Sto ascoltando Vittorio Sermonti commentare la poesia di Dante, il Dante della Commedia, e gli ho sentito fare alcune considerazioni molto acute e vere. Ha parlato dello stile violento, fortissimo della poesia di Dante, cosi' vario e penetrante, che passa "dal sublime piu' rarefatto e concettoso alla violenza piu' cruda del linguaggio basso". Ha ripetuto una frase del grandissimo critico scomparso Gianfranco Contini, in cui ho riconosciuto, non senza una certa vanita', un mio pensiero che spesso ho riferito proprio al brano letto stasera, l'episodio del Conte Ugolino: cioe' che la poesia di Dante, per la sua potenza evocativa e per la sua violenza icastica, richiede l'esecuzione, come una musica o un pezzo di teatro. Richiede un pubblico che soffra, si commuova, si spaventi, si adiri, si innalzi ascoltandolo. Richiede un interprete che ne esalti gli effetti.
Perche' la poesia, quando e' cosi' immensa, e' capace di estrarre dalle nostre profondita' quel che non sappiamo trovarsi laggiu', ma che c'e' sempre stato, semplicemente perche' siamo uomini.
"Era gia' l'ora che volge il disio
ai naviganti, e intenerisce il core
lo di' che han detto ai dolci amici addio
e che lo novo peregrin d'amore
punge, quand'ode squilla di lontano
che paia il giorno pianger che si more..."
...a proposito di nostalgia.
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