OGNI COSA HA iL SUO TEMPO. BISOGNA SOLO AVERE LA PAZIENZA E LA FORZA DI ASPETTARE.

azzarola petrolio a 26 dollari al barile 26/159 ovvero 0.145 centesimi di euro al litro tra poco a tavola metteremo le bottiglie di petrolio al posto dell'acqua minerale che costa di più:D:D:D
 
Io credo che mi hanno tolto il tumore e messo un microchip nel cervello a volte pure io non mi spiego certe cose che prima dell'intervento per me erano arabe, figurati che riesco a ricordare la chiave WPA del router alfanumerica della telecom di appena 42 caratteri misti tra minuscole maiscole e numeri:D:D:D

Ti stimo!!!!
 
Vado dove mi portano i pedali :-o
A dopo :ciao:


Ho deciso di adottare una nuova strategia con le mie ormai perenni Unicredit :rolleyes::rolleyes:
 

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Ho bisogno di qualche parola di conforto ,Mi sento poco bene dopo questa seduta in borsa
C'e' nessuno che ha lo spirito della filantropia?
 
Devo rivalutare la reputazione del mio angelo custode :-o
Non sempre si droga (come affermato questa mattina) :-o

Oggi c'è mancato davvero un soffio che la Dany non si spiaccicasse come una polpetta investita da un'auto :eek::help::sad:
Ho sentito un brivido freddo su per la schiena :help::rolleyes:

Invece sono ancora qua a rompervi le bal:censored:... allietare le vostre giornate :-o:rolleyes:
 
Ho bisogno di qualche parola di conforto ,Mi sento poco bene dopo questa seduta in borsa
C'e' nessuno che ha lo spirito della filantropia?

:vicini::)

Video Rai.TV - Sanremo 2016 - Ezio Bosso con 'Following a bird' a Sanremo 2016

L'intervista di Vanity Fair a Ezio Bosso: «Ogni nota che suono»
Il pianista torinese, affetto da Sla, ha emozionato la seconda serata di Sanremo. Noi l'avevamo incontrato nell'autunno scorso, e ci aveva raccontato come, nel buio, ha trovato il coraggio di affrontare la paura
«La parola stanza.
Non pensiamo mai alle parole, le diciamo e basta.
La parola stanza compare quando l’uomo si ferma, ma stanza, in inglese, è sinonimo
di spazio. C’è una targa, in una via di Firenze, che dice: qui il 25 aprile la libertà ha preso stanze. Bach scrive stanze. C’è un libro misterioso ripudiato dal buddismo tibetano, un libro che appare e scompare, si chiama Le dodici stanze,
dice che non viviamo un tempo, ma uno spazio.
Ho pensato alla parola stanza quando la vita mi ci ha chiuso dentro,
in una stanza troppo grande perché il mio corpo potesse percorrerla tutta,
ma troppo piccola per contenermi».

Ezio Bosso è un uomo che se non lo conoscete è proprio un peccato. Di mestiere fa il pianista e il compositore, ha scritto molte colonne sonore (moltissime di Salvatores), ha collaborato con i più grandi teatri del mondo, ma – stivaletti e skinny jeans – sembra un rocker e quando suona gli piace fermarsi e parlare con il pubblico. Alla fine della registrazione nel teatro di Gualtieri, in provincia di Reggio Emilia, dice a una signora che lo ringrazia: grazie a lei, nel disco c’è anche il suo respiro. Il disco si chiama The 12th Room, come quel libro «maledetto», ma i due cd in uscita a ottobre raccontano di una benedizione, quella della vita: «Le dodici stanze le attraversiamo tutte nella nostra esistenza. La dodicesima è anche la prima, quella in cui si ricordano tutte le altre e quindi quella in cui si è pronti per ricominciare». Per spiegare che lui quella stanza la conosce bene devo dire una cosa che Ezio non nasconde, ma nemmeno ama sia la cosa che lo definisce: ha una malattia autoimmune degenerativa alla quale, a un certo punto, si è unito un tumore al cervello. «Ho una malattia, ma non sono malato», dice di sé. «È questa malattia che mi ha fatto entrare nella mia dodicesima stanza. Era buia. Per il solo fatto di esserci entrato, ho disimparato tutto: a parlare, camminare, suonare. E poi ho imparato tutto di nuovo. È come se fossi rinato. È stato sulla sua soglia che hanno cominciato a sbocciare delle cose, a cadere delle reti. Ho deciso, per la prima volta, di incidere un disco, ho trovato il coraggio di fare il primo tour da solo, senza altri: se sbaglio è colpa mia».
Le reti cadono quando decidiamo di farle cadere: perché adesso?
«Noi umani siamo buffi perché troviamo l’esigenza sempre nel buio, mai nella luce. Io ho sentito che era il momento: non era prima, era adesso, e tutto me lo diceva. Anche questo peggioramento fisico che mi ha obbligato sulla sedia a rotelle, che mi sta antipaticissima ma mi porta lontano, mi ha aiutato. Ho scoperto una nuova vita, senza più filtri: li ho tolti, si sporcavano troppo».

Fa paura quella stanza?
«Tantissima, perché è la stanza in cui non esisto più. È il posto in cui le persone che ti vogliono bene fanno fatica a entrare. La paura esiste, inutile negarlo. E il coraggio ha le stesse caratteristiche dell’amore: riconosce la paura e va oltre. La paura che provi non la picchi, ma la tieni, le prendi le misure. E dici: sì, io vado».
Lei spesso definisce la sua malattia «l’incidente», a volte «il terremoto».
«Mi piace chiamarla così. È una storia, la mia. Noi siamo composti da storie, e non ci sono storie belle o brutte. Però hanno dei colori: possono essere tristi, disperate, allegre. Quello che bisogna evitare sono le storie noiose. Il mio disagio è per me occasione di non annoiarmi mai».

Quindi il suo terremoto non è una storia triste?
«È una esperienza orrenda, che non auguro a nessuno, ma anche meravigliosa. Io sono stato fortunato perché è arrivato tutto in un momento storico in cui l’aiuto è possibile: 15 anni fa sarei morto. Ed è arrivato quando anche io ero pronto: abbastanza grande da avere memoria, da potere accettare questo cambiamento».
L’accettazione c’è stata subito?
«All’inizio no. Cinque anni fa avevo anche deciso di dire ciao ciao a tutti. Non sapevo come affrontare la patologia e l’alieno nel cervello insieme: era un po’ troppo. Poi il mio medico, che è un amico, mi ha aiutato a resistere. Il mio timore più grande era non essere più autosufficiente. Io vivo da solo e di quello che stava succedendo non avevo detto niente a nessuno. L’ho fatto quando, per le terapie, ho perso 40 kg e sono andato a stare da mio fratello. È stato un momento difficile: ti accorgi che gli altri vedono il tuo cambiamento e soffrono perché non lo accettano. Ma succedono anche cose buffe: torni a essere una specie di neonato e la gente ti parla nei modi più strani. Uno grida e tu vorresti dire: guarda che non sono sordo. L’altro ti parla solo coi verbi all’infinito: andare, mangiare, l’altro ancora come se fossi un bebè. Il dolore più grande è stato quando l’ha saputo Anna Maria, la mia ex compagna, che per me è ancora famiglia. Ci siamo lasciati proprio per mantenere l’amore. Ma anche al suo dolore ho resistito: ho interrotto pochissimi libri nella mia vita, mi piace vedere come vanno a finire le storie. Voglio vedere anche come va a finire la mia».
Che cosa l’aiuta, ogni giorno?
«Claudio Abbado diceva che la musica è la nostra cura, e per me è stato così: quando ho rimesso le mani sul pianoforte, recuperando la memoria di ciò che sapevo fare e avevo dimenticato, tutto è diventato fluido. Ed è così anche adesso: mi rompo se non suono tutti i giorni».

Quando si è innamorato della musica?
«Mio fratello suonava. Fu lui, che per me era quasi un padre, a dire ai miei genitori quando avevo quattro anni: questo mi sa che vuole suonare. Non giocavo con gli altri bambini, ero solitario, ma appena vedevo uno strumento lo prendevo in mano. La musica era per me più bella di ogni giocattolo, di ogni corsa. Una zia di mio padre insegnava pianoforte, era vecchissima, mi mandarono da lei e io la detestavo perché non mi faceva suonare mai, solo solfeggio. Ho iniziato a comporre a 12 anni. A 17 mi mandarono a Vienna a fare l’accademia. La musica è una parte della mia vita. La musica e le persone».

Ha fatto sempre incontri buoni?
«Ne ho fatti anche di cattivi, ma so che non sono gli altri a farti male: sei tu che gli dai il potere di farlo».
Vive a Londra da dieci anni. Come mai?
«Perché volevo capire se ero bravo anche all’estero e la Royal Opera House mi ha dato un’opportunità. E perché era l’ultimo posto al mondo dove avrei vissuto. Invece mi piace molto. Come dicono gli inglesi: Londra non è una bella bionda, è una brunetta che impari ad amare. Ed è molto migliorata con la crisi, anche gli inglesi sono cambiati, sorridono».
In Italia ha casa?
«Io no, ma il mio pianoforte sì: abita a Palazzo Barolo a Torino, dove me lo ospitano. Lì due volte l’anno faccio lezione gratuita per tutti. Vengono bambini, quartetti, professionisti. Le mie lezioni sono strane, spesso faccio cominciare un bambino perché osservare e ascoltare una persona che comincia con la musica spiega più cose di mille professori messi insieme. La cosa più importante che ci insegna la musica è ascoltare. Quando ascolti, capisci. Ascoltare è un gesto di generosità. Quando faccio un concerto io ci metto le mani, ma il resto ce lo mette chi ascolta: suoniamo assieme».

Ha un amore, una donna?
«Sono stato a lungo molto imbarazzato di questo mio nuovo corpo, e altrettanto a lungo ho negato l’amore: preferivo parlarne invece di viverlo. Poi quest’anno ho incontrato una persona, non so cosa sarà, ma è caduta anche quella rete».
Che cosa pensa del suo futuro?
«Non ho più guardato al futuro, solo alla fine della giornata. Fa paura, il futuro. Fa paura pensare di averlo, e per questo ho imparato a ridisegnare il mio orizzonte. So che il mio corpo cade, e io cado. Si dice che se si cade ci si rialza, ma io non lo so se un giorno mi rialzo più. Però non mi importa. Non è una difesa, davvero non mi importa. Io sono fortunato: ogni giorno che ho guadagnato, ogni sguardo che ho ricevuto, ogni affetto che ho saputo dare, ogni piatto che ho cucinato è la mia vita».
www.youtube.com/watch?v=KUeE3hy97zs

personalmente ritengo queste parole una lectio magistralis di vita
impartitaci da un autentico FUORICLASSE dell'umano esistere :Y
possiamo TUTTI utilizzarle quotidianamente come... antidepressivo :up:;)
 

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