Val
Torniamo alla LIRA
«Ho visto uno mangiare una cotoletta».
Il messaggio arriva dal centro di Bologna, che da qualche anno è una gigantesca food hall.
Là dove c’era la cartoleria della mia infanzia c’è un bistrot, e così là dove c’era il cinema, il negozio di vestiti, quello di dischi.
Il messaggio è allarmato perché sono le quattro di pomeriggio d’un giorno feriale.
Non è un pranzo tardivo.
È la cena prevista dal nuovo carnet di ballo della semichiusura: quella in cui diventeremo tutti Fiorello.
Allo scorso Sanremo (ve lo ricordate? Era quel festival di canzonette che si faceva finché ci potevamo assembrare),
Rosario Fiorello raccontò che la sua mirabile magrezza era dovuta al digiuno intermittente.
Trattasi d’una pratica secondo la quale, mangiando per poche ore al giorno
(le ore di digiuno quotidiane vanno da 14 – per i più mollaccioni – a 20),
non solo dimagrisci ma dai anche sollievo al sistema digerente cui non tocca lavorare ininterrottamente.
Il digiuno intermittente è il contrario di quell’abitudine adolescenziale (almeno: della mia adolescenza) per la quale,
quando verso le quattro di mattina esci dalla discoteca, vai a mangiare i bomboloni.
Passati gli anni in cui digerisci roba fritta alle quattro di mattina, arriva l’età adulta,
in cui dopo cena ti tocca la passeggiata perché sennò chi lo digerisce più questo piatto di merluzzo.
Ed è allora che qualcuno ti parla del digiuno intermittente.
L’ora solare è da sempre il periodo perfetto per pranzare a mezzogiorno e cenare alle quattro: alle quattro fa buio, che altro dovresti fare?
E così hai otto ore per digerire prima di dormire: persino se hai uno stomaco da vegliarda è abbastanza tempo.
Adesso, a incentivare la via fiorella al non appesantirsi, è arrivata la clausura parziale,
il confino part-time, insomma questo fesso provvedimento per il quale,
non essendo in grado di svuotare gli autobus nelle ore di punta,
abbiamo collettivamente deciso di fingere che il sovraffollamento fosse dovuto a chi andava a cena fuori,
e quindi abbiamo imposto ai ristoranti di chiudere alle 18.
Mi piace pensare che da questa scemenza nascerà una collettivizzazione del digiuno intermittente: impareranno tutti a nutrirsi finché c’è luce.
La luce è una componente fondamentale della questione.
Ho fatto il digiuno intermittente per tutta la scorsa ora solare (senza perdere un etto: Fiorello è evidentemente raccomandato), con pochissime eccezioni.
Tra le quali una cena di febbraio alla quale tutti sgranavano gli occhioni chiedendomi se veramente stessi adempiendo a quella pratica barbara,
se veramente non mi mancasse cenare, se veramente non soffrissi.
Spiegavo che io, quando alle quattro fa buio, alle cinque mi metto a letto.
Una volta che sei a letto non pensi più in termini di «ore pasti».
Anche se non dormirai per altre otto ore, potrai nutrirti di romanzi e serie televisive senza alcun senso di privazione:
è buio, non è ora di spaghetti (mica sono più i tempi della capatina da Bombocrêpe alle 4 di mattina).
Anche i meno vegliardi di me, quelli con la smania di uscire, si stanno adeguando ai nuovi ritmi da semiclausura.
I posti da aperitivo scaraffano rossi e bollicine alle quattro del pomeriggio, a Milano come a Bologna.
Cotolette non ne ho ancora viste, ma non dispero.
Ieri ho detto al mio ristoratore preferito che dovrebbe fare orario continuato fino alle sei.
Mi ha detto «ma chi ci viene».
Gli ho spiegato la mozione di noialtri che ceniamo alle quattro sempre, mica solo in emergenza.
Se i posti dell’aperitivo possono anticipare di tre ore, lui può anticipare di cinque, no?
Non aveva l’aria convinta, ma non dispero: si fiorellizzerà anche lui, basta aspettare.
Diventeremo un paese avanzato, in cui si pranza prima di mezzogiorno, e anche sotto la linea gotica si pranza in mezz’ora:
in La milanese (Solferino Libri), Michela Proietti scrive che «la pausa pranzo romana dura come un banchetto di nozze di un milanese»,
ed è chiaro che alzarsi dalla pausa pranzo alle tre è il principale ostacolo al cenare alle quattro.
Per fortuna è giunto il decreto presidenziale a imporcelo.
Per fortuna Conte (il segnaposto, no il cantante) vuole salvarci non solo dal virus polmonare ma anche dal reflusso gastroesofageo.
Sarà un gran periodo per le brioche: digiuni dal pomeriggio, arriveremo al mattino,
alla scadenza delle quattordici, sedici, venti ore intermittenti, famelici e pronti a far fatturare i bar pasticceria,
che incasseranno tutto ciò che verrà a mancare ai ristoranti che ci sfamavano la sera.
Sarà un ramadan per atei, una stagione di stomaci non affaticati e sciopero della casseoula
mica possiamo mangiarla a pranzo, un pomeriggio digestivo è un pomeriggio di totale improduttività.
Tra dieci anni, quando ci chiederanno in che modo la stagione del virus cambiò le nostre vite,
non ricorderemo le interminabili settimane in attesa che qualcuno ci facesse un tampone,
non rievocheremo la miseria dickensiana in cui ci gettò.
Diremo solo: ricordo benissimo quell’inverno in cui si faceva l’aperitivo alle quattro,
ma non riesco a rammentare a che ora si finisse di lavorare per essere davanti a uno spritz alle quattro.
Forse era una specie di pausa caffè: due spritz con le tartine e poi di nuovo in ufficio, per il turno di notte delle sei.
Vatti a ricordare.
Il messaggio arriva dal centro di Bologna, che da qualche anno è una gigantesca food hall.
Là dove c’era la cartoleria della mia infanzia c’è un bistrot, e così là dove c’era il cinema, il negozio di vestiti, quello di dischi.
Il messaggio è allarmato perché sono le quattro di pomeriggio d’un giorno feriale.
Non è un pranzo tardivo.
È la cena prevista dal nuovo carnet di ballo della semichiusura: quella in cui diventeremo tutti Fiorello.
Allo scorso Sanremo (ve lo ricordate? Era quel festival di canzonette che si faceva finché ci potevamo assembrare),
Rosario Fiorello raccontò che la sua mirabile magrezza era dovuta al digiuno intermittente.
Trattasi d’una pratica secondo la quale, mangiando per poche ore al giorno
(le ore di digiuno quotidiane vanno da 14 – per i più mollaccioni – a 20),
non solo dimagrisci ma dai anche sollievo al sistema digerente cui non tocca lavorare ininterrottamente.
Il digiuno intermittente è il contrario di quell’abitudine adolescenziale (almeno: della mia adolescenza) per la quale,
quando verso le quattro di mattina esci dalla discoteca, vai a mangiare i bomboloni.
Passati gli anni in cui digerisci roba fritta alle quattro di mattina, arriva l’età adulta,
in cui dopo cena ti tocca la passeggiata perché sennò chi lo digerisce più questo piatto di merluzzo.
Ed è allora che qualcuno ti parla del digiuno intermittente.
L’ora solare è da sempre il periodo perfetto per pranzare a mezzogiorno e cenare alle quattro: alle quattro fa buio, che altro dovresti fare?
E così hai otto ore per digerire prima di dormire: persino se hai uno stomaco da vegliarda è abbastanza tempo.
Adesso, a incentivare la via fiorella al non appesantirsi, è arrivata la clausura parziale,
il confino part-time, insomma questo fesso provvedimento per il quale,
non essendo in grado di svuotare gli autobus nelle ore di punta,
abbiamo collettivamente deciso di fingere che il sovraffollamento fosse dovuto a chi andava a cena fuori,
e quindi abbiamo imposto ai ristoranti di chiudere alle 18.
Mi piace pensare che da questa scemenza nascerà una collettivizzazione del digiuno intermittente: impareranno tutti a nutrirsi finché c’è luce.
La luce è una componente fondamentale della questione.
Ho fatto il digiuno intermittente per tutta la scorsa ora solare (senza perdere un etto: Fiorello è evidentemente raccomandato), con pochissime eccezioni.
Tra le quali una cena di febbraio alla quale tutti sgranavano gli occhioni chiedendomi se veramente stessi adempiendo a quella pratica barbara,
se veramente non mi mancasse cenare, se veramente non soffrissi.
Spiegavo che io, quando alle quattro fa buio, alle cinque mi metto a letto.
Una volta che sei a letto non pensi più in termini di «ore pasti».
Anche se non dormirai per altre otto ore, potrai nutrirti di romanzi e serie televisive senza alcun senso di privazione:
è buio, non è ora di spaghetti (mica sono più i tempi della capatina da Bombocrêpe alle 4 di mattina).
Anche i meno vegliardi di me, quelli con la smania di uscire, si stanno adeguando ai nuovi ritmi da semiclausura.
I posti da aperitivo scaraffano rossi e bollicine alle quattro del pomeriggio, a Milano come a Bologna.
Cotolette non ne ho ancora viste, ma non dispero.
Ieri ho detto al mio ristoratore preferito che dovrebbe fare orario continuato fino alle sei.
Mi ha detto «ma chi ci viene».
Gli ho spiegato la mozione di noialtri che ceniamo alle quattro sempre, mica solo in emergenza.
Se i posti dell’aperitivo possono anticipare di tre ore, lui può anticipare di cinque, no?
Non aveva l’aria convinta, ma non dispero: si fiorellizzerà anche lui, basta aspettare.
Diventeremo un paese avanzato, in cui si pranza prima di mezzogiorno, e anche sotto la linea gotica si pranza in mezz’ora:
in La milanese (Solferino Libri), Michela Proietti scrive che «la pausa pranzo romana dura come un banchetto di nozze di un milanese»,
ed è chiaro che alzarsi dalla pausa pranzo alle tre è il principale ostacolo al cenare alle quattro.
Per fortuna è giunto il decreto presidenziale a imporcelo.
Per fortuna Conte (il segnaposto, no il cantante) vuole salvarci non solo dal virus polmonare ma anche dal reflusso gastroesofageo.
Sarà un gran periodo per le brioche: digiuni dal pomeriggio, arriveremo al mattino,
alla scadenza delle quattordici, sedici, venti ore intermittenti, famelici e pronti a far fatturare i bar pasticceria,
che incasseranno tutto ciò che verrà a mancare ai ristoranti che ci sfamavano la sera.
Sarà un ramadan per atei, una stagione di stomaci non affaticati e sciopero della casseoula
mica possiamo mangiarla a pranzo, un pomeriggio digestivo è un pomeriggio di totale improduttività.
Tra dieci anni, quando ci chiederanno in che modo la stagione del virus cambiò le nostre vite,
non ricorderemo le interminabili settimane in attesa che qualcuno ci facesse un tampone,
non rievocheremo la miseria dickensiana in cui ci gettò.
Diremo solo: ricordo benissimo quell’inverno in cui si faceva l’aperitivo alle quattro,
ma non riesco a rammentare a che ora si finisse di lavorare per essere davanti a uno spritz alle quattro.
Forse era una specie di pausa caffè: due spritz con le tartine e poi di nuovo in ufficio, per il turno di notte delle sei.
Vatti a ricordare.