PARLARE CON UNA DONNA E' COME PARLARE iN UN TRIBUNALE; TUTTO CIO' CHE DIRAI POTRA'

Dopo poco più di un anno, a fronte di una nuova situazione in cui sono state raccolte non correttamente firme sul listino regionale che ha eletto Sergio Chiamparino governatore, sulle liste del Pd di Torino e Cuneo e sulla lista Monviso di Torino, il Tar ha salvato tutte le liste – tranne quella del Pd di Torino – non perché non vi siano stati dei palesi falsi (più di dieci persone sono indagate dalla Procura per falso), ma perché gli stessi – dice il Tar – non sono ritenuti sufficienti per annullare le elezioni.
Hanno superato la “prova di resistenza”. Cioè sono state raccolte, ad esempio, 2000 firme e 750 erano false, ma per presentare una lista ne bastavano 1000 quindi la lista è valida.
Lo stesso Tar infatti, ha accolto il ricorso contro la lista del Pd per Chiamparino della provincia di Torino che alle elezioni regionali ha raccolto ben 371.929 voti più di un terzo di tutti i consensi con cui il centrosinistra ha vinto le elezioni.
“La legge non è uguale per tutti”, sbotta Gian Luca Vignale, consigliere regionale di Forza Italia. Facendo ben capire che siamo davanti ad una sorta di decisione “ad Chiamparinum”, che oltretutto gli permetterà – nel contesto del turbolento cosmo del Pd di renziana generazione -, di regolare i conti, visto che nella lista incriminata ci sono autentici notabili che rischiano di decadere, primo fra tutti il segretario regionale Davide Gariglio.
“La Giunta regionale piemontese della Lega è stata fatta saltare per le irregolarità di una lista che aveva eletto un solo consigliere regionale (Michele Giovine, N.d.R.). Oggi lo stesso Tar del Piemonte dice che Chiamparino può restare presidente anche se fosse irregolare la lista Pd di Torino che eletti ne ha fatti otto. Io non commento, perché non ho parole per commentare”, ha dichiarato Riccardo Molinari, vicesegretario federale della Lega Nord.
 
“Per i nemici le leggi si applicano, per gli amici si interpretano, diceva Giovanni Giolitti. In realtà, la sentenza è una mezza risposta che non chiude la partita e lascia Chiamparino sulla graticola, rimandando tutto a ottobre. Sotto giudizio rimane non una lista qualsiasi, ma quella del partito di Chiamparino, il Pd. Se il presidente è coerente con quanto ha continuato a ribadire, deve immediatamente dimettersi per liberare il Piemonte dalla palude dell’immobilismo”.

“Chiamparino disse: ‘se non verrà dissipato ogni dubbio sulla mia elezione mi dimetto’. Ora, è vero che il compassionevole Tar del Piemonte ha respinto il ricorso sul listino bloccato di Chiamparino (e stendiamo un velo pietoso sulla sentenza ….), ma è anche vero che la lista del Pd di Torino è tutta riconosciutamente farlocca: dalle firme dei sottoscrittori a quelle degli autenticatori! Forse ho capito… Chiamparino usò il verbo dissipare nell’accezione di ‘far sparire’ (le prove) e non in quella di ‘fugare’ (i dubbi). Vergogna!!!!!”.

“Se veramente c’erano le firme false, non ci resta che constatare che in questo Paese non conta che cosa si fa, ma chi lo fa – così Gilberto Pichetto, capogruppo di Forza Italia in Regione Piemonte -. Da una prima valutazione, la sentenza che comunque assolve Chiamparino risulta una sentenza ad personam. Detto tutto questo mi pare però che il procedere con la querela di falso sulla lista del Pd dimostri che qualcosa di non chiaro c’era e c’è su tutta la questione”.

“Secondo il Tar del Piemonte le firme del Pd sono false soltanto un pochino, il giusto per salvare la poltrona a Chiamparino. La gente non è stupida ed è in grado di valutare e di capire!
 
Oggi dunque nasce la nuova Cassa depositi e prestiti dell’era renziana. Nuova perché sarà definitivo l’assetto di vertice con il consiglio di amministrazione guidato dall’ad, Fabio Gallia, al posto di Giovanni Gorno Tempini, dopo che l’assemblea la scorsa settimana ha eletto alla presidenza Claudio Costamagna al posto di Franco Bassanini, che resta presidente di Metroweb e diventa consigliere speciale di Palazzo Chigi.
Al di là delle parole di prammatica e delle comunicazioni ufficiali, il ribaltone pensato e voluto dalla presidenza del Consiglio – con un silente o gregario ministero dell’Economia che pure ha il possesso dell’80 per cento della Cdp – si è compiuto, piegando tra l’altro le fondazioni bancarie azioniste che ora non esprimono più il presidente della Cassa ma il vicepresidente e hanno chiesto alcune rassicurazioni su investimenti e redditività, che suonano come un contentino un po’ di facciata ottenuto dal governo.
Il premier Matteo Renzi aveva annunciato urbi et orbi a Porta a Porta che “motivi tecnici” inducevano “per forza” il governo a intervenire sulla Cassa, silurando i vertici con un anno di anticipo rispetto alla scadenza. Quei “motivi tecnici” non sono mai stati chiariti ufficialmente. Alcune ricostruzioni di ambienti vicini al governo li hanno attribuiti alla necessità di porre fine alla provvisorietà di nomine del cda composte a maggioranza di dirigenti e funzionari del Tesoro. Una circostanza che avrebbe potuto attirare le attenzioni di Eurostat sul ruolo pervasivo di uomini del Tesoro. Ma di questa interpretazione informale non vi è traccia in documenti e dichiarazioni ufficiali e peraltro non ha convinto parecchi addetti ai lavori.
Così la spiegazione formale del ribaltone è stata fornita prima da Franco Bassanini e poi dallo stesso governo: il piano industriale della Cassa è stato realizzato in anticipo, quindi va impostato un nuovo piano. Ergo, meglio farlo elaborare da un nuovo vertice. La spiegazione non fa una grinza. Si potrebbe obiettare: ma se il governo e l’azionista Tesoro si sono sperticati in lodi e apprezzamenti per i risultati raggiunti dalla Cassa, perché non continuare a dare fiducia agli attuali vertici?
 
Qualcosa in più del reale pensiero renziano si può evincere dalle parole pronunciate giorni fa dal consigliere renziano Andrea Guerra, che tempo fa anche a Palazzo Chigi si pensava di piazzare nel cda della Cassa. L’ex capo azienda di Luxottica ha detto esplicitamente che serve una Cassa più proattiva e incisiva, anche perché in un periodo di tassi bassi l’azione della Cassa va di fatto ripensata. Eppure leggendo le 13 pagine, chiare e appassionate, del presidente uscente Bassanini, che ha descritto evoluzione e fisionomia della Cassa divenuta di fatto una banca nazionale per lo sviluppo, si nota come e quanto la Cdp si sia spinta ben oltre il perimetro originario, rispettando peraltro i vincoli legislativi ed europei in termini di interventi finanziari e azionari.
“I tassi sono calati, per cui quella remunerazione che si aveva sul semplice tasso non funziona più. E’ importante riuscire a far sì che tutte le diverse attività della Cassa abbiano più dinamismo e incisività”, ha detto Guerra. Traduzione: siccome i tassi sono calanti già da diversi anni e anzi proprio all’inizio di quest’anno sono scesi a zero, l’attuale gestione ha agito troppo lentamente, per trovare altri sbocchi alla redditività di quei circa 250 miliardi di raccolta presso gli sportelli postali che la Cdp presta al Tesoro in cambio di un tasso di interesse basso e in diminuzione.
Ha scritto Giovanni Pons su Repubblica: la Cassa “ha un conto economico composto da margine di interesse, dividendi e operazioni straordinarie e negli ultimi cinque anni ha registrato una redditività molto elevata, staccando lauti dividendi per il Tesoro. La ricchezza non distribuita l’ha messa a patrimonio, salito da 13 a 19 miliardi in cinque anni. Il portafoglio di titoli di Stato è infatti passato da 0 a 20 miliardi, per esempio, permettendo di stabilizzare il debito pubblico in momenti difficili e creando un tesoretto di plusvalenze latenti”. Inoltre, “le ultime emissioni di bond Cdp sono state fatte direttamente sul mercato e al di fuori dalla rete postale iniziando un’opera di diversificazione proprio per aggirare l’onerosità del contratto con le Poste. Contratto che è stato appena rinegoziato assicurando alla società guidata da Francesco Caio 8 miliardi in cinque anni, un atout fantastico da giocarsi al momento dell’imminente privatizzazione. Ma agendo in questo modo il Mef, azionista sia di Poste che di Cdp, ha penalizzato quest’ultima”.
 
Le possibili nuove strade della Cassa renziana possono essere diverse: una spinta decisa verso la Export Banca al servizio delle aziende che esportano, un intervento più massiccio rispetto al miliardo dato da Cdp per il fondo cosiddetto Salva imprese avviato anche per il dossier Ilva, magari un ruolo per alleviare il moloch di sofferenze che gravano sugli istituti di credito.
Ma le recenti parole di Guerra vanno innanzitutto nella direzione di un potenziale intervento di Cdp in Telecom. “Cdp può fare molto di più“, ha detto Guerra alla Fondazione Corriere della Sera. “In Telecom Italia – ha aggiunto – succedono una serie di cose e ricordiamoci che la Deutsche Telekom ha la Cassa depositi tedesca tra i soci e Orange-France Telecon ha la Cdp francese. Non è che i nostri concorrenti sono tutti angeli o agnelli e noi siamo i più puri. Allora ci sono momenti in cui uno si prende delle responsabilità. Secondo me è cambiato il momento, è cambiata l’era, secondo me bisogna essere più incisivi e forse persone diverse possono essere più incisive. Se uno vuole credere a questo discorso, bene. Altrimenti costruisca i suoi palazzi ideologici“.
La questione Telecom rientra a tutti gli effetti anche nel dossier banda larga che il governo ha per il momento accantonato dopo tanti strombazzamenti su decreti, piani ecc. Evidentemente – dicono gli addetti ai lavori – il premier attende il nuovo assetto di Cdp per dare corso effettivo al piano per la banda ultra larga.
Sarà così? La Cdp dunque entrerà nel capitale di Telecom? Tra le fondazioni c’è chi inizia già a mugugnare. Ma con il caterpillar Renzi si esce sovente sconfitti, come hanno potuto constatare proprio gli enti azionisti della Cassa.
 
Lui, Varoufakis, aveva in mente a quel punto un piano basato su tre misure choc per fare pressione sui partner europei.

"Emettere i cosiddetti Iou (ovvero promesse di pagamento, equivalenti a buoni di credito), tagliare il rimborso dei bond detenuti dalla Bce e riprendere il controllo della Banca di Grecia sottraendolo a quello della Bce".

"Quella notte - attacca l'ex ministro - si è deciso che il 'no' del popolo greco non sarebbe stato la spinta propulsiva al mio piano, ma che anzi il governo era pronto a nuove concessioni nei confronti dell'Europa".
 
Si parte dalle banche, niente più salvataggi di stato: approvazione della direttiva sul "bail in" (per far pagare azionisti e correntisti). Si continua con i licenziamenti collettivi più facili: l'Eurogruppo vuole che vengano reintrodotti. Dunque il contestatissimo addio alla mini-Iva sulle isole greche, con aliquota standard al 23 per cento. Quarto punto, la privatizzazione della rete elettrica, uno dei punti centrali del piano di interventi. Si passa poi per un forte aumento delle tasse: abolizione dell'agevolazione sulla benzina per agricoltori, tassa sulle imprese dal 26 al 28%, aumento della tassa sul lusso tra le altre. Punto sei, più chiarezza nei conti pubblici: conferma degli obiettivi anche per il triennio 2015-2017 e un nuovo piano contro la corruzione. Punto sette: riforma delle giustizia civile per accelerare la risoluzione delle cause. Infine, ultimo punto, i tagli alle pensioni, già da quest'anno, e innalzamento dell'età pensionabile. Un programma che può richiedere anni, ma che la Grecia - per ordine della Merkel - deve realizzare in tre giorni. Il crollo, ora, è davvero più vicino
 

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