Per cortesia ripristinate il 3d di mototopo

Pubblicazione: venerdì 6 ottobre 2017

Poi non ditemi che non vi avevo avvertito. Nei mesi, riguardo a un piano preordinato di reset finanziario-politico dell'Ue. Dopo il voto tedesco, riguardo un irrigidimento tedesco in fatto di conti. Nel mio articolo di ieri, sul fatto che la nuova regolamentazione sugli Npl presentata dalla Bce e destinata a entrare in vigore dal 1 gennaio prossimo sarebbe stata una vera e propria arma di distruzione di massa per il nostro ancora convalescente sistema bancario. Ci siamo, ormai gli spill-over sono ovunque: la politica, la finanza, l'economia. L'Ue è una pentola a pressione talmente abusata da non reggere nemmeno un'atmosfera in più: sta soltanto aspettando il botto, per vedere chi morirà per primo e chi sopravviverà, dettando quindi le sue regole nel nuovo assetto, nel day after.

Partiamo dalla cosa a mio avviso più importante, ovvero la Bce e la nuova disciplina di gestione delle sofferenze bancarie. La questione è molto semplice: dal 1 gennaio, le banche dell'eurozona dovranno dar vita a maggiori accantonamenti nel momento in cui vedranno emergere criticità legate ai non-performing loans che hanno nei bilanci. Quindi, o si tagliano assets o si operano aumenti di capitale. Comunque si scelga, un bagno di sangue, stante le condizioni di mercato extra-Qe. E c'è di peggio, perché la quasi certezza è quella di una retroattività de facto della regolamentazione, ovvero un'accelerazione delle pratiche di valutazione da parte dei board e una stretta sugli attivi: la situazione in atto rispetto agli Npl è drammatica sia in Italia che in Spagna e, come vi dico da giorni, l'anello debole da colpire è proprio quello che rappresenta il nucleo forte del cosiddetto Club Med, l'asse italo-iberico. Oltretutto, con entrambi i Paesi sotto duplice pressione: l'Italia con i conti da far tornare per il Def, la Spagna con la grana catalana.


E che la mia non sia paranoia complottista, questa volta la conferma il giudizio di un uomo che difficilmente può essere tacciato di quel vizio oscuro, ovvero Antonio Patuelli, presidente dell'Abi. Ecco le sue parole al riguardo, espresse ieri durante un forum organizzato dall'Ansa: «Avevo un ottimismo più rilevante fino a ieri l'altro, poi ieri mattina il mio umore è cambiato, quando la Bce ha messo in consultazione un addendum che aggiunge non piccole cose, ma macigni alle ennesime regole sui crediti deteriorati... Se non corrette, le ultime disposizioni della Bce sulla gestione delle sofferenze rischiano di avere "forti effetti negativi" soprattutto sulle PMI. Questo intervento della Banca centrale di Francoforte è più una rivoluzione da sala della Pallacorda che un addendum, come invece è stato definito dalla Bce. L'operatività delle nuove norme prevista per il primo gennaio 2018 sta a dimostrarlo. Le norme precedenti dell'addendum era di primavera, la consultazione è stata pubblicata il 4 ottobre e si chiuderà a dicembre, per entrare poi in vigore a gennaio. Mi sembra un meccanismo un po' improvvisato».

Infine, la presa d'atto politica: «Il governo italiano è stato attenzionato sulle conseguenze negative della linee guida della Bce sugli Npl per le banche del nostro Paese, ma per avere risultati serve un concerto europeo di varie istituzioni, soggetti in tutta Europa». Il tutto, mentre la Bce sta decidendo se ritirare e quando gli stimoli monetari legati al Qe, tra cui gli acquisti corporate che hanno tenuto finora in vita molto aziende europee, grazie al credito a tasso zero di un'Eurotower che acquista a qualsiasi prezzo ogni pezzo di carta venga emesso.

sa vi dicevo la settimana scorsa? Per andare avanti con il Qe - e magari per potenziarlo - serve uno shock: direi che la mossa della Bce sui non-performing loans è una bomba a orologeria perfetta, oltretutto piazzata in un edificio instabile di suo per i conti pubblici e le divisioni politiche. Situazione che, ripeto, vale per l'Italia come per la Spagna. Ed ecco subentrare la variabile catalana, la quale non è questione solo di manganelli e minacce incrociate, bensì un nodo sistemico. Il cda del Banco Sabadell, uno dei principali istituti di credito spagnoli, si è infatti riunito nella serata di ieri in sessione straordinaria per decidere se spostare la sede sociale della banca, che ha attualmente domicilio nel comune catalano di Sabadell, a Madrid o ad Alicante. Stando a quanto confermato telefonicamente all'agenzia Efe da alcune fonti, sarà valutata anche l'opzione delle Asturie, seppure con meno probabilità e sempre al fine di proteggere i clienti. Alla luce della possibilità che la Catalogna dichiari unilateralmente l'indipendenza, il cambio di sede garantirà proprio che l'istituto rimanga sotto la vigilanza della Bce.

I servizi centrali della banca, che concentrano un grande numero di dipendenti, dovrebbero comunque restare in Catalogna: il titolo del Banco Sabadell è stato particolarmente colpito dall'incertezza causata dalle tensioni di questi giorni tra Barcellona e Madrid, perdendo da domenica a ieri circa il 12% del suo valore. Fatti, non chiacchiere ideologiche. E attenzione, perché ecco subentrare la terza variabile, quella tedesca. Quanto imposto dalla Bce sui non-performing loans appare infatti una concessione di Mario Draghi al nuovo clima che si sta instaurando a Francoforte, anche e sopratutto in vista del board del 25-26 ottobre prossimi, quello in cui si dovrebbero appunto svelare i tempi per il ritiro dello stimolo monetario. Qualcuno ha cominciato a porre dei vincoli, un do ut des, alla volontà di Mario Draghi di calciare obbligatoriamente ancora un po' in avanti il barattolo, stante le tensioni in atto? C'è qualcuno da sacrificare per evitare che l'intero palazzo crolli?

Pare di sì, visto che da qualunque angolazione la si guardi, la situazione in divenire sembra una tempesta perfetta in preparazione per Italia e Spagna, il tutto con la Troika che a giorni tornerà in Grecia e due scadenze elettorali che incombono il 15 ottobre, le legislative austriache e il voto regionale in Bassa Sassonia. Tira brutta aria e lo conferma l'irrituale schiettezza di Antonio Patuelli, uomo che proprio per il suo ruolo è normalmente obbligato alla diplomazia: qualcuno vuole colpire il nostro sistema bancario proprio ora che sembrava pronto a ripartire, dopo i "salvataggi"? C'è una duplice volontà, ovvero causare il casus belli di una nuova crisi dell'eurozona che "obblighi" la Bce a intervenire e, nel contempo, fare shopping a basso costo nel nostro Paese, operando cherry-picking sugli assets più profittevoli a prezzo di saldo?

Quanto tempo fa vi avevo detto che eravamo pronti a un 1992 versione 2.0? Bene, siete serviti. E attenzione a Fincantieri, a breve potrebbero esserci novità. Nemmeno a dirlo, non favorevoli all'Ital mauro bottarelli
 
Abbattiamo la Frode Bancaria e il Signoraggio
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IL DEBITO TRUFFA PER DEPREDARE IL POPOLO
Secondo tecnocrati finanziari, élite politiche e media mainstream, la vorticosa ascesa del nostro debito pubblico - 2.300 miliard i a luglio 2017 - dipenderebbe dal fatto che per decenni tutte e tutti noi abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità. Ma l’analisi dei dati storici e attuali ci mostra una realtà molto diversa da quella raccontata dalla narrazione prevalente. Proponiamo un capitolo dal volume "Dacci oggi il nostro debito quotidiano. Strategie dell’impoverimento di massa" di Marco Bersani (DeriveApprodi), in questi giorni in libreria.

di Marco Bersani

La spirale del debito pubblico tra ideologia e realtà

Al 31 dicembre 2016, il debito pubblico italiano è risultato pari a 2.217,7 miliardi, con un rapporto debito/Pil pari a 132,8%. Si tratta, a dispetto dei proclami di tutti i governi sulla priorità assoluta della riduzione del debito pubblico, di una continua ascesa, che, se collocata nel medio periodo, corrisponde a un innalzamento di 30 punti percentuali del rapporto debito/Pil negli ultimi 10 anni (102,7% a fine 2006).

Come sempre, poiché un elemento essenziale della relazione creditore/debitore è l’interiorizzazione della colpa da parte di quest’ultimo, le spiegazioni che i tecnocrati finanziari, le élite politiche e i media mainstream danno di questa ascesa del debito pubblico, vertono sull’idea che per decenni tutte e tutti noi abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità e che continuiamo a farlo, sperperando e sprecando risorse, invece di renderci finalmente consapevoli di come la ricreazione sia finita da un pezzo.

Gli stessi argomenti vengono poi replicati su scala europea, arrivando a dissertazioni para-razziste sul carattere volto all’inefficienza e alla scarsa propensione alla produttività dei popoli latini e mediterranei (sarà interessante, a questo proposito, capire come verrà ricollocato dal punto di vista etnico-morale il popolo finlandese, che sta affrontando mutatis mutandi la più grave recessione della propria storia).

Tuttavia, se il debito non fosse una narrazione ideologica, basterebbe un’occhiata ai dati storici e attuali per comprendere come la realtà sia sempre molto differente da quella raccontata dai poteri dominanti.
Interroghiamo dunque i dati, partendo da una domanda: il debito pubblico italiano è sempre stato alto e in qualche misura «incontenibile»?

Se è vero che oggi, con i nostri 2.217,7 miliardi, siamo al terzo posto nella classifica in valori assoluti del debito pubblico planetario (dopo Usa e Giappone) e molto ben posizionati anche nella classifica del rapporto debito/Pil, la prima affermazione che possiamo fare riguarda il fatto di come la nostra situazione debitoria non sia sempre stata così e di come, nel corso dei decenni, abbia seguito un andamento oscillatorio interessante.

Per esempio, analizzando i dati a partire dal 1960 [1], si scopre come, da quell’anno fino al 1981, il rapporto debito/Pil dell’Italia sia stato costantemente sotto il 60% (ovvero, al di sotto della soglia – dal punto di vista scientifico totalmente arbitraria – fissata oggi per certificare la salute di un’economia dai tecnocrati del Fiscal Compact).

La prima e più grande discontinuità che si rileva nella serie storica avviene nel periodo 1981-1994, quando il rapporto debito/Pil schizza dal 58,46% (1981) al 121,84% (1994).
Quali furono le cause di questa vera e propria impennata, a balzi del +5% annuo?

La spiegazione dei poteri dominanti sull’eccesso di spesa pubblica non regge il confronto della realtà: infatti, al netto degli interessi sul debito – la spesa pubblica italiana è passata dal 42,1% del Pil nel 1984 al 42,9% nel 1994, mentre nello stesso periodo, la media europea vedeva un aumento dal 45,5 al 46,6% e quella dell’eurozona dal 46,7 al 47,7%.

Come si vede, la spesa pubblica italiana, sia in percentuale assoluta sia in percentuale di aumento si è costantemente posizionata a livelli inferiori rispetto al resto dell’Ue e dell’eurozona.
E se la spesa pubblica italiana è stata ulteriormente depredata dalla corruzione politico-economica e dalla gigantesca evasione fiscale, ciò ha solo reso peggiori le condizioni di vita delle fasce deboli della popolazione, che tutto hanno fatto in quegli anni, tranne che sperperare.

Cosa è dunque successo nel decennio dell’impennata del debito pubblico?

Un divorzio all’italiana

Il 12 febbraio 1981, l’allora Ministro del Tesoro, Beniamino Andreatta, scrive al governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi, proponendo l’indipendenza della Banca d’Italia, ovvero il cosiddetto divorzio fra Banca d’Italia e Ministero del Tesoro. La risposta del governatore è positiva e – senza alcun altro passaggio istituzionale – inizia il nuovo corso.

Per capire il significato dirompente di questo divorzio, occorre comprendere la natura del matrimonio. Fino ad allora, infatti, quando lo Stato emetteva titoli per potersi finanziare, la Banca d’Italia forniva la garanzia di acquistare i titoli invenduti a tasso d’interesse prefissato.

Questo permetteva allo Stato di emettere i titoli a basso tasso d’interesse e di poterli vendere tutti, chiudendo la strada a ogni possibile speculazione finanziaria.

Con il divorzio tutto cambia e, non esistendo più il paracadute della Banca d’Italia sull’invenduto, lo Stato fu da quel momento costretto a emettere titoli, la cui vendita per essere portata a termine, doveva necessariamente riconoscere alti tassi d’interesse.

È stato da quel momento che lo Stato italiano ha iniziato a pagare interessi superiori – anche nettamente – al tasso d’inflazione e che il debito pubblico ha iniziato a gonfiarsi a dismisura.

Con il divorzio del 1981, lo Stato italiano, per il finanziamento delle proprie attività, si è messo nelle mani della finanza privata e della speculazione finanziaria ed è questa la ragione primaria per cui il debito pubblico italiano è esploso.

D’altronde, sono ancora una volta i numeri a fare tabula rasa delle narrazioni ideologiche: infatti, dal 1980 al 2007 lo Stato italiano ha contratto 1.335,54 miliardi di debito, sui quali ha pagato ben 1.740,24 miliardi di interessi.
Volendo fare un paragone tra il periodo 1960-1980 e il periodo 1981-2007, mentre nel primo lo Stato pagava tassi d’interesse al di sotto dell’inflazione, nel secondo ha mediamente pagato tassi d’interesse superiori del 4,2% al tasso d’inflazione.

Questi dati sono confermati anche da un’analisi del bilancio annuale dello Stato: dal 1990 al 2015, con la sola eccezione del 2009, ogni anno l’Italia ha chiuso con un avanzo primario, ovvero con le entrate sempre superiori alle uscite e una differenza complessiva, per il periodo preso in esame, di oltre 700 miliardi.

Detto in altri termini, significa che i cittadini hanno versato allo Stato 700 miliardi in più di quello che dallo Stato hanno ricevuto sotto forma di fornitura di servizi. E, nonostante questo, il debito pubblico è aumentato, grazie al circolo vizioso degli interessi sul debito.

La socializzazione delle perdite

Con la crisi del 2008, la truffa del debito pubblico viene trasformata in una vera e propria trappola.
La crisi, scoppiata negli Usa in seguito allo scoppio della bolla dei subprime, ha immediatamente coinvolto il sistema finanziario internazionale e si è riverberata con particolare intensità sulle banche europee.

Il salvataggio pubblico delle banche private europee ha visto, nel periodo 2008-2011 caricare sui bilanci degli Stati almeno 2.000 miliardi di euro, aggravando ulteriormente il problema del debito pubblico (e in particolare del rapporto debito/Pil), per poi poterlo trasformare nella chiave di volta per approfondire le politiche di austerità, la precarizzazione del lavoro, la privatizzazione dello stato sociale, la mercificazione dei beni comuni.

Dal 2008 si è verificato un grande travaso dai debiti privati a quelli pubblici, finendo per far crescere in maniera esponenziale quest’ultimi. Se nel 2007 il debito sovrano nell’eurozona era pari al 25% del Pil, nel 2014 è giunto al 94%, (negli Usa nello stesso periodo è passato dal 55% a oltre il 100%). Di fatto, dopo decenni di sbornia liberista, incentrata su libero mercato e privatizzazioni, gli Stati hanno salvato l’economia di mercato facendo pagare il conto alle fasce deboli della popolazione, secondo il tradizionale adagio «si privatizzano gli utili e si socializzano le perdite».

In Italia, questo processo si è affermato con alcune specificità, in quanto il nostro debito pubblico era già alto e, per molti anni, non si è potuto aumentarlo facendo operazioni dirette di salvataggio per fronteggiare la crisi. Ma il debito pubblico italiano è aumentato comunque in conseguenza del crollo del Pil dovuto alla crisi globale.

Ciò che in realtà non funziona è l’impostazione dominante per la quale l’indebitamento dovrebbe fare da leva per la crescita economica e quest’ultima dovrebbe di conseguenza riassorbire il debito.

Come ha ben evidenziato Luca Ricolfi, studiando le economie dei 22 paesi che, sin dall’inizio, hanno fatto parte dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE): «(…) in tutto il periodo preso in considerazione – dal 1960 a oggi – il risultato è chiarissimo: a ogni decennio il tasso di crescita diminuisce di quasi 1 punto percentuale (da +4% nel decennio ’60’70, a +3% negli anni ’70-’80, a +2% nel ventennio 19802000, per arrivare a +1% nei primi dieci anni del nuovo millennio)» [2].

Se questi sono i dati, appare pura fantascienza la fiducia nella crescita economica come soluzione al problema del debito pubblico proposta da Carlo Cottarelli (ex-incaricato del governo per la spending review) che ipotizza una crescita costante del 3% annuo per consentire al rapporto debito/Pil del nostro paese di scendere nel 2035 dall’attuale 132% al 75% [3].

Nel frattempo, anche per il nostro paese è arrivato il momento di mettere a disposizione la ricchezza collettiva per salvare i fallimenti degli istituti bancari privati: a fine dicembre 2016, con un’approvazione fulminea dei due rami del Parlamento, il Ministero del Tesoro ha messo in campo una rete di garanzie pubbliche (da caricare, in caso di utilizzo, sul debito pubblico) pari a 20 miliardi di euro sulle emissioni di liquidità di ben 6 banche, ciascuna sotto plurime inchieste giudiziarie e tutte giunte al fallimento grazie alle speculazioni finanziarie operate per decenni senza alcun controllo. Saranno così salvate dai cittadini Monte dei Paschi di Siena, Cariferrara, Banca Marche, Banca Etruria e, dopo l’approvazione ottenuta dalla improvvisamente generosa Unione Europea, anche Popolare di Vicenza e Veneto Banca.

Il circolo vizioso prosegue e intrappola la società, fino a che quest’ultima non imboccherà l’unica via di uscita possibile: rimettere radicalmente in discussione la narrazione dominante sul debito. Senza se e senza ma.

http://temi.repubblica.it/…/il-debito-pubblico-italiano-la…/



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posted by Mitt Dolcino
Economia sommersa: gli ultimi 4 governi hanno usato l’ipotetica evasione per imporre tassazioni assurde agli italiani. Ecco come e perchè




Oggi i media ci bombardano sull’evasione presunta italiana rilevata dall’ISTAT su dati 2015, senza però paragonare tali dati agli omologhi “partner” EU, ad esempio alla Germania. E se i tedeschi evadessero come o più degli Italiani? Possibile? Mi direte alla fine. Da molti mesi sto valutando come spiegare ai lettori che le stime sempre spaventose dell’evasione italiana usate per giustificare una pressione fiscale assurda in realtà sono più che mezze bugie, diciamo pure propaganda per far accettare agli italiani un qualcosa di inaccettabile: leggasi, un livello di tassazione anche oltre il 50%, includendo i contributi. Ripeto, inaccettabile, troppo elevato!

La difficoltà sta nello spiegare il metodo utilizzato per calcolare l’evasione fiscale ipotetica di un paese, metodo che è prettamente statistico: in soldoni, troppo difficile da spiegare ai profani. Tra l’altro, vi vedete gli intervistatori dell’economia sommersa andare a chiedere ad una prostituta quanto guadagna al giorno e a prestazione, o ad uno spacciatore quante dosi vende ed a che prezzo… Fortunatamente negli scorsi giorni ho trovato un modo alternativo molto valido per spiegare come dietro la caccia alle streghe mediatica dell’evasione presunta facilmente si nascondano gli interessi dei governanti a fare accettare una tassazione suicida ai cittadini, che poi è il motivo per cui le aziende se ne vanno dal Belpaese. L’EU sa benissimo a cosa io mi riferisca, ma come vi spiego da anni non è assolutamente interessata a che l’Italia ed i paesi periferici in genere possano uscire dalla crisi (…).

In breve, tornando a bomba, l’economia sommersa è quella che non paga tasse. Fu lo stesso Berlusconi a volerla introdurre in una proposta precedente al golpe del 2011. La ratio era semplice: visto che in Italia c’è una percentuale di evasione fiscale maggiore che nel resto d’EUropa il deficit di bilancio deve essere riferito sia all’economia ufficiale che a quella sommersa per il fine di calcolare il famoso rapporto deficit statale/PIL su cui incidono ii parametri di Maastricht che regolano l’austerità in sede EU. Il risultato fu, come da desiderata, che aumentando fittiziamente il PIL aggiungendoci il sommerso a parità di deficit si riduceva il rapporto deficit/PIL totale. Appunto, questo accadde. Oggi le valutazioni del rapporto deficit/PIL, dal 2014, ormai computano il (PIL ufficiale + il PIL illegale) [chiamiamolo “PIL totale], permettendo al governo di fare più deficit. Un dettaglio importante: oggi il rapporto debito/PIL totale è ufficialmente attorno al 133%.

Anche Bloomberg conferma indirettamente che NON vengono usati i dati ISTAT per valutare l’economia sommersa in sede EU

In realtà, escludendo il PIL sommerso, ossia tornando ai calcoli pre-2014, anche il rapporto deficit/PIL sarebbe attorno al 155%. Per intenderci, la Grecia dovette accettare la Troika quando il suo rapporto deficit/PIL ufficiale (senza il sommerso) superò la fatidica soglia del il 140%, nel 2011/2012 se ricordo bene…

Or dunque, resta il problema di valutare a quanto ammonti detto PIL sommerso: ripeto, più grande sarà il sommerso maggiore è la possibilità per il governo di fare deficit, troppo spesso dimenticandosi che alla fine ciò si traduce inevitabilmente in debito che comunque andrà prima o poi pagato. E senza considerare che è molto difficile valutare correttamente ed analiticamente l’economia sommersa.



Resta il fatto che, vis a vis con la Commissione EU che calcola gli sforamenti di bilancio (rapporti deficit/PIL e Debito/PIL), l’Italia ha avuto interesse ad aumentare al massimo l’economia sommersa usata nei calcoli di Eurostat, appunto per fare maggiore deficit. Con effetti aberranti. Ad esempio, quando sentiamo i governi affermare che la tassazione media italiana è circa del 43% in tale percentuale si considera il PIL totale ossia includendo il sommerso. In realtà il sommerso non paga tasse per cui il vero livello di tassazione italiano per chi paga le tasse è oggi attorno al 50% e non al 43% come invece qualcuno vorrebbe farci credere.

Ma il punto non è questo. Infatti il problema è che esistono delle valutazioni diverse tra Eurostat, ISTAT e valutatori indipendenti usati alla bisogna dalla politica e dal governo. Per darvi l’idea, nemmeno la Corte dei Conti usa i valori ISTAT ma quelli usati in sede EU, che sono quasi il doppio, circa il 21% nel 2014 (dunuque, la Corte dei Conti conferma che NON vengono usati i dati ISTAT per valutare l’economia sommersa in sede Europea):

Al 2014…

Limitiamo l’analisi a tre esempi: il valore di economia sommersa stimata usata da Eurostat per l’Italia è attorno al 20.6%, al 2015. Ossia pari ad un valore di circa 330 miliardi di euro.

L’ISTAT stima invece l’economia sommersa attorno a 12.6% (2015) pari a circa 207 mld di euro.

Valutazioni private usate spesso dai governi di sinistra o comunque filo EU che si sono avvicendati dal 2011, come Eurispes (a cui vertici compaiono membri o ex membri del PD o partiti affini) stima l’economia sommersa pari a addirittura il 33% pari a oltre 500 mld di euro (Rapporto Eurispes 2016, su dati 2015).

Prima di tutto, come è possibile che ci siano differenze così esorbitanti tra le valutazioni di uno stesso parametro da parte di tre istituzioni differenti? Chiaro, perchè è difficile valutarlo. Lasciando perdere la valutazione di Eurispes, di estrazione PD e sempre utilizzata dalle icone della sinistra per giustificare livelli di tassazione sempre maggiori oltre che assurdi – tacendo però la molto probabile inaccettabilità del metodo usato, come ben stigmatizzato da Il Foglio* –, siamo però tenuti a notare le enormi differenze anche tra Eurostat e Istat. Come mai succede questo?

Saranno corretti i dati di Eurispes? O sono stati elaborati “per fini politici”? Non siamo gli unici* a dubitarne…

Il motivo? Va semplicemente ricordato come i governi italiani siano interessati vis a vis con l’EUropa ad aumentare il più possibile l’economia sommersa, con lo scopo di fare più deficit, come spiegato prima. Da qui l’eccesso di evasione presunta nei dati Eurostat. Mentre i valori più veritieri di evasione, quelli ISTAT, sono molto più bassi.

Sapete quale è il problema? Che i valori ISTAT di evasione italiana sono molti simili a quelli dell’evasione tedesca…. Ossia, forse gli italiani non sono così evasori come vogliono farci credere con il solo fine di aumentare le tasse, che dite?

Chiaro, più tasse si fanno pagare agli italiani più a lungo dura l’EU; infatti è certo che se all’Italia dovesse essere imposto di fare crack per colpa dell’austerità EU, essa avrebbe tutti gli interessi ad uscire dall’Euro pur di evitarlo. Dunque, che si sttrangolino gli italiani di tasse per il tramite di politici cooptati dall’EUropa, con metodi che – come avete visto sopra – ritenere discutibili è poco. Stessa cosa vista ad Atene, dove per convincere i politici recalcitranti si passò anche per le minacce ossia rivelare la loro prensenza nella lista Lagarde opportunamente epurata dei complici politici locali messi poi a governare dalla Troika per imporre misure lacrime e sangue ai greci…

Vedasi anche: http://bruegel.org/2015/03/welcome-to-the-dark-side-gdp-revision-and-the-non-observed-economy/

In tale contesto, proviamo a valutare la differenza di tassazione persa dallo stato nei due casi, appunto ISTAT e Eurostat (ricordando che i dati Eurispes secondo molti presentano errori marchiani, tipo sbagliare il PIL italiano, stimato erroneaemente da Eurispes 100 mld di euro più basso di quello reale*). Nel caso del PIL sommerso ISTAT la perdita di gettito dello Stato, ipotizzando che ci sia una forte diffusione dell’evasione ovvero applicando una tassazione leggermente più bassa della massima aliquota marginale, ossia utilizzando il 40%, otteniamo che le tasse perse dallo Stato ammontano a circa 80 mld di euro. Nel caso dell’Eurostat, applicando la stessa aliquota marginale media, siamo invece attorno ad oltre 130 miliardi di gettito perso. Per Eurispes siamo invece a oltre 200 miliardi di euro di gettito perso.

Non siamo gli unici ad avere dei dubbi sui dati Eurispes 2016…

Come ben capite le differenze sono macroscopiche: 80, 130, 200 mld di euro. Un mare di differenza tra le varie valutazioni.

Fa specie che i rappresentanti del PD abbiano costantemente utilizzato nella loro retorica i valori di Eurispes, sui cui – e non sono solo – nutre anche chi scrive enormi dubbi (leggasi, Saviano).

Va però considerato che nel valutare il valore dell’economia sommersa di Eurostat, ossia il valore utilizzato dalla Commissione EU per calcolare lo sforamento nei parametri di deficit, ci sia stato un interesse dello stato a tenere il valore dell’economia sommersa il più alto possibile, per aumentare la possibilità di fare deficit. Da qui la differenza tra i valori Eurostat ed ISTAT.

Dunque, in generale, anche per la capacità di analisi del sistema italiano oltre che per quanto sopra spiegato, riteniamo che il valore ISTAT sia il più corretto.

Ma, attenzione: se andiamo invece a considerare nel computo dell’economia sommersa il valore delle tasse evase in Italia rispetto ad altri paesi molto virtuosi come ad esempio la Germania (paese che non ha né aveva bisogno di espandere ad arte la sua economia sommersa nei calcoli di Eurostat come invece ha dovuto fare l’Italia per evitare la Troika) cosa otteniamo?



E qui vengono fuori elementi davvero interessanti: il valore dell’economia sommersa italiana base ISTAT. Prima di tutto l’economia sommersa secondo ISTAT pari al 12,6% va a paragonarsi con un valore Eurostat per la Germania del 12.2% Ossia circa uguale. Se poi traduciamo tali valori in miliardi di euro di economia sommersa ricaviamo che quella tedesca (ca. 350+ mld di euro) è quasi il doppio di quella italiana (ca. 207 mld di euro)!

Resta da farci spiegare dai governanti italiani il perchè della differenza di circa il 60% tra valori di economia sommersa Eurostat (20.6%) rispetto a quella calcolata dall’ISTAT (12,6%). Per non parlare delle cifre esorbitanti di Eurispes, di cui però tendiamo a dubitare vista la chiara deriva politica dell’Istituto in questione (…), oltre ad aver evidenziato probabili errori nell’elaborazione*.



Spero il messaggio sia arrivato. E soprattutto la considerazione a latere: chi scrive teme infatti che i governi pro-EU pro-Europa e pro-austerità che si sono succeduti dal 2011 abbiano usato lo spauracchio di numeri di evasione tanto spaventosi quanto potenzialmente surreali (specialmente quelli di Eurispes) per giustificare un livello di tassazione italiana reale onestamente inaccettabile ossia prossimo al 50%, il più alto in Europa. [anche maggiore pr le imprese, vedasi immagine sopra]. E dimenticandosi di dire che l’evasione italiana percentuale è secondo le valutazioni correnti di ISTAT circa uguale a quella tedesca in percentuale, il 50% più bassa se viene espressa il miliardi di euro (ossia, i tedeschi evadono più miliardi di euro degli italiani usando il metodo sopra indicato). Concludo dicendo che probabilmente il modo migliore per fare crescita – che è quello che manca all’Italia – dovrà in futuro andare nella direzione opposta rispetto a quella imposta dall’Europa. Tradotto, ridurre le tasse in modo sostanziale con parallelo depotenziamento dell’atteggiamento minatorio dell’agenzia delle Entrate nei confronti delle attività che generano valore aggiunto, ossia le imprese, in quanto sta minando alla radice l’imprenditorialità italica (…).

La retorica del combattere l’evasione infatti non è giustificabile in presenza di un livello di tassazione troppo elevato come l’attuale, circa il 50% in generale o 64.8% per le imprese. Parallelamente va sempre ricordato che un paese senza alcuna evasione fiscale è più una chimera che un sogno, risultando per altro inefficiente anche solo pensare di tendere verso una società dove tutta la creazione di ricchezza è controllata fin all’ultimo euro, è semplicemente impossibile oltre che stupido.

MD

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" h!!ps://www.youtube.com/watch?v=fW8IUjZvX-I "

altrochè se sono tossici il mercurio e l'alluminio iniettati direttamente nel sangue , e non solo quei componenti dentro i vaccini purtroppo .. c'è alluminio e mercurio in parti minime anche nei pesci , però questi non vengono iniettati direttamente nel sangue , passano attraverso l'apparato digerente e vengono espulsi con le feci .. vero utente f4f ? altrochè se è stolto , lei si offende se le si fa presente che stolterizza , ossia che manca di pieno discernimento , .. mentre io che vengo da lei diffamato nel forum , dichiarando che faccio falsa informazione e spam , io non mi offendo .. la capisce la differenza .. vero ?
 
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