L’arma perfetta: come il mondo arabo ha usato i palestinesi per colpire Israele
Da settant’anni il mondo arabo urla “Palestina libera” e poi chiude i confini.
L’Egitto, che basterebbe un varco per dare rifugio a chi scappa da Gaza, ha costruito muri e torri d’osservazione nel Sinai. Non per difendersi da Israele, ma per impedire ai palestinesi di entrare.
E intanto, davanti alle telecamere, gli stessi governi che piangono per Gaza organizzano summit, slogan, conferenze e raccolte fondi. Tutto tranne accoglierli.
La verità è semplice e sporca: la causa palestinese non è mai stata un problema da risolvere, ma un’arma da tenere carica.
Un utile strumento di propaganda per tenere vivo l’odio verso Israele e distrarre i propri popoli da miseria, corruzione e regimi militari.
I palestinesi sono stati usati, manipolati e parcheggiati per decenni.
Mai pienamente integrati nei Paesi arabi che li ospitavano, mai cittadini, mai liberi davvero.
Una popolazione “congelata” nella sofferenza, utile come spina nel fianco di Israele e perfetta per chiedere soldi all’Occidente, che paga sensi di colpa con bonifici miliardari all’ONU, all’UNRWA e alle ONG “umanitarie” con conti a Doha.
Dietro l’ipocrisia della “solidarietà araba” c’è un sistema ben oliato.
Più i palestinesi soffrono, più valgono.
Ogni crisi è un assegno in bianco, ogni vittima un titolo di giornale, ogni foto una donazione.
È una economia del dolore, dove il martirio diventa marketing e la disperazione, una moneta da spendere.
Ma non basta accusare i vicini.
I palestinesi, più volte, hanno scelto i carnefici.
Hanno lanciato guerre, rifiutato ogni proposta di pace, eletto Hamas: un’organizzazione che usa bambini come scudi e funerali come spettacoli.
Un movimento che non sogna la libertà, ma il martirio come progetto politico.
Dove la vita vale meno di una foto, e la morte serve a fare propaganda.
Dal 1948 a oggi, la leadership palestinese ha sbagliato ogni sponda.
Ha sostenuto Saddam Hussein, flirtato con Assad, tentato colpi di Stato in Giordania e incendiato il Libano.
Ogni Paese che li ha accolti, ne è uscito devastato.
La solidarietà si è trasformata in subversione, e la causa in caos.
La loro cultura politica è stata colonizzata dal culto del sangue.
Già l’OLP di Arafat trasformò la “rivoluzione” in liturgia, dove la morte dei figli diventava prova di fedeltà.
Poi arrivò Hamas, che codificò tutto in dottrina di Stato: Israele deve sparire, gli ebrei non hanno diritto di esistere, e chi muore combattendo entra in paradiso.
Nei libri scolastici si insegna che Israele è un’entità temporanea.
Nelle moschee si predica che il martirio è più nobile della pace.
E nei video ufficiali la frase “Dal fiume al mare” non è un sogno politico, ma una dichiarazione di guerra.
Hamas ha costruito la sua strategia su un’equazione mostruosa:
più morti civili = più consenso internazionale.
Provocare, farsi colpire, contare le vittime e urlare al genocidio.
In questa macabra contabilità, i palestinesi morti sono la valuta.
Servono a comprare visibilità, compassione e aiuti.
E così, una generazione intera è stata offerta in sacrificio a Moloch, il dio antico del fuoco e dei bambini bruciati vivi, ora ribattezzato “resistenza”.
Un culto che non costruisce, non produce, non educa. Solo distrugge.
Dove il progresso è tradimento, il compromesso peccato, e la vita stessa un fastidio da estirpare.
E voi, che ancora sventolate bandiere e hashtag, pensate davvero di “stare con gli oppressi”?
Non siete dalla parte della libertà.
Siete inginocchiati davanti a Moloch, i vostri occhi pieni di lacrime fasulle, i vostri slogan pieni di morte.
Perché chi aiuta un sistema di oppressione a mantenersi in vita - anche solo con un like o una bugia - non è solidale. È complice.