Comunque a quell'età era davvero una pisquana.
Sempre quell'anno feci il mio primo discorso pubblico.
Memorabile
Avevo 14 anni e mezzo e da un paio di mesi al massimo frequentavo la IV ginnasio nel liceo classico cittadino. Indossavo ancora capi di abbigliamento che mia madre sceglieva per me e che detestavo: mi facevano sentire goffa, brutta, vecchieggiante. Quel giorno in particolare, avevo una gonna in maglina grigia scura che mi calzava come il tubo di una stufa a gas e mi dava il medesimo aspetto. Un paio di collant né sottili né coprenti con almeno un paio di fili tirati, grigi, un maglioncino rosso, a collo alto che non mi copriva adeguatamente i fianchi (secondo me) e un paio di ballerine scamosciate nere delle quali rammento ogni singolo mm, giacché, come meglio racconterò dopo, ho passato molto tempo a guardarmele come se fossero una cosa assai interessante.
Ero uscita di casa ficcandomi in tasca un nastrino di raso rosso. Mia madre mi aveva fatto una treccia alla francese e io volevo chiuderla col fiocchetto rosso ma lei aveva sentenziato che con quella treccina che sembrava il codino di un topo, il fiocchetto mi avrebbe resa ridicola. Ma io, con la gonna tubo e le calze da nonna, non temevo ulteriori ridicolaggini e il fiocchetto me lo ero legata lo stesso, in autobus.
A scuola c'era uno sciopero per chiedere che i lavori per ampliare la sede principale affrettassero e chiudere l'orrendo, diroccato distaccamento dove le ultime due sezioni del ginnasio erano collocate e dove stava anche la mia classe. Io detestavo il distaccamento che definire indegno era fargli un complimento e mi piacevano gli scioperi e così non solo partecipai, ma ebbi anche la coraggiosissima idea di rispondere alla chiamata dal palco del comizio, quando un tal I.F., rappresentante degli studenti, figlio di papà che giocava a fare il compagno (io non lo sapevo, ma lo intuivo), ragazzo dell'ultimo anno, belloccio e famigerato chiese se qualcuno dal distaccamento avesse voglia di raccontare in che stato fossero le aule.
Ora... io ero fifona e timida come un coniglio. I ragazzi mi mettevano una dannata ansia e dovevano passare ancora altri 5 anni prima che io rivolgessi la parola ad un ragazzo in relax e non solo per strettissima necessità. Quindi, quando misi il piede sullo scalino per salire sul palco, mi ero già ampiamente pentita. Nonostante fosse una scuola a netta prevalenza femminile, i rappresentanti degli studenti erano tutti maschi. Tutti diciottenni. Tutti dannatamente sicuri di se stessi e del loro ruolo. E io volevo seppellirmi. Iniziai a guardarmi le scarpe, con le guance più rosse del mio maglione e, mentre un ragazzo biondo arringava gli studenti sotto il palco, io cercavo di fare ordine nella mia confusione mentale e di studiare un sistema per filarmela.
In quella accadero due cose quasi in contemporanea che mi fecero salire le lacrime agli occhi, intorpidire tutte le membra, seccare la lingua e precipitare in un vero e proprio stato di panico. I.F. mi vide, timidissima e, forse per incoraggiarmi, mi cinse le spalle ridendo: "e questa pulcina? Io me la mangio". La pulcina, io, era ormai in crisi. Mi vergognavo come una ladra e non vedevo altro che le mie scarpe che erano, invero, già pronte per una poco dignitosa fuga.
Il biondo intanto, riposto il microfono, venne verso di me, ancora circondata dal braccio di I.F. e gli disse: "poi guarda che brutte quelle due ragazze sotto il palco: quella grande e grossa bionda e l'altra con gli occhiali" e rideva, beffardo e stronzo. Un baratro mi si aprì sotto i piedi. Sprofondata nella mia vergogna e umiliazione, mi sentivo le gambe incollate al suolo. Immobile per il panico e lo sdegno, mi spinsero letteralmente alla postazione da cui si parlava. Le due additate come brutte erano mia sorella e una sua compagna di classe e io volevo scomparire per sempre. Mi ridussi a rispondere a voce bassissima con dei "sì" o "no" alle domande di I.F. e del biondo. Dieci minuti infernali, finiti i quali, letteralmente fuggii di corsa, giù dal palco e fuori dalla calca giurando a me stessa che non avrei mai più parlato in pubblico né permesso a nessuno di insultare mia sorella a causa della mia pusillanimità.
E quello fu il mio primo discorso pubblico.
Ero talmente sconvolta dallo schifo che avevo fatto che non raccontai nemmeno a mio padre dello sciopero, cosa che, lo sapevo, l'avrebbe, invece, interessato molto.
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