Noiosi crudeli romantici euro-tecnocrati

– Lungi dal diminuire, la crisi dell’euro ha preso una piega sempre più brutta negli ultimi mesi. La Banca Centrale Europea è riuscita ad attenuare un’incipiente stretta del credito mediante la sua Operazione di Rifinanziamento a Lungo Termine (ORLT), con cui ha dato in prestito più di mille miliardi alle banche della zona euro ad un tasso d’interesse dell’1%. Quest’operazione ha apportato notevole sollievo ai mercati finanziari e la ripresa che ne è risultata ha oscurato il deterioramento sottostante, ma è improbabile che ciò duri per molto ancora.
I problemi fondamentali non sono stati risolti; difatti, lo scarto tra paesi creditori e quelli debitori continua ad ampliarsi. La crisi è entrata in quella che potrebbe essere una fase meno instabile, ma potenzialmente fatale.

All’inizio della crisi, la disgregazione della zona euro era impensabile: gli attivi e passivi denominati in valuta comune erano così intrecciati che un fallimento avrebbe causato un collasso incontrollabile. Ma, con l’avanzare della crisi, il sistema finanziario della zona euro si è progressivamente orientato nuovamente lungo linee nazionali.
Questa tendenza ha acquisito slanci negli ultimi mesi. L’ORLT ha consentito alle banche spagnole ed italiane di impegnarsi in un arbitraggio molto redditizio ed a basso rischio nei propri titoli di stato. Ed il trattamento preferenziale riservatogli dalla BCE sulle sue obbligazioni greche scoraggerà altri investitori dal detenere debito sovrano. Se continua così per qualche anno ancora, è possibile che vi sia la disgregazione della zona euro senza un tracollo –la frittata potrebbe non essere strapazzata- ma lascerebbe le banche centrali dei paesi creditori in possesso di crediti di grandi dimensioni, difficili da esigere, verso le banche centrali dei paesi debitori.

La Bundesbank è consapevole del pericolo. È ora impegnata in una campagna contro l’espansione indefinita dell’offerta di moneta, ed ha iniziato a prendere dei provvedimenti per contenere le perdite da sostenere nel caso di un fallimento. Questo comporta una profezia che si auto avvera: una volta che la Bundesbank comincia a mettersi in guardia contro il collasso, tutti faranno lo stesso. I mercati stanno cominciano a rispecchiare questo comportamento.
La Bundesbank sta restringendo il credito anche in patria. Questa sarebbe una politica corretta se la Germania fosse un paese indipendente, ma i paesi membri della zona euro fortemente indebitati hanno un enorme bisogno del rafforzamento della domanda tedesca per evitare la recessione. Senza di esso, il “pacchetto fiscale” della zona euro, approvato lo scorso dicembre, non può funzionare. I paesi fortemente indebitati non saranno in grado di attuare le misure necessarie, o, nel caso lo facessero, non riusciranno a raggiungere i loro obiettivi, poiché una crescita prossima al tracollo spinge verso il basso le entrate di bilancio. In entrambi i casi, saliranno gli indici di indebitamento, e si allargherà il divario di competitività con la Germania.
Sia che l’euro resista o meno, l’Europa si trova a far fronte ad un lungo periodo di stagnazione economica o peggio. Altri paesi hanno attraversato esperienze simili. I paesi latino americani hanno subito un “decennio perduto” dopo il 1982, ed il Giappone è stato in stagnazione per un quarto di secolo; entrambi sono sopravvissuti. Ma l’Unione Europea non è un paese, ed è improbabile che sopravviva. La trappola del debito deflazionistico minaccia di distruggere un’unione politica ancora incompleta.
L’unico modo per sfuggire alla trappola è riconoscere che le politiche attuali sono controproducenti e cambiare rotta. Non posso proporre un programma predefinito, ma emergono tre osservazioni. In primo luogo, le norme che disciplinano la zona euro hanno fallito e devono essere radicalmente riviste. La difesa di uno status quo che risulta impraticabile non fa che peggiorare le cose. Secondo, la situazione attuale è fortemente anomala, ed alcune misure eccezionali sono necessarie per ripristinare la normalità. Infine, le nuove regole devono tener conto dell’instabilità intrinseca dei mercati finanziari.
Per essere realistici, si deve prendere come punto di partenza l’attuale patto fiscale che disciplina la zona euro. Naturalmente, si dovranno modificare alcuni difetti già evidenti. In particolare, il patto dovrebbe tenere in conto i debiti commerciali e quelli finanziari, ed i bilanci pubblici dovrebbero distinguere tra investimenti che pagano e spesa corrente. Al fine di evitare truffe, ciò che si qualifica come investimento dovrebbe essere soggetto all’approvazione di un’autorità europea. Una Banca Europea degli Investimenti allargata potrebbe quindi co-finanziare gli investimenti.
Cosa ancora più importante, si devono inventare alcune misure straordinarie per riportare le condizioni alla normalità. La carta fiscale dell’UE obbliga gli stati membri ogni anno a ridurre il loro debito pubblico di un ventesimo della somma con cui si supera il 60% del PIL. Propongo che gli stati membri premino congiuntamente coloro che si comportano correttamente mediante l’acquisizione di tale obbligo.

Gli stati membri hanno trasferito i propri diritti di signoraggio alla BCE, che guadagna circa 25 miliardi di euro (32.7 miliardi di dollari) all’anno. Il valore dei diritti di signoraggio è stato stimato da William Buiter di Citibank e Huw Pill di Goldman Sachs, che lavorano separatamente, essere tra i due e i tre mila miliardi di euro, perché daranno di più man mano che l’economia cresce e i tassi di interesse tornano alla normalità. Una cosiddetta “società veicolo” (SPV - Special Purpose Vehicle) proprietaria dei diritti potrebbe utilizzare la BCE per finanziare il costo di acquisto delle obbligazioni, senza violare l’articolo 123 del Trattato di Lisbona.
Se un paese violasse il patto di stabilità, perderebbe totalmente o parzialmente la sua ricompensa e sarebbe obbligato a pagare gli interessi sul debito di proprietà della SPV. Che difatti imporrebbe una dura disciplina fiscale.
Poiché premierebbe i comportamenti corretti, il patto fiscale non costituirebbe più una trappola deflazionistica del debito, ed il panorama migliorerebbe radicalmente. In aggiunta, per ridurre il divario di competitività, tutti gli stati membri dovrebbero essere in grado di rifinanziare il proprio debito al medesimo tasso di interesse. Ma questo richiederebbe una maggiore integrazione fiscale; e quindi dovrebbe essere introdotto per tappe graduali.
La Bundesbank non accetterà mai tali proposte, ma le autorità europee dovrebbero prenderle seriamente in considerazione. Il futuro dell’Europa è una questione politica, e quindi decidere va al di là delle competenze della Bundesbank.


George Soros
Apr. 11, 2012


http://www.project-syndicate.org/commentary/reversing-europe-s-renationalization/italian
 
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The European Project is doomed –

By Peter Oborne
8:06 PM BST 16 May 2012

European leaders were driven by three motives when they embarked upon that ill-fated monetary experiment, the euro. The first was financial: they were set upon the creation of a global currency that was capable of competing on the world stage with the dollar. The second motive was economic. By eliminating exchange risks, they believed they would promote trade and deepen the single market.

But the over-riding purpose was, beyond question, political. The founding fathers of the eurozone were determined to use the single currency to promote political union. By doing this, they hoped to domesticate Germany, which had caused such chaos and devastation across the continent during the first half of the 20th century.

Noble though this project was, it is now possible to judge that it has failed on all counts. The euro has not mounted a serious challenge to the dollar, and it is no longer able to do so. Indeed, Europe is beginning to be held in contempt by the emergent powers of the Far East: hence the recent decision by China to hold off from purchasing any more euro-denominated debt, an overlooked reason why Italian and Spanish bond yields have soared in recent weeks.


Meanwhile, trade falters. The benefits of a single exchange rate were real enough. But they have been eclipsed by a problem which the founders failed to foresee. The ongoing economic calamity means that counter-parties are no longer prepared to do any business at all with the weaker eurozone countries.

Starved of investment, large sections of the Greek and (increasingly) Spanish economies are now opting out of the financial system altogether, and reverting to ancient forms of barter and self-sufficiency.
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What on earth is Britain doing trying to save the euro? - Telegraph
 
Europeismo è pragmatismo. E’ questa, alla luce dell’attuale crisi dei debiti sovrani, la prima equazione che viene in mente leggendo questo saggio di Giorgio La Malfa a dodici anni di distanza dalla sua prima pubblicazione. Il libro è aggiornato nel titolo (dal profetico “L’Europa legata. I rischi dell’euro” al più cronachistico “L’Europa in pericolo. La crisi dell’euro”), arricchito da una prefazione di Paolo Savona e da un nuovo saggio introduttivo dell’autore, ma restano immutate le tesi e le ragioni di chi condivide il “valore ideale” dell’Europa unita e allo stesso tempo mostra “perplessità sulle regole di funzionamento dell’Unione monetaria europea (Ume)”. Perplessità dovute al fatto che sin dall’inizio, “mentre era chiara l’attribuzione delle responsabilità in materia di prevenzione dell’inflazione, nell’assetto complessivo dato all’Unione monetaria mancava totalmente un centro propulsore della crescita economica”. Nel volume si ricordano le ragioni eminentemente economiche dell’evoluzione dello Sme (Sistema monetario europeo) in Ume nel 1992: a un certo punto si riconobbe infatti “che il mantenimento nel tempo di un regime di cambi fissi, in presenza della libertà di movimento dei capitali, comporta la rinuncia all’autonomia delle politiche monetarie nazionali e quindi la necessità della loro sostanziale unificazione”. La strada da percorrere però non era obbligata: la direzione poteva essere quella suggerita dall’italiano Altiero Spinelli o quella proposta dal francese Jean Monnet, ovvero quella europeista-federalista (l’unione monetaria può venire soltanto dopo l’unione politica) o quella europeista-minimalista (l’unione monetaria costringerà in futuro all’unione politica).

Dalla presentazione del rapporto del Comitato Delors nel 1989 al Consiglio di Amsterdam che nel 1997 approva il Patto di stabilità, passando per il trattato di Maastricht del 1992, è evidente la scelta della seconda strada. Ma per essere davvero pragmatici sarebbe stato meglio sposare subito le tesi europeiste e imboccare la prima. Gli stati membri preferirono definire sulla carta – tra trattato di Maastricht e Statuto della Bce – dettagliatissimi obiettivi e regole su conti pubblici e moneta, privandosi invece di strumenti comunitari robusti per affrontare choc economici come quello che attraversiamo. Non è un caso, per esempio, che La Malfa già nel 2000 sottolineasse la mancanza di una Banca centrale europea che, in stile Fed o Bank of England, potesse intervenire come “prestatore di ultima istanza” a sostegno dei bond statali in caso di crisi di liquidità. Per volontà e timori innanzitutto tedeschi, mantenere “la stabilità dei prezzi” divenne invece l’unica missione della Bce, poi declinata nell’obiettivo di un’inflazione che non superasse mai il 2 per cento. Risultato: il mandato previsto per l’Istituto oggi presieduto da Mario Draghi è addirittura “più vincolante” di quello della Bundesbank tedesca, che dal 1957 deve “salvaguardare la moneta” e “sostenere la politica economica generale del governo”; per non parlare della Fed americana alla quale la legge attribuisce la missione di garantire “massima occupazione”, “stabilità dei prezzi” e “livelli contenuti dei tassi di interesse a lungo termine”.

L’errore fondamentale, secondo La Malfa, è quello di avere “ritenuto che, dando al potere monetario un carattere tecnocratico e non politico, la moneta avrebbe acquisito prestigio. Non si è compreso che il prestigio di una moneta è nella forza complessiva che sprigiona l’entità statale che essa rappresenta, non nello status di chi l’amministra”, e oggi “dietro l’euro non c’è nulla”. Tutto ciò è stato scritto nel 2000 ma – profeticamente? – vale allo stesso modo per l’oggi.

21 febbraio 2012

"L’Europa in pericolo. La crisi dell’Euro" di Giorgio La Malfa - [ Il Foglio.it › Una fogliata di libri ]

http://www.giorgiolamalfa.it/nuovo/wp-content/uploads/2012/02/foglio-31-gennaio-20121.pdf
 
May. 22, 2012
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L’euro condivide importanti caratteristiche con le versioni del vecchio gold standard (o sistema monetario aureo), in base al quale i Paesi fissavano il tasso di cambio per tutte le coppie di valute rispetto al valore dell’oro. Oggi alcuni sono dell’idea che il gold standard sia stato sinonimo di stabilità economica e finanziaria. Ma questo è in totale contraddizione con i dati storici: l’era del gold standard è ricca di cicli di boom-bust alimentati dagli eccessivi indebitamenti da parte di governi, imprese, privati.
Esistono tre differenze tra l’euro e il gold standard, nessuna delle quali sembra particolarmente rassicurante al momento.
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Infine, per quanto riguarda la disciplina prevista dal gold standard, i Paesi che vi aderivano sospendevano regolarmente la convertibilità – e quindi la valuta domestica non poteva più essere convertita liberamente in oro. Ma gli europei di oggi non hanno una valuta domestica, ma solo l’euro. Se un Paese, ad esempio la Grecia, lasciasse l’euro, tutti i contratti in quei Paesi andrebbero riscritti. L’interruzione, soprattutto dei crediti, sarebbe profonda.
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L’attenzione oggi è rivolta alla periferia europea e a quanto possa essere difficile per quest’area attuare un programma di aggiustamento e ritornare alla crescita, a causa della combinazione di elevato debito pubblico e misure di austerità reali o percepite. Ma c’è anche il rovescio della medaglia: il capitale fluisce in Germania, considerato un porto sicuro regionale, rendendo il credito più facilmente reperibile in questo Paese. La dinamica del processo di aggiustamento all’interno dell’Eurozona aggrava gli squilibri interni. E intanto la Germania diventa sempre più competitiva, a differenza della periferia.

Le recenti elezioni greche hanno portato più partiti radicali al foro. Alexis Tsipras, il capo della Coalizione della sinistra radicale fa una corretta osservazione: la “svalutazione interna” – tagliando salari e prezzi – sta fallendo come strategia. La sua alternativa sembra essere quella di abbandonare l’euro. Se la Grecia non riuscirà a fare meglio di così, sostiene, allora dovrebbe abbandonare

Ma tutto ciò non riguarda più solo la Grecia. Anche l’Italia, la Spagna, il Portogallo e persino l’Irlanda stanno affrontando le stesse problematiche, ma sono solo all’inizio del colpo di coda. La disoccupazione sta crescendo, le loro economie non stanno acquisendo competitività e i tassi di interesse sul debito continuano a salire. Questi Paesi potrebbero alla fine decidere di lasciare l’euro. E, anche se non facessero questa scelta, il solo timore di questi abbandoni potrebbe facilmente rivelarsi profetico.
Il sistema euro è stato progettato per garantire prosperità e stabilità ad ogni Paese. Ha sicuramente mancato l’obiettivo per alcuni Paesi, e potrebbe fallire per molti altri.
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Forse un’unione fiscale più solida, un ministero centrale delle finanze e la condivisione del debito potrebbero ridurre le difficoltà e gli squilibri al punto tale da consentire all’euro di sopravvivere. Forse l’aggiustamento inizierà a funzionare appena in tempo.
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P. Boone , S. Johnson

"L
 
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Jun. 19, 2012, 1:29 PM

Great note from Nomura's Richard Koo, looking at the so-called "competitiveness problem" of the Southern European nations.
Rather than some inherent problem found there, Koo says that what happened is that after the 2000 tech bubble collapsed (a bubble which Germany shared heavily in) the ECB used exceptionally loose monetary policy to stimulate the economy, so that Germany wouldn't have to revive its economy via fiscal policy.
This didn't do much domestically in Germany (which was suffering from a balance sheet recession) but did really rev up the bubbles in the periphery, causing the boom in imports from Germany, thus putting the periphery in debt, and boosting Germany's export sector, rescuing it from the post-tech-bubble funk.
Says Koo:
The countries of southern Europe, which had not participated in the IT bubble, enjoyed strong economies and robust private- sector demand for funds at the time. The ECB’s 2% policy rate therefore led to sharp growth in the money supply, which in turn fueled economic expansions and housing bubbles.

Wages and prices increased... leaving those countries less competitive relative to Germany.
In short, the ECB’s ultra-low policy rate had little impact in Germany, which was suffering from a balance sheet recession, but it was too low for other countries in the eurozone, resulting in widely divergent rates of inflation.

As Germany became increasingly competitive relative to the strong economies of southern Europe, exports grew sharply and pulled the nation out of recession. Germany’s trade surplus quickly overtook those of Japan and China to become the world’s largest, with much of the growth fueled by exports to other European markets.

ECB, not southern Europe, responsible for competitiveness gap

In 2005, I told a senior ECB official that it was unfair to force other countries to rescue Germany by boosting their economies with loose monetary policy without requiring Germany to administer fiscal stimulus, when it was Germany that had become so deeply overextended in the bubble. The official responded that that is what a unified currency means: because Germany could not be granted an exception on fiscal stimulus, the only option was to lift the entire region with monetary policy.
In other words, there would have been no need for such dramatic easing by the ECB—and hence no reason for the competitiveness gap with the rest of the eurozone to widen to current levels—if Germany had used fiscal stimulus to address its balance sheet recession.

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Read more: RICHARD KOO: The Entire Crisis In Europe Started With A Big ECB Bailout Of Germany - Business Insider



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L' Euro è un sistema monetario assurdo e alcuni suoi gravi inconvenienti erano stati previsti circa 20 anni fa da un valido economista britannico, Wynne Godley

Euro, un fallimento annunciato. Venti anni fa il keynesiano Wynne Godley spiegava perché non poteva funzionare « Keynes blog

" ...... Cosa succede se un intero paese – un potenziale ‘regione’ in una comunità pienamente integrata – subisce una battuta d’arresto strutturale? Finché si tratta di un Stato sovrano, può svalutare la propria moneta. Si può quindi operare con successo verso la piena occupazione se la gente accetta il taglio necessario dei redditi reali [cioè l'inflazione, ndr]. Con una unione economica e monetaria, questo ricorso è ovviamente escluso, e la sua prospettiva è davvero grave, salvo accordi su bilanci federali che svolgano un ruolo redistributivo. Come è stato chiaramente riconosciuto nella relazione MacDougall che è stato pubblicato nel 1977, ci deve essere uno scambio tra la rinuncia alla possibilità di svalutare e la redistribuzione fiscale. Alcuni autori (come Samuel Brittan e Sir Douglas Hague) hanno seriamente suggerito che l’Unione monetaria, abolendo la bilancia dei pagamenti nella sua forma attuale, abolirebbe il problema, dove esiste, di una persistente incapacità di competere con successo sui mercati mondiali. Ma, come il professor Martin Feldstein ha sottolineato in un articolo importante nel Economist (13 giugno), questo argomento è pericolosamente sbagliato. Se un paese o regione non ha il potere di svalutare, e se non è beneficiario di un sistema di perequazione fiscale, allora non c’è nulla che possa fermare un processo di declino cumulativo e terminale che conduce, alla fine, all’emigrazione come unica alternativa alla povertà o alla fame. ... "
 
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Alberto Bagnai insegna Politica economica a Pescara e in Francia e pensa
che occorra uccidere l’euro per salvare l’Europa.
giugno 2012

L’euro va bene, è che c’è la crisi dei debiti sovrani.
I maggiori economisti internazionali, da Paul Krugman a Paul De Grauwe, non la pensano così. Se il problema fosse il debito pubblico, dal 2008 – quando esplode la bolla dei mutui subprime – la crisi avrebbe colpito prima Grecia e Italia (debito pubblico al 110% e al 106% del Pil), invece i mercati punirono Irlanda (44%), Spagna (40%) e Portogallo (65%), Paesi accomunati da squilibri di bilancia dei pagamenti, causati dalla rigidità del cambio, che hanno portato all’accumu lazione di debito privato.

Debito privato?
Senza flessibilità del cambio, se un Paese compra all’estero più di quanto venda, dovrà farsi prestare dall’estero la differenza. Un deficit di bilancia dei pagamenti porta così a debiti verso l’e s t e ro , prevalentemente privati. Il resto del mondo continua a far credito per finanziare la vendita delle proprie merci, come succede tra Cina e Usa. La crisi in Europa esplode quando le banche tedesche, scottate dai subprime, devono rientrare dei loro crediti verso la periferia.

Ma tutti scrivono che il problema sono i debiti pubblici.
A monte il problema nasce perché le banche – i cui crediti sono i debiti dei privati – hanno prestato largamente, realizzando profitti: quando la crisi economica ha messo famiglie e imprese in difficoltà, lo Stato ha salvato le banche, tassando le famiglie. E ora il debito è pubblico.

Ma Giavazzi e Alesina dicono che è colpa nostra che non abbiamo fatto le riforme.
Potevamo approfittare di più del dividendo dell’euro, ma comunque prima della crisi il debito pubblico era sceso di oltre 10 punti. La spesa pubblica però non l’abbiamo potuta ridurre di più perché l’euro, penalizzando il nostro commercio, già ci sottraeva domanda estera .

Però la Germania le riforme le ha fatte, vende pure in Cina.
Non è vero: la bilancia commerciale della Germania con la Cina era negativa ed è peggiorata. Invece è migliorata coi Paesi dell’Eurozona. Perché le riforme del mercato del lavoro in Germania si sono tradotte in una sostanziale precarizzazione, volta a comprimere i salari. E’ una svalutazione interna, la stessa che oggi viene chiesta a noi: ma la Germania, per assorbirne il costo sociale, violò per prima il Patto di stabilità e invece ora a noi chiede austerità.


Comprimere i salari? L’operaio tedesco guadagna il doppio dell’italiano.
In Germania non c’è solo la Volkswagen: c’è anche sotto-occupazione, ci sono i mini-job. Dopo le riforme i salari reali in media sono calati del 6,5 per cento.

L’euro, comunque, l’abbiamo fatto per avere stabilità.
Veramente oggi ci viene -etto da illustri protagonisti dell’entrata nell’euro che questa valuta terrà perché conviene alla Germania.

Conviene anche a noi: dove andavamo con la liretta…
I manuali di economia ci spiegano che gli agganci a una valuta forte spesso servono a imporre agli attori sociali di upaese ‘disciplina’ con lo spauracchio del vincolo esterno: guardi come non sono cresciuti gli stipendi in Italia o quello che sta accadendo con l’ar ticolo 18.


Ormai però siamo dentro e dobbiamo restarci.
In Italia abbiamo sotto gli occhi 150 anni di unione monetaria, politica, fiscale, eccetera. Quali sono i risultati? Il Mezzogiorno è oggi in deficit strutturale per 17 punti del suo Pil, che colma con risorse prese dal resto del mondo, fra cui trasferimenti fiscali dal Nord Italia.

Non starà dicendo che dobbiamo uscire dall’euro ?
Temo sia doloroso ma inevitabile, dovremmo gestire questo processo anziché subirlo. L’euro è solo l’undicesima moneta dell’Unione, quella che funziona peggio: l’Europa c’era prima e ci sarà dopo.


L’uscita dall’euro è una catastrofe: la lira si svaluterà e non varrà più niente .
Nel medio periodo il cambio recupera il differenziale di inflazione accumulato col paese di riferimento negli anni del cambio fisso. Così è successo all’Argentina e all’Italia quando uscì dallo Sme nel 1992: oggi la svalutazione sarebbe attorno al 20%.


E così avremo il 20% in più di inflazione .
Tutti gli studi negano ci sia un rapporto uno a uno tra svalutazione e inflazione: sarebbe lecito attendersi un aumento dell’inflazione fra i 2 e i 4 punti. Nel ’92 dopo una svalutazione del 20%: l’inf lazione scese dal 5 al 4%.



Tratto da: Fuori dall’Euro – Torniamo alla lira. Perché? | Informare per Resistere Fuori dall’Euro – Torniamo alla lira. Perché? | Informare per Resistere

- Nel tempo dell'inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario!
 
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Amartya K. Sen 27 gennaio 2013
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Nella brutale recessione che il mondo, e l'Europa in particolare, sta attraversando, c'è un numero enorme di persone disoccupate, dai redditi drasticamente ridotti, ....

Perché l'Europa è tanto nei guai? In effetti ha due problemi da affrontare: l'inflessibilità della moneta unica nella zona euro e la gestione della recessione attraverso la politica di austerità scelta da potenti leader politici e finanziari europei. Ne ho già scritto altrove ("Cosa ti è successo, Europa?" Domenica- Il Sole 24 Ore, 26 agosto 2012, ndr) e sarò breve. Nella zona euro, l'integrazione e l'unione monetaria realizzate prima di avere il sostegno di una più stretta unione politica e fiscale non suscitano solo infortuni economici ma anche rapporti ostili tra i popoli dei vari paesi.
Di conseguenza, lo scenario di crisi e di salvataggi in cambio di tagli draconiani ai servizi pubblici – questioni economiche sulle quali tornerò – ha suscitato malumori. Se errori nella successione delle misure prese e nelle decisioni politiche contingenti hanno peggiorato il disamore internazionale per l'Europa (è stato così, a giudicare dalla retorica politica sentita di recente con forme diverse da nord a sud), è il pegno da pagare per la via che si è imboccata. La visione di un'unità europea crescente che era nata a Ventotene e a Milano negli anni Quaranta è stata assecondata male da piani di salvataggio che non solo hanno precipitato milioni di cittadini in una miseria nera, ma hanno anche generato una divisione di cui si poteva far a meno tra tedeschi prepotenti, secondo i greci, e greci fannulloni, secondo i tedeschi.

L'analogia, spesso invocata, con i sacrifici dei tedeschi per unire le due Germanie è del tutto fuorviante. In parte perché i sacrifici coordinati dal cancelliere Kohl erano intelligenti e progettati bene, e soprattutto perché al momento tra i paesi europei non esiste il senso di unità nazionale che predisponeva i tedeschi ad accettarli. Inoltre ricadevano sulla parte ricca del paese dove il cancelliere era basato: questo fatto ha una qualità politica assai diversa dei tentativi di imporre una rigida austerità ai paesi più poveri dell'Europa meridionale da parte di leader politici che vivono in regioni più prospere.

Vengo ora alla crisi economica globale e agli sforzi europei per rimediare alla propria con l'austerità. La crisi che ha travolto il mondo nel 2008 non è nata in Europa, ma negli Stati Uniti e la recessione che ne è conseguita negli Stati Uniti ha avuto ripercussioni sul resto del mondo, in particolare in Europa. E' iniziata negli Stati Uniti, dove il settore finanziario si era comportato in modo estremamente irresponsabile e avventato. Il mondo aveva molte ragioni di essere infelice e scontento dell'economia statunitense, data l'eliminazione graduale - dai tempi del presidente Reagan – di quasi tutti i controlli sensati che regolamentavano le istituzioni finanziarie e le assicurazioni. Nel settore finanziario, i giocatori di serie A fecero un sacco di soldi, per se stessi innanzitutto, con esiti scintillanti ai quali corrispondevano prassi inaccettabili. Gli americani hanno causato la crisi, ma sono stati più veloci degli europei a temperarne l'intensità con uno stimolo fiscale. Contagiata dalla recessione, l'Europa adottò invece una filosofia immensamente contro-produttiva di redenzione attraverso l'austerità.

E' difficile vedere nell'austerità una soluzione economica assennata all'attuale malaise europeo. Non è neppure un buon mezzo per ridurre il deficit pubblico. Il pacchetto di provvedimenti richiesto dai leader finanziari è stato decisamente anti-crescita. Nella zona euro, la crescita è stata così tentennante e il prodotto interno lordo è calato così tanto che l'annuncio di una crescita zero sembra addirittura una "buona notizia". Sebbene la Gran Bretagna non sia sotto il potere finanziario dei leader della zona euro, ha scelto deliberatamente la strana filosofia della ripresa attraverso l'austerità, con lo stesso triste risultato. E' una politica fallimentare in Europa come lo è stata negli Stati Uniti negli anni Trenta e più recentemente in Giappone (una politica di contrazione che il primo ministro neo-eletto Shinzo Abe sta cercando di ribaltare).

Nella storia del mondo abbondano invece le prove che il modo migliore per ridurre il deficit non è l'austerità, ma una rapida crescita economica che generi reddito pubblico con il quale colmare il deficit. Dopo la seconda guerra mondiale, gli enormi deficit europei sono in gran parte spariti grazie a un veloce sviluppo; è successo qualcosa di simile durante gli otto anni della presidenza Clinton, iniziata con un deficit enorme e conclusasi senza, e in Svezia tra il 1994 e il 1998. Oggi la situazione è diversa, perché in aggiunta alla recessione la disciplina dell'austerità viene imposta per ridurre il deficit a molti paesi con un tasso di crescita zero o negativo. Creare sempre più disoccupazione laddove c'è una capacità produttiva inutilizzata è una strategia bizzarra, e non basta ai padroni della politica europea dire che non si aspettavano forti cali di produzione e alti e crescenti tassi di disoccupazione. Perché mai non se l'aspettavano? Da quale idea dell'economia si fanno guidare? Di sicuro la qualità intellettuale del loro pensiero è un motivo di infelicità. Non si tratta soltanto di avere un'etica solidale, ma anche un'epistemologia decente.

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Infelicità delle istituzioni europee - L'infelicità che proviamo oggi per il - Il Sole 24 ORE

Infelicità delle istituzioni europee - Nella storia del mondo abbondano invece - Il Sole 24 ORE
 

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