NELLA VITA BISOGNA ESSERE UN PO' MATTI, ALTRIMENTI S'IMPAZZISCE

Ma è proprio in questo periodo di isolamento internazionale e di discredito sotto il profilo dell’immagine che,
tra le sponde del Mediterraneo, emerge comunque un rapporto importante tra Italia e Libia.
Gheddafi, una volta raggiunto il potere, spesso utilizza la retorica anti coloniale
e non a caso uno dei suoi primi provvedimenti riguarda la cacciata degli ultimi italiani presenti nel Paese.
Ma dietro in realtà, il rapporto tra Roma e Tripoli non è mai venuto a mancare.
Proprio il bombardamento del 1986 appare come chiara dimostrazione emblema delle relazioni tra le due sponde del Mediterraneo:
più di un’indiscrezione di quell’anno riporta infatti come sia l’allora presidente del consiglio Bettino Craxi a salvare la vita al rais.
Da Palazzo Chigi il capo dell’esecutivo italiano avrebbe chiamato direttamente la caserma di Bab Al Azizia, avvisando Gheddafi dell’imminenza dell’attacco.
La retorica del leader della Jamahiriya vira spesso verso toni anti italiani, ma nei fatti Italia e Libia vivono quasi in simbiosi.

Dal Paese africano arriva il petrolio, dalla penisola italiana arrivano quei contatti politici ed economici
essenziali per la Libia per rimanere a galla a seguito delle sanzioni internazionali.
I rapporti sono molto stretti anche sul fronte finanziario: Tripoli investe parecchi soldi in Italia,
la banca di investimento e sviluppo acquista azioni della Fiat e, sul versante della difesa, è Roma a contribuire ad un miglior equipaggiamento dell’esercito libico.
Per Gheddafi l’Italia è quasi un’ossessione, sia nel bene che nel male: a volte ricorda, mostrando il braccio,
le ferite riportate dall’esplosione di una mina italiana quando ha ancora sei anni, altre volte invece ha la consapevolezza che senza un rapporto privilegiato con Roma il paese rischia di naufragare.

2004: la fine delle sanzioni e la riabilitazione di Gheddafi
Durante tutti gli anni Novanta, la Libia vive una condizione di emarginazione dal contesto internazionale.
Pur tuttavia, il rais riesce a mostrare al mondo la conclusione dei lavori di quella che considera la sua più grande opera, ossia il “grande fiume artificiale“, inaugurato nel 1991.
Si tratta di un acquedotto che riesce a trasportare l’acqua dal sottosuolo del deserto libico fino alle grandi città del Paese.
Sul piano interno Gheddafi riesce comunque a controllare la situazione economica grazie ai proventi del petrolio,
con i quali fa quadrare i conti e continua nella gestione di un sistema che prevede un non indifferente sistema di welfare per i cittadini.
Dalle protezioni sociali allo sviluppo dell’istruzione, la Libia presenta importanti livelli specie se raffrontati con i vicini africani.
Il nemico principale negli anni ’90 si chiama invece “integralismo islamico”.
Il Raìs si mostra personalmente sempre molto religioso, chiama anche il suo secondogenito Saif Al Islam, ossia spada dell’Islam.
Sotto il profilo politico, ha l’obiettivo di presentare un islam moderato ed uno Stato vicino ai principi laici, come nell’Egitto di Nasser.

L’isolamento delle frange più estremiste e dell’islam ricollegabile ai Fratelli musulmani, ha come contraltare l’uso dell’estremismo per finalità di opposizione al suo governo.
L’islam radicale mette piede soprattutto in Cirenaica, regione che più volte lascia intravedere un certo malcontento per la Jamahiriya.
Sul finire degli anni Novanta Gheddafi opta per una repressione ed una lotta senza quartiere agli estremisti, emettendo nel 1996 anche un mandato di cattura per Osama Bin Laden.
Un nemico che ben presto diventerà comune agli Stati Uniti. Anche per questo lentamente la Libia si avvia ad uscire dalla lista dei cosiddetti “Paesi canaglia”
e Gheddafi da cavallo pazzo del Medio Oriente prova a diventare un interlocutore affidabile.
Una situazione questa che contribuisce a far togliere l’embargo dall’Onu nel 1999 e che, all’indomani dell’11 settembre 2001, permette l’inizio di un dialogo tra Tripoli e Washington.

Si arriva così al 2004. In quell’anno Gheddafi decide di porre fine al suo programma di sviluppo di armi nucleari,
in cambio dell’eliminazione di tutti gli impedimenti di natura economica da parte degli Usa ed anche della Gran Bretagna.
Si tratta della definitiva riabilitazione internazionale del rais.

La Libia attore protagonista del Mediterraneo
Il Paese africano si presenta così come una nazione tutto sommato stabile, dalle tante ricchezze energetiche e con buone potenzialità di sviluppo.
Un mercato quindi che fa gola proprio al centro del Mediterraneo.
Questo Gheddafi lo sa bene e, dopo il 2004, torna ad essere molto attivo sotto il profilo della politica estera ma, questa volta,
cercando intese e relazioni con i paesi più importanti dell’Europa e dell’area mediterranea.
A loro volta, molti Paesi europei provano a penetrare all’interno di un mercato potenzialmente importante ma anche poco esplorato, come quello libico.
Soprattutto la Francia appare molto attiva in questi anni in Libia, con l’Italia che prova a non perdere però la propria posizione di privilegio.
Va letto in questa ottica il trattato di amicizia firmato a Bengasi nel 2008 tra Gheddafi e Silvio Berlusconi, allora presidente del consiglio italiano.
Si garantiscono i contratti e le concessioni dell’Eni, presente in Libia dal 1959, così come l’Italia si impegna del superamento del periodo coloniale
tramite il cosiddetto “grande gesto”, ossia la costruzione dell’autostrada costiera tra Tunisia ed Egitto.

Importanti accordi economici vengono raggiunti comunque con gli stessi Usa, con la Spagna, la Turchia ed altri attori dell’area.
Nel 2009 Gheddafi è anche invitato al G8 organizzato dall’Italia a L’Aquila.
Cambiamenti quindi importanti a livello estero, che richiedono altrettante importanti riforme sotto il profilo interno.
Ed è qui forse che il rais inizia a perdere il controllo della situazione.

Nel suo libro Un ambasciatore nella Libia di Gheddafi, l’ex ambasciatore italiano Trupiano descrive il leader come un personaggio “schiavo del suo stesso mito“.
Tra spinte riformatrici e spinte conservatrici, tra una retorica politica che inizia a non fare breccia più come prima ed annunci di cambiamenti nella realtà non attuati,
Gheddafi sembra iniziare a perdere leggermente contatto con il suo stesso Paese.
Nella Jamahiriya si formano due correnti di pensiero: una più riformatrice, rappresentata dal figlio Saif Al Islam, l’altra invece più conservatrice e fedele ai dettami ideologici del 1969.
Anche all’interno della famiglia Gheddafi non mancano divisioni: Saif prova a presentarsi come innovatore, il quintogenito Mutassim cerca invece di scalare i ranghi della sicurezza nazionale.

In poche parole, la sfida che sembra avere davanti il rais all’indomani dei 40 anni dalla sua presa di potere, è quella di trasformare la Libia in una vera nazione.
Fino a quel momento il collante è dato dagli ideale della rivoluzione e dalla retorica anti coloniale.
Ma le divisioni in tribù permangono, la frammentazione del paese in tante fazioni più fedeli alla propria famiglia che al proprio Paese
è un qualcosa che frena enormemente le trasformazioni di cui il Paese ha bisogno.
L’immobilismo del governo, timoroso di sbilanciarsi troppo verso l’ala riformatrice o conservatrice, sembra far entrare Gheddafi in un vicolo cieco.
Il rais forse è a conoscenza di questa situazione: purtroppo non si saprà mai se avesse escogitato un modo per uscirne fuori
oppure se, al contrario, il leader libico aspettasse semplicemente il corso della storia.
Ma la stessa storia, poco dopo, questa volta è destinata ad essere più veloce dei pur sempre dinamici pensieri di Gheddafi.

2011: l’intervento Nato e la fine di Gheddafi
Non è dato sapere nemmeno se, dopo l’avvio delle proteste nel dicembre 2010 in Tunisia ed Egitto, Gheddafi abbia previsto o meno una simile situazione nel suo Paese.
In tanti ancora oggi si chiedono se, dalla sua residenza di Bab Al Azizia, il Raìs sia rimasto sorpreso od indifferente nel leggere i rapporti che parlano di proteste in Cirenaica nel febbraio 2011.

Quella regione, con l’estremismo islamico, gli dà problemi negli anni Novanta, mentre nel 2006 il Raìs si vede costretto a sparare
per provare a difendere il consolato italiano di Bengasi dai manifestanti che urlano contro l’esposizione delle vignette su Mamometto da parte dell’allora ministro Calderoli.
Fatto sta che, proprio nella sua Bab Al Azizia, già a fine febbraio del 2011 è costretto a tirar fuori tutto il suo repertorio politico
per parlare alla nazione ed invitare i cittadini ad isolare i facinorosi: “Puliremo il paese strada per strada, casa per casa”,
urla con sullo sfondo la statua fatta costruire nel 1986 dove si raffigura una mano che prende in pugno un aereo americano.

Sono giorni terribili a livello personale per Gheddafi. Capisce di aver perso la Cirenaica, di avere nel Paese diverse tribù che provano ad andargli contro ed a destabilizzare il suo stesso esercito.
Nel discorso di fine febbraio, oltre alla retorica politica si intravede l’atteggiamento di una persona che dà fondo alle proprie ultime certezze per provare a cambiare la situazione.
Ma il contesto è destinato a peggiorare. La storia di quei giorni, ci rimanda le accuse (poi rivelatesi false) di fosse comuni di rivoltosi e di repressione spietata da parte dei suoi fedelissimi.
Tanto basta per mettere in piedi, a marzo, una missione a guida Nato su pressing soprattutto francese ed inglese.
Questa volta c’è anche l’Italia. Da Tripoli Gheddafi vede gli aerei occidentali che bombardano il Paese,
una nazione che forse mai tale è stata ma che adesso si va lentamente a disgregare ed a vedere l’avvicinarsi della fine di una lunga era.

Si dice che il 30 dicembre 2006, dinnanzi alle immagini dell’impiccagione di Saddam Hussein, Gheddafi abbia avuto addirittura una reazione isterica.
Come se, in qualche modo, in quell’istante ha immaginato lui al posto dell’ex leader iracheno. A lui è andata anche peggio.
Con un Paese oramai non più controllato e con i beni finanziari sequestrati e congelati, Gheddafi sceglie sì di restare in Libia ma intuisce che oramai è solo questione di tempo.
Ed il 20 ottobre 2011 tutto finisce lì dove è iniziato: a Sirte. Scovato nella sua roccaforte da alcuni ribelli, viene linciato ed ucciso assieme al figlio Mutassim.
Il resto è storia di questi giorni e questi anni, contrassegnati dal caos da cui oggi appare difficile venirne fuori.
 
Mu’ammar Gheddafi ha avuto otto figli, sette maschi ed una femmina.
Soltanto il primogenito è figlio della relazione del primo matrimonio del colonnello, Fatiha.
Gli altri invece sono tutti nati dal secondo matrimonio, quello con Safia Farkash.

I potenziali successori di Muhammar Gheddafi sono proprio figli suoi.

In primis, Saif al Islam Gheddafi: nato nel 1972, è a lui che oggi gli eredi politici del colonnello guardano per un eventuale ritorno di un Gheddafi al potere.
Saif ha sempre mostrato durante gli anni di governo del padre di essere politicamente molto attivo:
è lui che compare in tv, ancora prima del colonnello, per parlare con i libici allo scoppio delle proteste del 2011 e cercare di calmare gli animi.
Ed è ancora proprio lui negli ultimi anni della Jamahiriya a consigliare al padre importanti riforme, volte a rendere più stabile la Libia in vista di un eventuale passaggio di consegne.
Catturato nel 2011 e ferito alla mano da un raid della Nato, Saif è stato condannato a morte nel 2015.
Ma le milizie che lo avevano in consegna, ossia quelle di Zintan, prima rifiutano di consegnarlo alla corte di Tripoli, poi lo liberano.
Oggi vive, da uomo libero, in Libia ma non è mai apparso in video.
Si vocifera, nel caso di elezioni, di una sua possibile candidatura per guidare il paese e, in tal senso, molte tribù e diversi cittadini sarebbero pronti a sostenerlo.

Un altro potenziale successore era Mutassim Gheddafi, quartogenito del colonnello.
Nato nel 1974, di lui si parlava molto bene in ambienti diplomatici.
La sua visita a Washington nel 2009, dove ha incontrato l’allora Segretario di Stato Hillary Clinton,
è stata vista all’epoca come un suo successo personale essendo stato delegato dal padre ad aprire importanti canali di dialogo con gli Usa.
Di Mutassim si parla al passato e non a caso: è proprio lui ad essere al fianco del rais a Sirte nell’ottobre del 2011 ed assieme al padre viene giustiziato dagli insorti.

Un altro figlio di Gheddafi famoso in Europa è indubbiamente Saadi, nato nel 1973. Impegnato nel mondo del calcio,
oltre ad essere stato presidente della locale federcalcio Saadi ha giocato in Serie A con Perugia, Sampdoria ed Udinese.
Non proprio una gran bella figura come calciatore, ma indubbiamente nei primi anni 2000 questo ha attirato l’attenzione dei media sulla Libia e sul nostro campionato.
Attualmente è rinchiuso in un carcere di Tripoli. Alcuni anni fa in un video era apparso bendato e preso a bastonate sui piedi da non meglio specificati miliziani.

Di Hannibal, nato nel 1975, si conoscono soprattutto i suoi guai con la giustizia in Europa.
A Roma, come a Parigi, ma soprattutto a Ginevra le autorità lo hanno bloccato per maltrattamenti in un albergo.
In quel caso era scoppiato un caso diplomatico con Muhammar Gheddafi che aveva chiesto all’Onu addirittura lo scioglimento della confederazione elvetica.

Sayf Al Arab, nato nel 1982, è deceduto durante i bombardamenti Nato del 2011.
La sua morte ha generato proteste anche in Europa: prima della guerra, il giovane figlio del rais studiava in Europa e non aveva avuto nulla o quasi a che fare con la gestione del potere di suo padre.
Eppure sarebbe stato oggetto di un bombardamento Nato mirato contro di lui.

Non si sa invece nulla di Khamis, il più giovane dei Ghaddafi: dato per morto durante la guerra, nel 2013
sarebbe invece stato protagonista di un’irruzione in una caserma nel sud della Libia.
Ufficialmente risulta latitante, ma non si hanno più notizie da diverso tempo.

A parte il discorso che riguarda Saif, che vive da uomo libero in Libia, esiste oggi un quartier generale dei Gheddafi?
E soprattutto, la famiglia del rais è ancora unita e coesa?

Nel 2011 si avevano tante notizie circa la fuga dei Gheddafi tra Algeria e Niger.
Dal 2015 invece, tutti gli scampati dalla guerra di sette anni fa si trovano in Oman.
La stessa Safia Farkash è nella capitale del sultanato da almeno tre anni ed ha al suo fianco, in primis, l’unica figlia femmina avuta con il colonnello.

Aisha
, nata nel 1976, aveva un buon rapporto con il padre: è diventata molto giovane avvocato,
ha difeso anche Saddam Hussein nel processo del 2005 successivo alla cattura dell’ex rais iracheno.
Sarebbe lei, assieme alla madre, a curare dall’Oman gli interessi della famiglia Gheddafi.


In Oman si trova anche Muhammad, primogenito ed unico figlio avuto dal rais con la prima moglie.
Nonostante sia stato il primo figlio del colonnello, è sempre stato distante da ogni ipotesi di successione politica al padre ed ha gestito negli anni la compagnia telefonica di Stato.

Anche Hannibal è in Oman con la madre e la sorella, il suo ruolo attuale all’interno della famiglia non è però mai stati ben specificato.
Da lì, dalla capitale del sultanato, i Gheddafi guardano ed osservano le ultime evoluzioni sul campo libico.
Da lì sentono anche le voci di tanti libici che rimpiangono la stabilità e, forse, proprio da lì i Gheddafi sarebbero pronti a far rientro in Libia
specie se i propositi di Saif di diventare presidente possano trovare presto concrete sponde di realizzazione.
 
Ultima modifica:
Diventa sempre più internazionale il caso di Hannibal Gheddafi, il quintogenito di Muammar Gheddafi attualmente ancora detenuto in Libano dopo una condanna per oltraggio alla magistratura. http://www.occhidellaguerra.it/hannibal-gheddafi-libano/

Proprio in merito la detenzione a Beirut di uno dei più “irrequieti” figli del rais libico si è occupato anche il governo siriano.
Uno strano intreccio Gheddafi-Assad, in cui da Damasco si chiede il rilascio di Hannibal a seguito delle rimostranze della moglie che vive proprio nella capitale siriana.

Adesso a pressare le autorità libanesi è anche la Russia. A rivelarlo è il quotidiano panarabo con sede a Londra Al Sharq al Awsat.

La vicenda di Hannibal Gheddafi ha origini molto lontane, addirittura a quando il quintogenito ha solo due anni.
Nel 1978 infatti, in circostanze ancora oggi misteriose scompare l’imam sciita Musa Al Sadr.
Non proprio uno di poco conto nel mondo sciita: è lui che nel 1974 “riabilita” dopo quasi mille anni l’alauismo all’interno dello sciismo.

Alauita è la famiglia Assad, già allora al potere in Siria: da quel momento, il governo di Damasco viene considerato organico al mondo sciita.
Ma l’imam risulta popolare nel mondo arabo ed attivo in Libano: qui fonda un partito, Amal, ancora oggi esistente e ben radicato nel Paese dei cedri.
Poi, come detto, nel 1978 scompare nel nulla: la misteriosa sparizione avviene proprio mentre l’imam è in Libia.
Una vicenda questa, che incrina da allora i rapporti tra Beirut e Tripoli.

Hannibal Gheddafi circa dieci anni fa sposa proprio una libanese: si chiama Aline Skaf, di professione fa la modella.
Forse sapendo che nel Paese dei cedri il nome di suo padre non è ben visto, il figlio del rais decide di andare a vivere a Damasco
una volta crollato il potere della sua famiglia e non invece nella città della moglie.
Qui, come rivela la sua consorte in una passata intervista, la coppia sembra vivere meglio e sotto una maggior privacy nonostante la guerra civile.

Proprio quattro anni fa, l’11 gennaio 2015, Hannibal viene però rapito e portato in Libano. I suoi stessi rapitori lo consegnano poi alle autorità di Beirut.
E qui entra in gioco la vicenda di Musa Al Sadr. Gli inquirenti libanesi interrogano più volte (ed in malo modo, a giudicare dalle foto mostrate nei mesi successivi dalla moglie)
Hannibal nella speranza di sapere qualcosa sull’imam sciita scomparso in Libia. Ovviamente il figlio di Gheddafi non sa nulla, della vicenda non sembra affatto aggiornato.
Pur tuttavia, Hannibal da allora è ancora in carcere con l’accusa, come detto prima, di oltraggio alla magistratura.
Ed ecco perché, dopo la lettera del governo siriano, adesso si registra l’intervento del Cremlino.
Secondo il sopracitato Al Sharq al Awsat, pare che funzionari della diplomazia russa si siano rivolti anche al presidente del parlamento libanese, Nabih Berri.
L’interlocuzione con il rappresentante del potere legislativo di Beirut sarebbe stato interpellato non solo per la sua funzione istituzionale,
ma anche perché presidente del partito Amal, lo stesso fondato da Musa Al Sadr. Si cerca quindi di giungere, nel giro di poco tempo, alla conclusione del caso.

Il motivo dell’intervento della Russia
Il fatto che da Mosca si sia direttamente ed attivamente intervenuti sul caso di Hannibal Gheddafi,
può essere interpretato come un altro importante segnale dell’interessamento del Cremlino sul dossier libico.
La Russia in Libia è molto attiva: non soltanto gli ottimi rapporti con il generale Haftar, ma anche la prospettiva di una base navale in Cirenaica
sono aspetti concreti che indicano come Putin dia molto interesse alla stabilizzazione del paese africano.

Il Cremlino a Palermo, nello scorso mese di novembre, in occasione del vertice per la Libia organizzato dall’Italia invia il primo ministro Dmitri Medvedev.
Ed è proprio il governo russo a permettere un riavvicinamento tra Roma ed Haftar, consentendo la buona riuscita di quel summit.
Una Russia quindi impegnata su più fronti in Libia, che adesso interviene anche sulla questione che riguarda uno dei figli dell’ex rais.

L’Italia non può prescindere dalla Libia.

Un segno di vicinanza e buoni rapporti con la famiglia Gheddafi, ecco la valenza dell’intervento russo sul caso di Hannibal.
Un interessamento chiesto forse dallo stesso Saif Al Islam Gheddafi, l’erede politico del padre e fratello maggiore di Hannibal, i cui emissari a dicembre raggiungono il Cremlino.
Tra questi spicca Mohammed al Gallush, braccio destro di Saif, il quale avrebbe consegnato una lettera dello stesso figlio del colonello direttamente a Vladimir Putin.

A questo punto anche lo stesso intervento dei giorni scorsi di Assad, alleato russo nella regione, potrebbe essere riletto all’interno del contesto della strategia russa in Libia.
 
Sembrerò prevenuto, ma questa notizia mi sa di losco.......ma tanto tanto.

Quando si è trovata tra le mani un portafoglio con all’interno diverse banconote non ha avuto dubbi,
l’unica cosa da fare era quella di riuscire a riconsegnare il denaro al legittimo proprietario.

E così è stato. E’ accaduto a Monza, dove una donna che aveva appena terminato di fare la spesa in un supermercato in via Marsala,
erano circa le 20, stava raggiungendo insieme al figlio l’autovettura lasciata al parcheggio.
E’ stato proprio il ragazzino a notare il portafoglio zeppo di soldi per terra.
La madre lo ha raccolto e senza pensarci due volte è tornata all’interno del supermercato per lasciarlo alla cassiera.
Il portafoglio è subito giunto tra le mani del direttore che è stato il primo ad aprirlo e a rendersi conto del malloppo custodito al suo interno, 35mila euro.
L’uomo senza perdere tempo lo ha consegnato al vicino commissariato di Polizia locale.
Poco tempo ed è stato rintracciato il giovane proprietario che aveva smarrito i soldi.

Lo sbadato cliente del supermercato, secondo alcune informazioni, sarebbe un giovane imprenditore brianzolo e i contanti custoditi sarebbero tutti i risparmi della sua attività.
Li avrebbe persi nel parcheggio e sarebbe tornato a casa senza accorgersene.
L’uomo ha spiegato agli agenti di essersi trasferito da poco tempo in una villetta con poche abitazioni nel circondario e di temere di poter subire dei furti.
Per questo motivo aveva deciso di portare i soldi con sé, per essere sicuro non gli venissero rubati.
Non aveva fatto però i conti con la sua sbadataggine. Fortunatamente ha trovato una persona onesta che ha riconsegnato il gruzzolo al legittimo proprietario.
 
Ragazzi, non sapete cosa fare ? Venite a pulire i boschi.........

Guidava bendata in autostrada ed è finita contro un’auto.
Per fortuna sia lei sia gli occupanti dell’altra auto sono illesi.
Ma il sospetto è che la conducente, una ragazza americana di 17 anni dello Utah, si sia ispirata al film horror di Netflix “Bird Box”.

Nella pellicola, la protagonista, Malorie (interpretata da Sandra Bullock),
è costretta a muoversi bendata in un mondo post apocalittico per evitare di incrociare lo sguardo con misteriose creature che spingono al suicidio.

Sulla base del film, giudicato mediocre dalla critica, sui social è scattata una sfida, la Bird Box Challenge, che invita a superare una serie di prove mentre si è bendati.
L’associazione dei genitori degli Stati Uniti ha chiesto la cancellazione del film dalla piattaforma Netflix a causa di questa sfida diventata virale tra i giovani.

“Per favore non fatevi del male con questa bird box challenge” “Non sappiamo come sia cominciata, apprezziamo l’affetto
ma ragazzi e ragazze – aggiunge Netflix in riferimento ai figli della protagonista del film – abbiamo solo un desiderio per il 2019
ed è che non finiate in ospedale per imitazione”.
 
Nella querelle tra Baglioni e Salvini, e nella crociata mediatica pro o contro il cantautore romano o il ministro dell’Interno leghista,
scende in campo una personalità del calibro di Peppino Di Capri che, in procinto di ricevere un premio alla carriera
proprio alla prossima edizione del festival di Sanremo dai microfoni di Un giorno da pecora, tutt’altro che intimidito
si schiera apertamente con il leader del Carroccio e contro la predica buonista del collega cantautore.

Tanto che, a precisa domanda rivolta a Peppino Di Capri dal conduttore del programma radiofonico di Radio uno
– «Baglioni ha parlato anche della situazione dei migranti della Sea Watch, suscitando l’immediata risposta del Ministro Salvini. Lei con quale delle due posizioni è d’accordo?» –
il cantante partenopeo risponde:

«Forse più con Salvini; bisogna accogliere quelli giusti».

Poi, aggiustando il tiro, non solo conferma, ma rilancia pure:

«Non sono razzista, ben vengano tutti, ma bisogna pur darsi una regolata».

A quel punto, quando l’indomito conduttore radiofonico lo incalza – forse non incline a rassegnarsi alla replica filo-salviniana del suo ospite –
chiedendo a Di Capri: «Le piace quindi la posizione di Salvini? – il cantante con il garbo che lo contraddistingue, ribadisce:

«La condivido abbastanza, fa parte di un’inquadratura generale della situazione»,

i giochi sembrano fatti e l’ultima parola dovrebbe essere stata pronunciata. E invece…
E invece no: e i conduttori Lauro e Cucciari, evidentemente non eccessivamente soddisfatti della risposta data e sottolineata dal cantante loro ospite,
e forse in cerca di provocazioni, parafrasando un celebre pezzo di Peppino Di Capri, azzardano: «Si potrebbe dire Champagne, per brindare al governo?».

Ma il cantante non ci sta, e fermo nelle sue posizioni, e forse anche un po’ contrariato, replica:

«…Madonna, veramente, fateli fare un po’, poi vediamo che succede».

E non occorre davvero aggiungere altro…
 
Le riforme - perchè abbiano una riuscita - si fanno sempre partendo dal basso.
Prendiamo la scuola. Dare un bel calcinkulo a certi dirigenti.
Prima media = 11 anni.

Sono la mamma di un ragazzino che frequenta le medie presso l’Istituto Comprensivo di Mandello.

Vi scrivo perché la scuola quest’anno non ha previsto l’acquisto, tra gli altri, di un testo di grammatica italiana e,
dopo varie lamentele dei genitori riportate dai rappresentanti di classe, ha risposto con una circolare a mio avviso scandalosa.

Le parti salienti sono i consigli:

attenzione in classe alle spiegazioni puntuali dell’insegnante;
uso consapevole del quaderno di grammatica;
Oppure utilizzo di una qualsiasi grammatica italiana facilmente reperibile
(vecchio o nuovo, in un manuale scolastico qualsiasi di grammatica italiana, per fortuna, le regole sono sempre le stesse).

Mi sembra che stiano seguendo le stesse regole della Provincia che, anziché sistemare le strade, abbassa i limiti di velocità!

Tra l’altro non riesco a capire la motivazione, visto che la grammatica italiana è tra le materie d’insegnamento
e compiti e verifiche vengono proposte con regolarità (e, se vogliamo dirla tutta, le regole non sono da sempre le stesse, “a me mi” ai miei tempi era vietato!).

Allora perché acquistare un nuovo testo di francese? Le regole non sono sempre le stesse?
Non potevamo usare quello della nonna? I ragazzi non hanno forse testi uguali per tutte le altre materie?

Nella circolare si dice anche che facoltativamente si potrebbe acquistare un testo di grammatica del costo di ben € 5.65….
ma a metterlo nell’elenco si andava fuori budget perché, tra i libri da acquistare per la prima media,
c’erano i tre volumi di geografia (che, come ben sappiamo, non è così statica come la grammatica)
cioè quelli per la prima, la seconda e la terza media.

Vi saluto cordialmente e vi ringrazio.
 
Cassin - Ferrari erano di famiglia con mio padre.

Era domenica anche il 13 gennaio 1974, quarantacinque anni or sono, quando quattro Ragni di Lecco arrivavano alle 17.45 sulla cima del Cerro Torre dal versante Ovest in Patagonia,
concludendo vittoriosamente la spedizione del centenario di fondazione della sezione CAI di Lecco.

Il vice-capo spedizione, Gigi Alippi, prima della partenza, nel novembre 1973, aveva dichiarato:
“Questa impresa è intesa a festeggiare nel modo più degno il centenario di fondazione del Club Alpino Italiano di Lecco
e vuole rinverdire gli allori del glorioso sodalizio, risolvendo quello che è universalmente ritenuto uno dei problemi alpinistici ancora da risolvere,
cioè il versante Ovest del Cerro Torre, in Patagonia”.

Quattro uomini erano stati scelti per l’assalto finale: Casimiro Ferrari, Giuseppe Negri, Daniele Chiappa e Mario Conti.

I quattro raggiunsero il Cerro Torre superando la terribile parete che diverse volte aveva respinto l’assalto.
I Ragni facevano sventolare al vento la bandiera tricolore italiana, il vessillo della città di Lecco ed il guidoncino del gruppo Ragni CAI.
Un missionario di Galbiate, padre Giovanni Corti, comunicò telefonicamente a Lecco la bellissima notizia dallo sperduto villaggio di Rio Gallegos.

Dodici componenti formano la spedizione al Cerro Torre: dieci Ragni e due aggregati prendono il volo da Linate per il sud America.
Oltre ai già citati vi erano Gigi Alippi, Giuseppe Lafranconi, Ernesto Panzeri, Claudio Corti, Angelo Zoia, Lorenzo Acquistapace, Sandro Liati e Mimmo Lanzetta.

Riccardo Cassin, nell’assumere la presidenza della sezione CAI di Lecco aveva dichiarato
“Sono ritornato alla presidenza della nostra sezione nell’anno del centenario ed ho assunto questo gravoso compito
con la certezza che i nostri soci, giovani ed anziani, daranno il loro appoggio morale e materiale per incominciare
i secondi 100 anni con un’attività degna della tradizione alpinistica lecchese. Cento anni fa i lecchesi fondarono l
a ventesima sezione a livello nazionale del CAI e da quel lontano 1874 è incominciata la storia dell’alpinismo lecchese,
con il passare degli anni, si è portato all’avanguardia nazionale e, possiamo dire, anche internazionale”.


Quarantacinque anni dopo il Cerro Torre solo Mario Conti, detto Zenin, classe 1944, lecchese del quartiere San Giovanni, in contrada Varigione, è rimasto a rievocare quella storica impresa.
Conti è stato presidente dei Ragni ed ora abita a Sondrio. Il prossimo 7 febbraio raggiungerà la Patagonia, per via aerea da Londra a Buenos Aires;
sarà la sua sedicesima visita in questa terra lontanissima dopo la prima avvenuta con il Cerro Torre.
Andrà sulle orme di Casimiro Ferrari, che nel 1974 guidò la spedizione e che è deceduto nel 2001.
Incontrerà anche una troupe della TSI, la televisione della Svizzera italiana, che sta realizzando un documentario proprio sul Ragno lecchese.

Diversi organi di informazione sottolinearono, nel 1974, che l’anno della celebrazione centenaria si apriva nei migliori dei modi:
il Cerro Torre era la nuova stella di una straordinaria costellazione dei Ragni di Lecco, dal McKinley ’61 al G IV, all’Jiriskanka, ed altre.
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