 2103 c.c.[4], approvata nel 1942 con il codice civile (siamo dunque ancora sotto l’egida di un ormai decadente regime fascista), il legislatore prevedeva la possibilità di demansionare unilateralmente il lavoratore, subordinata tuttavia ad un doppio limite rappresentato dalla “irriducibilità della retribuzione” e dalla necessità di mantenere la “posizione sostanziale”. Ne sono derivate, nella prassi giurisprudenziale, rigide interpretazioni che hanno spesso censurato i demansionamenti unilaterali che si sostanziavano non solo in un oggettivo mutamento del contenuto professionale dell’attività lavorativa, ma anche in alterazioni soggettive del prestigio sociale, del prestigio morale e della dignità professionale del lavoratore[5].

L’apice della civiltà del lavoro, come testè accennato, si è raggiunto con l’introduzione dell’art. 13 da parte dello Statuto dei Lavoratori (L. 300/1970) che, nel novellare l’art. 2013 c.c. imponendo il principio della irriducibilità delle mansioni e della retribuzione lavorativa, ha perseguito due fini di rilievo costituzionale: il primo, relativo allo scopo dell’attività lavorativa, che deve sostanziarsi non solo nella finalità produttiva, ma anche nell’accrescimento professionale del lavoratore[6], così come prescritto dall’art. 35, 2° comma Cost., secondo il cui disposto la Repubblica “Cura la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori”. Il secondo, naturalmente connesso con il primo, inerisce alla dignità del lavoratore e della persona stessa: il lavoro infatti, oltre che strumento di affrancamento dal bisogno, è anche e soprattutto espressione e realizzazione della personalità del lavoratore, la cui realizzazione professionale ne è al contempo la sintesi ed il punto di arrivo. Naturale, dunque, il legame individuato dalla giurisprudenza tra il divieto di demansionamento dell’art. 2103 c.c. e i diritti fondamentali garantiti dall’art. 2 della Costituzione[7].

La modifica contenuta nello schema di decreto approvato in via preliminare dal Consiglio dei Ministri del 20 febbraio, al contrario, proprio in ragione degli amplissimi poteri conferiti al datore di lavoro, pare trarre ispirazione da un modello imprenditoriale diffuso qualche secolo fa, agli albori della prima rivoluzione industriale o, se si vuole richiamare i “tempi moderni”, agli standard lavorativi cinesi.

E’ opportuno premettere come questa norma, a differenza del contratto “a tutele crescenti”, si applichi a tutti i lavoratori, iniettando il veleno di una flessibilità liquida anche ai rapporti di lavoro in corso. Questa autentica rivoluzione del lavoro, dunque, si sostanzia – come vedremo – in una universale liquefazione del lavoro, che coinvolge tanto i nuovi quanto i vecchi assunti.

L’ulteriore lettura del “nuovo” art. 2103 c.c., tuttavia, lascia senza parole.

Il meccanismo principale è esposto nel secondo comma: il datore di lavoro, adducendo una qualsivoglia “modifica degli assetti organizzativi aziendali”[8] che “incidono sulla posizione del lavoratore”, può assegnarlo a mansioni “appartenenti al livello di inquadramento inferiore”. Via libera dunque alla possibilità di demansionare unilateralmente il lavoratore, con l’accortezza di “travestire” il provvedimento con una delle molteplici e possibili ragioni organizzative aziendali: il lavoratore, dunque, potrà anche precipitare dai vertici ai piedi della scala delle mansioni, non essendo in nessun modo reperibile nel testo della norma il riferimento ad un livello immediatamente inferiore, ma solo ad un generico “livello inferiore”.

Ovviamente, se alle mansioni di precedente assegnazione erano legate delle speciali indennità (quali, ad esempio, l’indennità di maneggio del denaro o indennità relative ad altri rischi), queste saranno eliminate con le nuove mansioni inferiori: semaforo verde, dunque, anche alla riducibilità della retribuzione.

Il menù predisposto per imprenditori particolarmente voraci si arricchisce di un’ulteriore scelta à la carte: la riduzione integrale della retribuzione al nuovo livello della mansione inferiore, nel caso in cui il demansionamento sia frutto di un “accordo” tra le parti, giustificato dall’ “interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione”, dall’ “acquisizione di una diversa professionalità” o dal “miglioramento delle condizioni di vita del lavoratore”. Siamo al trionfo dell’ipocrisia legale; appare sarcasticamente beffardo il riferimento all’interesse del lavoratore all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita operato dalla norma, considerando che gli accordi in questione comporterebbero in concreto una doppia perdita: di professionalità, tarpata da mansioni dequalificanti, e di retribuzione, ridotta ai nuovi inferiori livelli.

Di più ed oltre, questi accordi di demansionamento lungi dall’essere frutto della “spontanea volontà delle parti”, potrebbero essere oggetto di una pressante coazione, che coinvolgerebbe soprattutto i lavoratori “a tutele crescenti” privi dello scudo dell’art. 18 Stat. Lav. e sotto la spada di Damocle del licenziamento a indennizzo ridotto.

Ma vi è qualcosa di ben più grave, che sembra motivato più da ragioni vendicative che da motivazioni tecnico-produttive, quasi fossero i lavoratori i colpevoli della devastante crisi economica.

Si tratta del comma terzo, che è opportuno riportare per intero, al fine di comprenderne tutta la sua gravità: “Il mutamento di mansioni è accompagnato, ove necessario, dall’assolvimento dell’obbligo formativo, il cui mancato adempimento non determina comunque la nullità dell’atto di assegnazione delle nuove mansioni”.

Vediamone le possibili implicazioni.

La norma implicitamente dice, in modo apparentemente neutro, che in caso di mutamento unilaterale delle mansioni[9], il datore di lavoro può anche omettere l’obbligo di formazione del dipendente alle nuove mansioni: in questo caso, l’assegnazione alle mansioni – ad esempio – inferiori sarà comunque valida e legittima, ed il lavoratore – di conseguenza – dovrà proseguire nello svolgimento delle nuove prestazioni lavorative, anche senza la dovuta formazione.

E’ l’attacco diretto – e subdolo – alla sicurezza del lavoro, al principio consolidato per cui la formazione e l’addestramento specifico del lavoratore in caso di trasferimento o cambiamento di mansioni (art. 37, comma 4, lett. b dlgs. 81/2008, cd “Codice della sicurezza”) è il primo strumento di prevenzione degli infortuni sul lavoro.

Le conseguenze di questa abominevole disciplina sono tanto semplici da comprendere quanto agghiaccianti: il prestatore di lavoro che venisse preposto a nuove mansioni e che, ad esempio, dovesse passare dalla scrivania all’utilizzo di un macchinario della catena di montaggio[10], potrà essere preposto anche senza alcuna specifica formazione all’utilizzo della macchina. L’adibizione, comunque, sarà valida, con la conseguenza che il lavoratore sarà obbligato a svolgere le nuove prestazioni lavorative e ad utilizzare il macchinario senza alcuna specifica cognizione: come dire, a suo rischio e pericolo. Con la correlativa, possibile responsabilità disciplinare e risarcitoria diretta del lavoratore per gli eventuali errori compiuti nello svolgimento della nuova prestazione lavorativa e che provocassero, ad esempio, un danno aziendale.

E se il lavoratore destinatario del mutamento di mansioni dovesse essere vittima di un infortunio a causa dell’assenza di specifica formazione? E’ molto probabile che, in caso di richiesta di risarcimento dei danni da parte del lavoratore, il datore di lavoro si difenderà sostenendo la legittimità della propria condotta e rifiutando qualsivoglia responsabilità risarcitoria, confortato dal sigillo di legge per cui “il mancato adempimento non determina comunque nullità dell’atto di assegnazione delle nuove mansioni”. Interpretazione assolutamente plausibile in assenza di altre specificazioni in merito alle conseguenze sulla sicurezza lavorativa che il legislatore delegato, colpevolmente, ha omesso.

Stiamo dunque parlando della clamorosa e palese violazione del principio cardine del diritto del lavoro, contenuto nel noto art. 2087 c.c. (rubricato “tutela delle condizioni di lavoro”), secondo il cui disposto “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.

Il lavoratore non vale più neanche il prezzo di un costo di formazione e di addestramento: è ormai diventato solo “carne da macello”.

Del resto, che la liberalizzazione di fatto delle condotte demansionanti sia il punto di arrivo del processo di “merficicazione” del lavoro e dei lavoratori è desumibile anche dalla considerazione che, con il rinnovato art. 2103 c.c., si conferisce il formale visto di “legalità” a comportamenti che decenni di studi di sociologia del lavoro – oltre che di pronunce giurisprudenziali – hanno definito sia come espressione del cosiddetto “mobbing”, sia come generatori di danni esistenziali, biologici e professionali nella sfera dei lavoratori vittime di tali condotte. Realtà concreta e realtà normativa si allontanano definitivamente, portando al cortocircuito della giustizia.

Gli apologeti della “modernità lavorativa” certamente canteranno l’inno alla flessibilità nella gestione lavorativa e all’ormai raggiunta produttività, anticamera della “crescita”; uno sguardo meno ideologico alla viva realtà del lavoro, al contrario, evidenzierebbe come alla base di questa nuova disciplina non vi possa essere nessuna esigenza economico-produttiva, poiché vanificata dalla creazione di lavoratori dequalificati, trasformati in mere “pedine”, scarnificati della propria professionalità e, dunque, tutt’altro che produttivi.

Al contrario, sottese all’approvazione di questa norma – che costituisce l’autentico architrave della “riforma del lavoro”[11] – vi sono ragioni politiche: di una politica che parla le parole della nuova Costituzione materiale (o Controcostituzione), in cui il nuovo art. 2103 c.c. è la leva per lo scardinamento di fatto dell’art. 1 della Costituzione[12], ove la dignità del lavoro è schiacciata sotto il tallone delle esigenze produttive di impresa e delle ferree ed ineluttabili leggi neoliberiste di mercato.

Di fronte a questo sconfortante panorama, dinanzi alla definitiva eclissi del valore fondante e formante della Repubblica, non puo’ non tornare alla mente il severo monito del nichilismo giuridico che, con uno sguardo intriso di dolente realismo, individua nel “valore il principio sostenuto dalla volontà più forte ed efficace. Carte Costituzionali ed altre solenni dichiarazioni sempre contengono norme, poste dalla volontà umana, e quindi trasgredibili modificabili revocabili.

Nulla sfugge alla distruttiva temporalità dell’uomo”[13]. Nemmeno la laica sacralità della “Repubblica democratica fondata sul lavoro”, oseremmo aggiungere.

NOTE

[1] Art. 13 L. 300/1970 modificativo dell’art. 2103 c.c.: “Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione. Nel caso di assegnazione a mansioni superiori il prestatore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta, e l’assegnazione stessa diviene definitiva, ove la medesima non abbia avuto luogo per sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, dopo un periodo fissato dai contratti collettivi, e comunque non superiore a tre mesi. Egli non puo’ essere trasferito da una unità produttiva ad un’altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive. Ogni patto contrario è nullo”.

[2] Art. 55 (mutamenti delle mansioni): L’articolo 2103 del codice civile è sostituito dal seguente:

art. 2013. Prestazione del lavoro. Il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello di inquadramento delle ultime effettivamente svolte.

In caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incidono sulla posizione del lavoratore, lo stesso puo’ essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore.

Il mutamento di mansioni è accompagnato, ove necessario, dall’assolvimento dell’obbligo formativo, il cui mancato adempimento non determina comunque la nullità dell’atto di assegnazione delle nuove mansioni.

Ulteriori ipotesi di assegnazione di mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore possono essere previste dai contratti collettivi, anche aziendali, stipulati da associazioni comparativamente piu’ rappresentative sul piano nazionale.

Nelle ipotesi di cui al secondo e quarto comma, il lavoratore ha diritto alla conservazione del livello di inquadramento e del trattamento retributivo in godimento, fatta eccezione per gli elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa.

Nelle sedi di cui all’articolo 2113 ultimo comma, o avanti alle commissioni di certificazione di cui all’articolo 76 del dlgs. 276/2003, possono essere stipulati accordi individuali di modifica delle mansioni, del livello di inquadramento e della relativa retribuzione, nell’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita.

Nel caso di assegnazione a mansioni superiori il lavoratore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta, e l’assegnazione diviene definitiva, salva diversa volontà del lavoratore, ove la medesima non avuto luogo per ragioni sostitutive di altro lavoratore in servizio, dopo il periodo fissato dai contratti collettivi, anche aziendali, stipulati da associazioni sindacali comparativamente piu’ rappresentative sul piano nazionale o, in mancanza, dopo sei mesi continuativi.

Il lavoratore non puo’ essere trasferito da una unità produttiva ad un’altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive. Salvo che ricorrano le condizioni di cui al secondo e quarto comma e fermo quanto disposto al sesto comma, ogni patto contrario è nullo.

L’articolo 6 della legge 13 maggio 1985, n. 190 è abrogato”.

[3] Anche questo schema di decreto, ai sensi dell’art. 1 comma 11 della Legge delega 183/2014, dovrà essere trasmesso alle competenti Commissioni di Camera e Senato per l’espressione, entro trenta giorni, di un parere “non vincolante” al cui esito il Governo adotterà in via definitiva il relativo decreto legislativo, che entrerà in vigore dal giorno successivo alla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale.

[4] Così, infatti, recitava l’art. 2103 c.c. prima dell’innovazione dettata dall’art. 13 Stat. Lav.: “Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per cui è stato assunto. Tuttavia, se non è convenuto diversamente, l’imprenditore puo’, in relazione alle esigenze dell’impresa, adibire il prestatore di lavoro ad una mansione diversa, purchè essa non importi una diminuzione della retribuzione o un mutamento sostanziale nella posizione di lui…”

[5] Trib. Milano, 15.06.1965, in Riv. Giur. Lav. 66, II, 277; TRib. Vigevano, 28.03.1962, in Riv. Giur. Lav., 62, II, 457; le citazioni delle sentenze si trovano anche in Comm. Breve Leggi Lavoro, De Luca Tamajo – Mazzotta, art. 2103, I.

[6] Romagnoli, in Comm. Statuto dei Lavoratori Scialoja – Branca, p. 230.

[7] Trib. Vicenza, 2-2-2010, in Rass. Giur. Lav. Veneto, 11, 74.

[8] La previsione, a parere di chi scrive, sembra eccedere la delega dell’art. 1 comma 7 lett. e) L. 183/2014, indicando una generica quanto vaga “modifica degli assetti organizzativi aziendali”, in contrasto con la richiesta di “parametri oggettivi” volti a limitare il potere di mutamento delle mansioni e contemperare le esigenze di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale con l’interesse del lavoratore alla tutela del posto di lavoro, della professionalità e delle condizioni di vita ed economiche.

[9] Il mutamento può riguardare mansioni superiori, equivalenti o inferiori.

[10] O, nel caso di passaggio a mansioni equivalenti, dall’utilizzo di un macchinario ad uno completamente diverso.

[11] Valgano le parole di Natalino Irti, in Nichilismo Giuridico, Roma-Bari, Laterza, 2005, p. 132: “Ma dal 1789 si agita impetuoso lo spirito del riformismo come atteggiamento principale di fronte al diritto. Dalle timide e caute riforme si passa alla riforma della riforma; l’essenza del diritto è ormai nella sua riformabilità, nel suo poter essere abbandonato e sostituito”.

[12] Di rovesciamento dell’impianto costituzionale della Repubblica e di abrogazione dell’art. 1 Cost. parla F. Bertinotti in Colpita al cuore, Roma, Castelvecchi, 2015.

[13] N. Irti, Nichilismo Giuridico, cit., p. 130.

(23 febbraio 2015)
 
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INCHIESTA DEL TELEGRAPH SUI PALAZZI DI BRUXELLES: ''BUROCRATI CORROTTI, LADRI, MOLESTATORI SESSUALI, PORNOGRAFI'' (BOOM!)

martedì 24 febbraio 2015
Il britannico "Telegraph" pubblica un articolo-inchiesta devastante che scoperchia il verminaio dentro i palazzi di Bruxelles dell'Unione europea. Leggiamo:
"Dentro agli edifici luccicanti che costeggiano Rue de la Loi a Bruxelles, i comportamenti indecorosi vengono spesso puniti con poco più che una bacchettata sulle dita. Funzionari della Commissione Europea hanno gonfiato la nota spese, molestato sessualmente le colleghe e guardato centinaia di ore di pornografia in ufficio – ciononostante mantengono il loro posto di lavoro.
I registri disciplinari ottenuti dal Sunday Telegraph mostrano che dozzine di alti funzionari della Commissione Europea accusati di gravi mancanze disciplinari se la sono cavata con poco più che una bacchettata sulle dita. Si parla anche di funzionari che hanno presentato fatture false e cercato di assegnare gli appalti che avevano in gestione a membri della propria famiglia.
In due anni, l’Ufficio Investigativo e Disciplinare della Commissione (IDOC) ha svolto indagini su 84 casi sospetti di comportamenti scorretti da parte dei funzionari. Di questi, 43 sono stati sanzionati, e sei licenziati. La vita alla Commissione è spesso ben ricompensata. Uno su cinque dei membri dello staff porta a casa più soldi di David Cameron, che riceve 142.000 sterline (oltre 190.000 euro) all’anno, grazie a generose indennità e a un’aliquota fiscale speciale del 13 percento.
Eppure alcuni impiegati la considerano una gabbia dorata, con il personale che non ha niente da fare e si annoia, e tuttavia non riesce a trovare una retribuzione paragonabile da nessun’altra parte. Tra quelli beccati a violare le regole, e che tuttavia hanno mantenuto il loro posto di lavoro, ci sono quattro funzionari che hanno omesso di dichiarare gli assegni familiari che ricevevano dai paesi di provenienza mentre lavoravano per la commissione – il che significa che hanno ricevuto da parte della Commissione più assegni di quelli che sarebbero loro spettati.
Questo atto di “negligenza grave” ha comportato una “significativa perdita finanziaria” ed è stato scoperto solo per caso. I funzionari sono stati retrocessi di grado, due solo temporaneamente. In un altro caso, un funzionario ha mentito sulla propria nazionalità durante il procedimento di assunzione, “ed ha presentato dei documenti falsificati“. È stato retrocesso per un anno.
Un altro funzionario, che ha mentito sulla propria nazionalità per ricevere una maggiore indennità di dislocazione, è stato retrocesso. Si trattava di una seconda violazione, ma al funzionario è stato permesso di restare al suo posto dopo aver manifestato “pentimento“. In un altro caso, un “alto funzionario” della Commissione che aveva irregolarmente ricevuto per molti anni delle “consistenti” somme come indennità di locazione, ha avuto la pensione sospesa per tre anni.
Un altro burocrate ha ricevuto per quattro anni delle indennità familiari, per istruzione e spese mediche per il figlio, con una truffa “persistente e deliberata” – perché il giovane in realtà lavorava. Il funzionario ha avuto la pensione sospesa per tre anni a seguito di una condanna penale.
Un funzionario è stato ammonito per aver presentato all’amministrazione dei certificati medici “falsificati“, dopo che il suo medico si era rifiutato di fargli una diagnosi. In un altro caso un funzionario ha richiesto un periodo di aspettativa “per motivi personali“, mentre “allo stesso tempo, senza avere richiesto preventiva autorizzazione, offriva servizi alla Commissione come consulente esterno remunerato“. Ha subito un richiamo verbale.
Il registro mostra che un funzionario è stato licenziato per “appropriazione indebita” – mentre altri, accusati di aver cercato di procurare posti di lavoro e appalti a membri della propria famiglia, hanno mantenuto il proprio posto.
“Un membro del personale che ha raccomandato persone di sua conoscenza, inclusa la cognata, all’ufficio della Commissione competente per l’assegnazione degli appalti, al fine di far loro ottenere un impiego, ha subito un richiamo. Dato che è anche il responsabile per l’esecuzione degli appalti, si è messo in una situazione di conflitto di interessi che potrebbe avere degli effetti negativi sulla reputazione dell’Istituzione“, riporta il registro.
In un altro caso: “È stato ammonito un membro del personale che ha chiesto una fattura falsa per un membro della propria famiglia, durante l’esecuzione di un appalto di cui era responsabile. La natura isolata dell’incidente è stata presa in considerazione, per cui non è stato aperto il procedimento disciplinare“.
Un altro funzionario è stato ammonito dopo “aver fatto uso di un veicolo di proprietà di un appaltatore della Commissione allo scopo di trasportare i suoi effetti personali. Sebbene egli fosse responsabile dell’esecuzione dell’appalto con la parte in questione, la natura limitata del servizo e la natura isolata dell’incidente hanno fatto sì che in questo caso l’apertura del procedimento disciplinare non sia stata ritenuta giustificata“.
Il registro rivela diversi casi di comportamenti violenti e lascivi all’interno degli uffici della Commissione Europea a Bruxelles. In un caso: “Un membro del personale è risultato responsabile di aver scaricato 100GB (equivalenti a 200-300 ore di video online) di materiale pornografico da più di 100 siti web; è stato retrocesso. Il fatto che si trattasse di una seconda infrazione ha rappresentato un’aggravante“. Un altro è stato sanzionato per uso “frequente e intensivo” di siti pornografici.
Un altro dipendente ha ricevuto un rimprovero “per comportamenti di natura esplicitamente sessuale verso due colleghe sul posto di lavoro“, mentre un altro è stato punito per “aggressione fisica e affermazioni ingiuriose verso un collega, le quali non possono essere giustificate da stato di stanchezza provocato da intenso lavoro“.
Un altro funzionario che ha usato la propria posizione per accedere ai dati personali di un collega “per fini personali“, è stato ammonito. Tra i funzionari licenziati c’è un appaltatore che ha presentato un diploma contraffatto durante il procedimento di assunzione, e un funzionario che “per diversi anni” si è rifiutato di svolgere il proprio lavoro, che egli “considerava essere al di sotto del livello della propria formazione accademica“.
Peter Bone, parlamentare conservatore di Wellingborough, dice: “Sembra che i burocrati dell’UE vivano in mondo separato, con regole proprie, totalmente diverso da quello dei normali governi. Se queste cose fossero state fatte da dei pubblici ufficiali britannici, sarebbero stati licenziati.” “Questi fatti dimostrano che l’UE non è nell’interesse dei cittadini europei, ma nell’interesse dell’élite di Bruxelles“.
Un portavoce della Commissione Europea ha affermato: “La Commissione è una della istituzioni più trasparenti per quanto riguarda le questioni relative al suo personale. Ha un approccio equo, imparziale ed efficace verso le questioni disciplinari e non esita a imporre gravi sanzioni quanto trova evidenza di illeciti, incluse retrocessioni e licenziamenti“.
Ovviamente, mentiva.
Autore dell'articolo: Matthew Holehouse per The Telegraph.
link: Sex pest cases, fraud or porn but Eurocrats keep their jobs - Telegraph
Traduzione a cura di Vici dall'Estero - che ringraziamo.

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