Val
Torniamo alla LIRA
Costruire case di edilizia popolare. Questa decisione doveva essere presa...prima.
Sulla Tav il Movimento Cinque stelle continua a fingere che la realtà non esista.
Ogni tanto se ne trova qualche traccia in documenti poco reclamizzati in Italia,
come nelle comunicazioni ufficiali che il ministro alle Infrastrutture Danilo Toninelli
invia alla sua omologa francese, Elisabeth Borne, sempre condite dall’inevitabile premessa,
«Nel rispetto del trattato internazionale».
Peccato che nelle abbondanti esternazioni quotidiane degli ormai ex grillini questo dettaglio
venga sempre omesso, per quanto di fondamentale importanza.
Con qualche buona ragione, dal loro punto di vista.
Ogni decisione sulla linea ad alta velocità che dovrebbe collegare Torino a Lione
verrà infatti presa nel rispetto di un trattato internazionale approvato nel 2017
dai parlamenti di Parigi e Roma, che per essere cancellato dovrebbe nuovamente passare
dal voto della Camera e dal Senato, dove conteranno i voti dei leghisti del nord,
che da quell’orecchio hanno già detto di non sentirci troppo, pena la rivolta delle loro basi elettorali.
All’ordalia parlamentare non ci si arriverà mai, se non per sancire l’impossibilità della convivenza tra le due anime dell’attuale governo.
Ma anche questo non si deve dire, perché in conflitto con la narrazione già scritta da tempo dagli strateghi a Cinque stelle,
che prevede all’inizio un’ampia cassa di risonanza al «no» dell’analisi costi-benefici voluta da Toninelli,
ultima in ordine di tempo dopo altre sette che invece avevano dato esito positivo.
Perché l’unica cosa davvero importante è far sapere ai propri sostenitori che ce la stanno mettendo tutta
contro l’infrastruttura divenuta per loro simbolo di ogni nefandezza da grande opera.
Poi verrà lo scontro apparente con i poteri forti, brutti e cattivi, di qualunque latitudine, e infine, buona ultima,
la presa d’atto dei fatti, finora negati con l’insistenza propria di una infinita campagna elettorale.
L’uso della razionalità o il richiamo ai doveri che competono a chi riveste cariche istituzionali non sono previsti per la Tav.
Il No a quell’opera è un valore non negoziabile, iscritto nel Dna del M5S così come l’abbiamo conosciuto finora.
Per questo Luigi Di Maio si mostra freddo sull’ipotesi di una consultazione popolare sulla Torino-Lione, caldeggiata da un inedito asse Pd-Lega.
Quel referendum, che si svolga in Italia, in Piemonte o persino in Val di Susa, toglierebbe ogni possibile alibi.
Non è un caso che questa eventualità sia sempre stata vista come il fumo negli occhi dal movimento No Tav,
ben consapevole di essere minoranza anche a casa propria.
Sulla Tav il Movimento Cinque stelle continua a fingere che la realtà non esista.
Ogni tanto se ne trova qualche traccia in documenti poco reclamizzati in Italia,
come nelle comunicazioni ufficiali che il ministro alle Infrastrutture Danilo Toninelli
invia alla sua omologa francese, Elisabeth Borne, sempre condite dall’inevitabile premessa,
«Nel rispetto del trattato internazionale».
Peccato che nelle abbondanti esternazioni quotidiane degli ormai ex grillini questo dettaglio
venga sempre omesso, per quanto di fondamentale importanza.
Con qualche buona ragione, dal loro punto di vista.
Ogni decisione sulla linea ad alta velocità che dovrebbe collegare Torino a Lione
verrà infatti presa nel rispetto di un trattato internazionale approvato nel 2017
dai parlamenti di Parigi e Roma, che per essere cancellato dovrebbe nuovamente passare
dal voto della Camera e dal Senato, dove conteranno i voti dei leghisti del nord,
che da quell’orecchio hanno già detto di non sentirci troppo, pena la rivolta delle loro basi elettorali.
All’ordalia parlamentare non ci si arriverà mai, se non per sancire l’impossibilità della convivenza tra le due anime dell’attuale governo.
Ma anche questo non si deve dire, perché in conflitto con la narrazione già scritta da tempo dagli strateghi a Cinque stelle,
che prevede all’inizio un’ampia cassa di risonanza al «no» dell’analisi costi-benefici voluta da Toninelli,
ultima in ordine di tempo dopo altre sette che invece avevano dato esito positivo.
Perché l’unica cosa davvero importante è far sapere ai propri sostenitori che ce la stanno mettendo tutta
contro l’infrastruttura divenuta per loro simbolo di ogni nefandezza da grande opera.
Poi verrà lo scontro apparente con i poteri forti, brutti e cattivi, di qualunque latitudine, e infine, buona ultima,
la presa d’atto dei fatti, finora negati con l’insistenza propria di una infinita campagna elettorale.
L’uso della razionalità o il richiamo ai doveri che competono a chi riveste cariche istituzionali non sono previsti per la Tav.
Il No a quell’opera è un valore non negoziabile, iscritto nel Dna del M5S così come l’abbiamo conosciuto finora.
Per questo Luigi Di Maio si mostra freddo sull’ipotesi di una consultazione popolare sulla Torino-Lione, caldeggiata da un inedito asse Pd-Lega.
Quel referendum, che si svolga in Italia, in Piemonte o persino in Val di Susa, toglierebbe ogni possibile alibi.
Non è un caso che questa eventualità sia sempre stata vista come il fumo negli occhi dal movimento No Tav,
ben consapevole di essere minoranza anche a casa propria.