tontolina
Forumer storico
Derivati di Stato, la Corte dei Conti chiama in giudizio Morgan Stanley e vertici del Tesoro
I magistrati contabili parlano di un danno erariale da 3 miliardi e disegnano un quadro in cui il Tesoro ha sottoscritto strumenti speculativi, dando tutti i vantaggi in mano alla banca estera (che è specialista dei titoli di Stato) e senza poter quantificare gli effetti delle clausole inserite nei contratti. Prima causa del genere al mondo
di ALBERTO CUSTODERO
05 luglio 2017
La Procura presso la Corte de conti ha citato in giudizio la Morgan Stanley e i vertici del Tesoro che gestiscono la mole di debito pubblico - attuali e passati - per un danno erariale da 3 miliardi in relazione alla sottoscrizione di contratti derivati e relative clausole tra il Mef e la banca Usa. È un passo di risonanza globale, perché per la prima volta al mondo la giustizia contabile di uno Stato promuove un'azione a una banca estera: i precedenti erano limitati ad enti locali.
Pur essendo un ente privato (con sede legale a Londra), la Corte dei conti ritiene che Morgan abbia agito con le caratteristiche dell'ente pubblico (e quindi sotto la giurisdizione della Corte stessa e non del giudice civile), in quanto ha svolto di fatto un ruolo di consulente dello Stato. Questo rapporto però poi è degenerato, sostengono i magistrati contabili, al punto che lo Stato si è trovato nei confronti della Morgan in una sorta di semi soggezione finanziaria. Anche perché la stessa Morgan Stanley risiede nel circolo degli specialisti dei titoli di Stato, quel ristretto gruppo di banche che sottoscrive le aste di Btp e affini e ha quindi una importanza vitale nel collocamento del debito pubblico, a maggior ragione quando le emissioni sono tanto frequenti e importanti come avviene per l'Italia.
Secondo la Corte, insomma, Morgan Stanley disponeva e lo Stato eseguiva senza batter ciglio.
La citazione in giudizio segue gli atti delle scorse settimane, quando la Corte ha mandato la Gdf al Tesoro per acquisire documenti sulla vicenda che tra il 2011 e il 2012 ha portato lo Stato italiano a versare nelle casse della banca d'affari circa 3 miliardi di euro pubblici, per chiudere quattro contratti derivati e rinegoziare due coperture sulle valute. Secondo la Corte dei conti, la banca sarebbe responsabile del 70% dei danni causati, mentre il restante 30% se lo suddividono la direttrice del debito pubblico, Maria Cannata, con un ruolo preponderante (un miliardo di euro), il suo predecessore Vincenzo La Via e gli ex direttori del Tesoro, Domenico Siniscalco e Vittorio Grilli. A loro si fa risalire in particolare la gestione dei contratti (speculativi, per la Corte) sottoscritti dal Tesoro con Morgan Stanley, con clausole speciali che si sono rivelate vantaggiose solo per il colosso americano.
Ecco chi accusa la Corte dei Conti per i derivati di stato finiti male
1 di 5
Il danno erariale ipotizzato si consuma nel 2011, quando Morgan chiede l'applicazione di una clausola (Ate) del 1994 che era stata sempre rinnovata nonostante fosse da subito diventata desueta, in quanto la sua applicazione rendeva massimamente aleatorio il rischio dell'investimento per lo Stato. La ricostruzione della Corte parte da un assunto preciso: agli amministratori del denaro pubblico non è consentito sottoscrivere operazioni di carattere speculativo. Eppure proprio questo sarebbero, secondo i magistrati, le vendite di swaption finite sotto la lente.
Si tratta di opzioni che l'acquirente (la banca) riceve dal venditore (lo Stato) e che impegnano quest'ultimo a scambiare - in una data futura - i flussi di un tasso fisso con un variabile.
I magistrati contabili fanno l'esempio di una swaption collegata all'Interest Rate Swap a 30 anni da 3 miliardi: se nel 2004 lo Stato ha incassato 47 milioni di euro, nel 2011 per quello stesso meccanismo - quando il contratto è stato chiuso e ristrutturato - lo Stato ha dovuto versare alla Morgan Stanley oltre 1 miliardo di euro. Cifra che per la Corte non lascia dubbi su chi avesse fatto meglio i conti. Altre ricostruzioni di alcuni flussi finanziari fatte dalla Corte con tanto di tabelle, sono chiare.
Nel caso di una swaption venduta dal Mef nel 2004, si registrano fino al 2011 pagamenti per 645 milioni e riscossioni per 268, per una differenza negativa di 377 milioni.
In una swaption ristrutturata nel 2003 il saldo è positivo per 65 milioni, ma con una in ristrutturazione nel 2008 torna un saldo negativo di 277 milioni.
Al Tesoro, i magistrati contabili non addebitano il ricorso a strumenti derivati in sé, ma la responsabilità di aver lasciato introdurre una clausola spropositata, che ha dato per un decennio la facoltà alla banca di far scattare l'opzione di chiudere i contratti nel momento a lei più propizio. Un clausola che doveva essere contestata fin da subito, dicono i magistrati, eppure è sopravvissuta fino alla fine del 2011. Ed è scattata portando in cassa a Morgan in tutto 3 miliardi, quando pure le finanze dello Stato erano sotto massima pressione da rischiare di non pagare gli stipendi pubblici.
Senza che dal Mef, colpevolmente secondo la Corte, nessuno cercasse di opporsi.
Derivati di Stato, la Corte dei Conti chiama in giudizio Morgan Stanley e vertici del Tesoro
I magistrati contabili parlano di un danno erariale da 3 miliardi e disegnano un quadro in cui il Tesoro ha sottoscritto strumenti speculativi, dando tutti i vantaggi in mano alla banca estera (che è specialista dei titoli di Stato) e senza poter quantificare gli effetti delle clausole inserite nei contratti. Prima causa del genere al mondo
di ALBERTO CUSTODERO
05 luglio 2017
La Procura presso la Corte de conti ha citato in giudizio la Morgan Stanley e i vertici del Tesoro che gestiscono la mole di debito pubblico - attuali e passati - per un danno erariale da 3 miliardi in relazione alla sottoscrizione di contratti derivati e relative clausole tra il Mef e la banca Usa. È un passo di risonanza globale, perché per la prima volta al mondo la giustizia contabile di uno Stato promuove un'azione a una banca estera: i precedenti erano limitati ad enti locali.
Pur essendo un ente privato (con sede legale a Londra), la Corte dei conti ritiene che Morgan abbia agito con le caratteristiche dell'ente pubblico (e quindi sotto la giurisdizione della Corte stessa e non del giudice civile), in quanto ha svolto di fatto un ruolo di consulente dello Stato. Questo rapporto però poi è degenerato, sostengono i magistrati contabili, al punto che lo Stato si è trovato nei confronti della Morgan in una sorta di semi soggezione finanziaria. Anche perché la stessa Morgan Stanley risiede nel circolo degli specialisti dei titoli di Stato, quel ristretto gruppo di banche che sottoscrive le aste di Btp e affini e ha quindi una importanza vitale nel collocamento del debito pubblico, a maggior ragione quando le emissioni sono tanto frequenti e importanti come avviene per l'Italia.
Secondo la Corte, insomma, Morgan Stanley disponeva e lo Stato eseguiva senza batter ciglio.
La citazione in giudizio segue gli atti delle scorse settimane, quando la Corte ha mandato la Gdf al Tesoro per acquisire documenti sulla vicenda che tra il 2011 e il 2012 ha portato lo Stato italiano a versare nelle casse della banca d'affari circa 3 miliardi di euro pubblici, per chiudere quattro contratti derivati e rinegoziare due coperture sulle valute. Secondo la Corte dei conti, la banca sarebbe responsabile del 70% dei danni causati, mentre il restante 30% se lo suddividono la direttrice del debito pubblico, Maria Cannata, con un ruolo preponderante (un miliardo di euro), il suo predecessore Vincenzo La Via e gli ex direttori del Tesoro, Domenico Siniscalco e Vittorio Grilli. A loro si fa risalire in particolare la gestione dei contratti (speculativi, per la Corte) sottoscritti dal Tesoro con Morgan Stanley, con clausole speciali che si sono rivelate vantaggiose solo per il colosso americano.
Ecco chi accusa la Corte dei Conti per i derivati di stato finiti male
1 di 5
Il danno erariale ipotizzato si consuma nel 2011, quando Morgan chiede l'applicazione di una clausola (Ate) del 1994 che era stata sempre rinnovata nonostante fosse da subito diventata desueta, in quanto la sua applicazione rendeva massimamente aleatorio il rischio dell'investimento per lo Stato. La ricostruzione della Corte parte da un assunto preciso: agli amministratori del denaro pubblico non è consentito sottoscrivere operazioni di carattere speculativo. Eppure proprio questo sarebbero, secondo i magistrati, le vendite di swaption finite sotto la lente.
Si tratta di opzioni che l'acquirente (la banca) riceve dal venditore (lo Stato) e che impegnano quest'ultimo a scambiare - in una data futura - i flussi di un tasso fisso con un variabile.
I magistrati contabili fanno l'esempio di una swaption collegata all'Interest Rate Swap a 30 anni da 3 miliardi: se nel 2004 lo Stato ha incassato 47 milioni di euro, nel 2011 per quello stesso meccanismo - quando il contratto è stato chiuso e ristrutturato - lo Stato ha dovuto versare alla Morgan Stanley oltre 1 miliardo di euro. Cifra che per la Corte non lascia dubbi su chi avesse fatto meglio i conti. Altre ricostruzioni di alcuni flussi finanziari fatte dalla Corte con tanto di tabelle, sono chiare.
Nel caso di una swaption venduta dal Mef nel 2004, si registrano fino al 2011 pagamenti per 645 milioni e riscossioni per 268, per una differenza negativa di 377 milioni.
In una swaption ristrutturata nel 2003 il saldo è positivo per 65 milioni, ma con una in ristrutturazione nel 2008 torna un saldo negativo di 277 milioni.
Al Tesoro, i magistrati contabili non addebitano il ricorso a strumenti derivati in sé, ma la responsabilità di aver lasciato introdurre una clausola spropositata, che ha dato per un decennio la facoltà alla banca di far scattare l'opzione di chiudere i contratti nel momento a lei più propizio. Un clausola che doveva essere contestata fin da subito, dicono i magistrati, eppure è sopravvissuta fino alla fine del 2011. Ed è scattata portando in cassa a Morgan in tutto 3 miliardi, quando pure le finanze dello Stato erano sotto massima pressione da rischiare di non pagare gli stipendi pubblici.
Senza che dal Mef, colpevolmente secondo la Corte, nessuno cercasse di opporsi.
Derivati di Stato, la Corte dei Conti chiama in giudizio Morgan Stanley e vertici del Tesoro