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domenica 23 settembre 2018
LIBERISTA SFRENATO, A VOLTE PERSINO SELVAGGIO [/paste:font]



POST DI BAZAAR



«Liberista sfrenato, a volte persino selvaggio»

(La democrazia costituzionale ed i suoi nemici)

In un interessante articolo, Luciano Capone, giornalista de “Il Foglio”, ci porta nei meandri del pensiero elitista di matrice liberale, regalandoci minuti di autentica estasi intellettuale.

Chiaramente non perché si condivida alcunché dell’elaborazione del giornalista, ma, se si desidera usare una metafora, si può affermare che ci si addentra nell’analizzare l’articolo con lo stesso entusiastico interesse con cui un oncologo esamina una biopsia particolarmente rivelatrice di una forma di cancro; o con l’appassionata curiosità di uno psichiatra che valuta gli effetti particolarmente vistosi di un paziente affetto da grave psicosi.

L’articolo si apre indicativamente così, non con una fenomenologia di fatti, ma con una serie di (pre)giudizi sulle orme della tradizione “elitistico-liberale”:

« Stiamo vivendo in un’epoca storica particolare. Le persone si trovano di fronte a problemi epocali – come la stagnazione economica o l’immigrazione – sono molto arrabbiate perché non vedono una via d’uscita all’orizzonte e in questa situazione vengono preferite le spiegazioni semplicistiche e le soluzioni facili a quelle più articolate. »

1 – Teorema della memoria corta (detto anche l’Alzheimer del liberista, oppure morbo di Al)

Secondo Luciano Capone – senza alcun riferimento al capitalista liberale statunitense, «sfrenato, e a volte persino selvaggio» – quest’epoca storica sarebbe «particolare»; ovvero i fatti sociali che la caratterizzano non sarebbero già conosciuti e studiati da un’abbondante letteratura (Bagnai 2011).

Siamo alla terza (alla terza!) globalizzazione, e gli effetti del «capitalismo sfrenato» – come diceva l’amico di Al, Karl Popper – del liberoscambismo «selvaggio», della deregulation finanziaria, sono dibattuti e discussi almeno dai tempi di Adam Smith.

Che l’unione monetaria avrebbe comportato una «stagnazione economica», ovvero che l’euro avrebbe impresso «un bias deflazionista all’economia mondiale» (R.N. Cooper, 1978), non lo sapevano solo gli economisti in ambito accademico, ma anche coloro che politicamente premevano per l’integrazione europea (Dipartimento di Stato degli Stati Uniti d’America, 1978).

Se abbiamo la documentata certezza che l’unione monetaria fu una consapevole scelta politica che avrebbe danneggiato il capitalismo industriale (quello soprattutto rappresentato delle PMI non in grado di delocalizzare) e la classe lavoratrice (tramite la compressione dei salari, l’instabilità occupazionale e l’alto tasso di disoccupazione e sottoccupazione), è anche documentato che la scelta del «liberismo sfrenato» accompagnata all’adesione alla «economia sociale di mercato» dei trattati europei, avrebbe usato l’immigrazione per riformare la sociostruttura in senso classista:

«Con l’annunciata costituzione dell’Unione europea, che già oggi vede al suo vertice i grandi paesi d’immigrazione del continente, noi possiamo facilmente prevedere la tentazione della classe dirigente a seguire il modello americano nella costruzione di una società a piramide, a strati etnico-sociali sovrapposti, incomunicabili fra loro, che avrebbero alla loro base gli immigrati dei paesi più lontani, e poi quelli dei paesi “associati” e poi ancora quelli “comunitari”, e in seguito i lavoratori locali e su di loro, man mano, gli altri strati superiori. La classe operaia resterebbe così divisa in tanti tronconi che si distinguerebbero per le loro origini etniche e non per i loro comuni interessi di classe, proprio così come oggi in America.» Paolo Cinanni, “Che cosa è l’immigrazione" (raccolta di scritti pubblicati tra il 1969 ed il 1973).

Un’analisi già compiuta più volte in questi spazi.

Cosa significa? Che gli studiosi delle scienze sociali hanno poteri divinatori?

No: significa che a scelte politiche corrispondono oggettive conseguenze sulla sociostruttura e sui rapporti di forza che questa permette tra capitale, lavoro ed i ceti creati dai relativi rapporti di produzione.

Deduciamo quindi che, secondo l'articolo in commento, «le spiegazioni semplicistiche e le soluzioni facili» sono da decenni quelle che – date determinate decisioni politiche – i massimi esperti di scienze sociali avevano usato per predire le dinamiche sociologiche in atto. Ovvero le dinamiche che, nei fatti, si sono effettivamente realizzate convalidando le determinanti ideologiche e di interesse materiale che erano ab origine ipotizzate nelle analisi e nella costruzione degli scenari previsionali.

Ma il liberista ha notoriamente la memoria corta: deve sedare il disagio cognitivo e il senso di inadeguatezza intellettuale causati dal veder costantemente i capisaldi della propria fede nel mercato invalidati dalla realtà: la realtà, ovvero ciò contro cui si va a sbattere.

Il liberista brama la fine della Storia perché il diritto all’oblio logora chi non ce l’ha.

Soprattutto quando la coscienza è quella che è. (Sicuramente non è il caso del nostro simpatico giornalista)


2 – Assioma dell’elitista: qualsiasi fenomeno avverso per le classi subalterne è un complotto di Madre natura. (Potere è potere di non prendersi responsabilità).

Lo smemoratino autore propone quindi un cavallo di battaglia della guerra fredda, un lavoro che un importante autore non proprio di simpatie socialiste come Voegelin definì: «una vergognosa e dilettantesca schifezza»: ovvero “La società aperta e i suoi nemici” di Karl Popper.

Opera in cui Popper ha l’audacia di affermare che i complotti non esistono salvo quelli tramati dai «nemici» della società aperta, ossia dai “nemici” dei liberali: ovvero, se esiste un complotto, è quello cospirato dai socialisti ai danni della grande borghesia liberal e dei rentier. (Che qualcuno chiamò giudaico-bolscevico, ma transeat).

Questa cospirazione ordita contro la “Società aperta” è avallata dal nostro, il quale, infatti, per senso dello Stato… ehm, no, è liberale… per senso civico... meglio… sentenza che «dove si diffonde una mentalità del genere poi i gruppi sociali tendono a organizzare contro-complotti».

Avete letto bene: se i subalterni non allineati al pensiero unico sono “complottisti”, scopriamo che gli elitisti sono «contro-complottisti» e hanno pure elaborato una “teoria contro-cospirazionista della società”.

Apperò.

Ciò che in realtà negava Popper, era di fatto l’esistenza del conflitto di classe – (Bazaar 2016) – supportando in modo un po’ «dilettantesco» – citando Voegelin – il paradigma epistemologico naturalista sostenendo che la prospettiva del conflitto generi la credenza patogena nei ceti subalterni che questi siano effettivamente subalterni e che, quindi, si possa organizzare la società con una maggior giustizia distributiva, una maggior giustizia sociale (che invece – secondo i liberali – non esiste, la distribuzione del reddito è naturale, e l’unica giustizia deve consistere in quella commutativa, con relativi procedimenti arbitrali). Questa nuova consapevolezza (falsa, stando con il nostro), chiamata coscienza nazionale e di classe, porterebbe «i gruppi sociali» – aka la classe lavoratrice oppressa – ad ordire «contro-complotti», ossia a sindacalizzarsi e ad organizzarsi politicamente per rivendicare politiche socioeconomiche favorevoli ai propri interessi materiali.

Al giovane autore ricordiamo che il padre dell’epistemologia delle scienze sociali moderne rimane effettivamente Karl, ma non Karl Popper – anche se vanta Soros tra i suoi discepoli – ma Karl Marx, che di discepoli non ne ha più da decenni.

Qualcuno, però, la sociologia conflittualista prodotta da ciò che in economia si chiama conflitto distributivo, non se l’è dimenticata.

Lo sguardo di un democratico vero, ossia sociale, ha lo sguardo carico di prospettiva del conflitto. Prospettiva sociologica abbracciata dalla stragrande maggioranza dei nostri padri costituenti.

È difficile quindi leggere le ardite tesi del nostro senza provare gli stessi sentimenti che investivano Voegelin a sentir il vecchio liberale vaneggiare di «teoria cospirativa della società»:

«“Questa concezione dei fini delle scienze sociali deriva dall’erronea teoria che, qualunque cosa avvenga nella società – specialmente avvenimenti come la guerra, la disoccupazione, la povertà, le carestie, che la gente di solito detesta – è il risultato di diretti interventi di alcuni individui e gruppi potenti”, scriveva il filosofo liberale. Egli però non intendeva dire che nella storia non ci siano mai complotti.
Anzi, Popper sosteneva che spesso avvengono “tutte le volte che pervengono al potere persone che credono nella teoria della cospirazione” che “sono facili quant’altre mai ad adottare la teoria della cospirazione e a impegnarsi in una contro-cospirazione contro inesistenti cospiratori”. In un altro passaggio di “Congetture e confutazioni”, spesso citato da
Umberto Eco, Popper era ancora più esplicito: “Quando i teorizzatori della cospirazione giungono al potere, essa assume il carattere di una teoria descrivente eventi reali. Per esempio, quando Hitler conquistò il potere, credendo nel mito della cospirazione dei Savi Anziani di Sion, egli cercò di non essere da meno con la propria contro-cospirazione”. La Soluzione finale

Ohibò.

Secondo i liberali che vanno dal moderato Popper, a quelli sfrenati, a volte persino selvaggi, la «disoccupazione e la povertà» sarebbero fatti naturali e non derivanti dal conflitto distributivo e da chi si organizza per “vincerlo” e trarre maggior profitto.



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Adam Smith sosteneva che:

«Quali siano comunemente i salari dei lavoratori, dipende ovunque dal contratto che abitualmente viene perfezionato tra le due parti, i cui interessi non sono affatto i medesimi. I lavoratori desiderano guadagnare il più possibile, i padroni pagare il meno possibile. I primi sono disposti ad unirsi al fine di aumentare, questi ultimi al fine di diminuire i salari dei lavoratori. […] Non è, tuttavia, difficile prevedere quale delle due parti ottiene, generalmente in tutte le occasioni, il sopravvento nella controversia, e costringe l'altra in conformità dei suoi desiderata. I padroni, essendo meno numerosi, possono unirsi molto più facilmente; e la legge, inoltre, autorizza, o almeno non vieta loro, di associarsi, mentre lo vieta ai lavoratori».

Era il 1776.

Dobbiamo ritenere Adam Smith il padre del complottismo moderno? Un potenziale pensatore in grado di generare tragedie al pari della «Soluzione finale»?

Sicuramente l’abuso del pensiero smithiano ha generato tragedie: quelle causate dal liberismo acritico – a volte, selvaggio! – dei suoi nipotini.


3 – Il complotto di chi crede nella democrazia e nella Costituzione del ‘48: fenomenologia dell’anticospirazionismo liberale

Al nostro «pare essere sfuggito di mente» un periodo di almeno due secoli di letteratura scientifica, ma in compenso si ricorda selettivamente che «l’unico reale piano complottista», che consiste in «un piano para-golpista per condurre l’Italia fuori dall’Eurozona» – «tramite l’istituzione di un “Comitato” extracostituzionale», è quello organizzato dai “sovranisti” che prestano la propria professionalità ai partiti di governo di questa legislatura.

Se l’unico “complotto” è quello dei “complottisti” che lavorano per la democrazia e la giustizia sociale su cui questa si fonda, è evidente che, affermare pubblicamente di voler assicurarsi che la Repubblica sia condotta nell’alveo della legalità costituzionale, si trasforma in una cospirazione «para-golpista» per sovvertire la Costituzione in se stessa. Magia.

Il rischio di questo pericoloso sovvertimento potrebbe essere una «Soluzione finale». Il nostro dixit.

«I cospirazionisti, insegna Popper, non sono soltanto pericolosi perché credono ai complotti finti. Ma soprattutto perché, quando arrivano al potere, attuano quelli veri.» Chiosa, raggiungendo il culmine della tipica raffinatezza liberal dell’analisi sociologica.

Possiamo sviluppare così l’assioma: «Un cospirazionista che accede al potere si trasforma in un cospiratore».

(“Cospiratore” contro se stesso, dato che siamo in un regime democratico… almeno che non si ritenga sovversivo far rispettare la Costituzione formale al posto di quella materiale… magari anche a discapito di interessi esteri...)

Possiamo assumere che il nostro, in realtà, da bravo elitista liberale, ci stia parlando per proiezione, ovvero ci stia dicendo che – usando le parole del più rappresentativo tra coloro che si occuparono di sottrarre Banca d’Italia al controllo democratico, Andreatta – il processo di integrazione europea sia stato una «congiura aperta» o – stando con Guido Carli – un «atto sedizioso» configurabile come «un piano para-golpista per condurre l’Italia [dentro l’] Eurozona».

L’esegesi dell’articolo ci dà altri spunti di riflessione: «l’unico reale piano complottista» è quindi quello realizzato «tramite l’istituzione di un “Comitato” extracostituzionale», tipo Commissione Europea che, secondo voci maligne, sarebbe un noto comitato d’affari: il paradiso dei lobbisti «al riparo del processo elettorale», ricordando Monti.

Insomma, il nostro ci dà da intendere che i trattati europei operino extra e contra constitutionem.

Capiamo quindi che le scienze sociali supportano il progresso democratico quando riconoscono la volontà politica delle élite di imporre «disoccupazione e povertà», «la stagnazione economica o l’immigrazione». Tutt’altro che «analisi semplicistiche» che portano a «soluzioni facili».

Anzi, a seguire questa chiave ermeneutica, ipotizzare di lasciare il potere ai liberali, che non possono soffrire il controllo democratico della sovranità popolare, viene da pensare che l’unica soluzione riservata all’Europa dagli “anti-cospirazionisti” sia proprio la soluzione paventata dal nostro: quella «finale».

Pubblicato da Quarantotto
 
conti pubblici luglio 23, 2013 posted by admin
Studio Esclusivo: l’Italia ha pagato 3.100 miliardi di interessi in 3 decenni (198% del PIL)
Abbiamo ricostruito i dati di PIL, Debito Pubblico, Deficit Pubblico, Saldo Primario (differenza tra entrate ed uscite della PA al netto degli interessi) e Spesa per interessi dal 1980 al 2012.





Guardando i dati si nota:

IL DEBITO PUBBLICO HA AVUTO UNA FORTE CRESCITA SPECIE DOPO IL 1981, DATA DEL DIVORZIO TRA BANCA D’ITALIA E TESORO, E PASSA DAL 60% AL 120% NEL 1993





LA SPESA PER INTERESSI ESPLODE SUBITO DOPO IL DIVORZIO TESORO-BANKITALIA E PASSA DAL 4% ALL’8% DEL PIL IN MENO DI 4 ANNI (1981-84)





IL DEFICIT ESPLODE CONSEGUENTEMENTE NEGLI ANNI 80 A 2 PRECISI FATTORI: INCREMENTO INCONTROLLATO SPESA PER INTERESSI (vedi sopra) ED INCREMENTO SPESA PUBBLICA CORRENTE TRA ANNI 70 ED 80.

Dal 1993 al 2012 il saldo cumulato positivo del saldo primario e’ di ben il 47% del PIL



Attualizzando i dati a valuta corrente (equivalente ad Euro del 2012) si ha:



L’ITALIA HA PAGATO TRA IL 1980 ED IL 2012 LA BELLEZZA DI 3.101 MILIARDI DI EURO EQUIVALENTI (al 2012) DI INTERESSI, PARI AL 198% DEL PIL, UNA CIFRA DI PROPORZIONI ENORMI.







Abbiamo fatto una SIMULAZIONE: tenendo fermi i saldi primari ed i valori di PIL dal 1993 in poi, abbiamo visto l’evoluzione del Debito Pubblico dal 1993 ad oggi se nel 1993 il Debito Pubblico fosse stato del 60%. Oggi sarebbe al 26%





In estrema sintesi, negli ultimi 20 anni IL DEBITO E’ PASSATO DA CIRCA 1.500 A 2.000 MILIARDI DI EURO (valori 2012) RESTANDO SOPRA AL 120% DEL PIL nonostante il fatto che:

– ABBIAMO PAGATO QUASI 2.000 MILIARDI DI INTERESSI (valori attualizzati al 2012)

– ABBIAMO REALIZZATO SALDI PRIMARI ATTIVI PER 740 MILIARDI (valori attualizzati al 2012), CIFRA CHE NON HA EGUALI IN EUROPA

In sintesi l’Italia ha comunque fatto enormi sacrifici, con risultati sul fronte del risanamento nulli, e straordinariamente negativi sul fronte della crescita.



By GPG Imperatrice
 
corretto postarlo per evidenzare che chi compare nei mainsream nazionali o espertologi dell ultima ora, sul sito,nn siamo da meno ,quando spende o inventa teorie economiche passamdole 'per verità assolute, abbiamo la certezza,che abbiamo a che fare con l italiano medio, ovvero i 6o milioni di allenatori della nazionale italiana di calcio
 
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Banche europee, una maxi evasione vale 55 miliardi

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Quando si parla di frodi e truffe in genere si pensa che queste vengano messe a segno a danno dello stato e delle banche...
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Quando si parla di frodi e truffe in genere si pensa che queste vengano messe a segno a danno dello stato e delle banche dei rispettivi paesi di appartenenza, ma cosa accade se sono le stesse banche di stato ad essere l protagoniste dei suddetti raggiri?

Una maxi frode fiscale da 55 miliardi di dollari è stata realizzata in diversi paesi europei nell’arco di 15 anni attraverso un gigantesco meccanismo legato alla compravendita di azioni di società quotate: è quella su cui stanno indagando le procure di Colonia, Monaco e Francoforte.

Gli investigatori tedeschi starebbero indagando su centinaia di transazioni gestite da istituti di credito di diversi paesi, tra cui Santander, Barclays, Goldman Sachs, Bank of America, Macquarie Group, Bnp Paribas, Société Générale, Crédit Agricole e HypoVereinsbank del gruppo Unicredit.

Secondo quanto scrive il giornale tedesco Zeit Online, già lo scorso anno era stato calcolato che le autorità fiscali tedesche avevano perso almeno 31,8 miliardi di euro tra il 2001 e il 2016 a causa del meccanismo messo in atto dalle banche.

Secondo il fascicolo dal nome CumEx-Files, le banche coinvolte avrebbero tenuto diversi comportamenti illegali. Esse avrebbero ad esempio accreditato dividendi nella giornata di stacco ad alcuni soggetti risultanti titolari dell’azione. Questi ultimi, tra l’altro, avrebbero maturato un credito fiscale dalla cedola. In altre parole, la truffa avrebbe dato vita ad un’enorme attività di evasione fiscale compiuta grazie al trasferimento in tempi record di titoli tra diversi proprietari esteri.

Secondo la Reuters – che ha partecipato all’iniziativa “Cumex Files”, la spagnola Santander è l’ultima banca ad essere coinvolta nella più grande indagine di frode del dopoguerra in Germania.

Un portavoce di Santander, dal canto suo, ha riferito alla Reuters che la banca «collabora pienamente» con le autorità tedesche e sta conducendo una propria indagine interna. La banca «non tollera comportamenti» che non rispettano le regole e le leggi del mercato in cui opera, ha aggiunto il portavoce, sottolineando che «se le nostre indagini individueranno una cattiva condotta, prenderemo
 
posted by Ingegner Caustico
LA LIRETTA DELL’ITALIETTA


C’era una volta una nazione insignificante, dimenticata dal dio Mercato, che per i propri commerci era costretta a servirsi di una moneta priva di valore in quanto lo “statoladro” (oramai si scrive tutto attaccato) stampava denaro a profusione per fare fronte alla crescente corruzione, ai clientelismi e alle mirabolanti promesse elettorali fatte alle spalle dei lavoratori. Sì, perché secondo questa narrazione, come ci ricorda l’onorevole Bersani, le vere vittime di questo dissennato modo di operare sarebbero stati proprio i lavoratori che si trovavano in tasca della carta straccia e si vedevano erodere il proprio potere d’acquisto.



Quel Paese negletto, triste ed isolato dal mondo, si chiamava l’Italia e quella “carta straccia” si chiamava lira: la Liretta dell’Italietta.
Per uno strano caso del destino, quello stesso Paese, che veniva dalle devastazioni della seconda guerra mondiale, ebbe per oltre un trentennio dei tassi di crescita pazzeschi, un autentico “miracolo economico”: il 16 maggio 1991, infatti, il Corriere della Sera titolava in prima pagina a cinque colonne: “L’Italia quarta potenza”.



Due anni dopo, a seguito dell’uscita dell’Italia dallo SME (Sistema Monetario Europeo), lo stesso Corriere della Sera titolava: “Made in Italy mai così bene”, mentre la Germania, col suo marco che non godeva più dei benefici offerti dall’aggancio valutario, non era mai andata “così in basso”.



Il 14 febbraio 1996, sempre sul Corriere della Sera, Danilo Taino commentava entusiasta: Lira magica unica vera colonna dell’Italia. Se non fosse sottovalutata staremmo tutti un po’ peggio”.



Tutto questo, però, avveniva a causa della svalutazione “competitiva”. E’ vero: in quegli anni, quando la lira non era agganciata in maniera più o meno efficace con altre valute, tendeva a perdere valore.



Tassi di cambio certo per incerto

Per apprezzare meglio quanto svalutava la nostra moneta rispetto alle altre, o in maniera del tutto equivalente, quanto rivalutavano le altre monete rispetto alla nostra, pongo il tutto in scala logaritmica:



Tassi di cambio incerto per certo – scala logaritmica

Quella che ha rivalutato maggiormente è, come era facile prevedere, il marco tedesco (linea nera), mentre dollaro americano (linea gialla) e franco francese (linea rossa) hanno avuto andamenti più moderati e sostanzialmente analoghi.
Ma perché noi svalutavamo? La teoria più basilare sulla modalità di determinazione dei tassi di cambio nominali si chiama “parità dei poteri di acquisto” (in inglese Purchasing Power Parity, sintetizzato in PPP). Tale teoria si basa sulla legge del prezzo unico che afferma che, se i costi di trasporto sono relativamente trascurabili, il prezzo di un bene economico scambiato a livello internazionale deve essere uguale in ogni luogo. Se così non fosse, tutti comprerebbero dove costa meno, facendone aumentare il prezzo del bene fino al ristabilimento dell’equilibrio. Secondo questa teoria, quindi, il tasso di cambio nominale tra il Paese A ed il Paese B sarebbe diretta conseguenza del livello dei prezzi dei due Paesi, pertanto la variazione del tasso di cambio (la svalutazione o la rivalutazione) deriverebbe dalla variazione relativa del livello dei prezzi (ovvero dalla differenza relativa tra i tassi di inflazione). Tradotto per la casalinga di Voghera: svaluta chi ha l’inflazione più alta.
Infatti, come si vede nella figura sottostante, l’Italia (linea viola) ha avuto un tasso d’inflazione mediamente superiore alle altre nazioni e quindi la lira si è svalutata nei confronti delle altre valute. Di converso, la Germania (linea nera) è il Paese che ha avuto l’inflazione più bassa ed in effetti ha rivalutato rispetto a tutti gli altri.



Indice dei prezzi al consumo (%)

Da notare che, ad eccezione della Germania, nel periodo intercorrente tra la prima crisi petrolifera (1973) e i primi anni ’80, tutti i Paesi hanno avuto un tasso d’inflazione in doppia cifra.
La domanda da porsi è allora: perché l’Italia aveva un tasso d’inflazione (leggermente) superiore agli altri Paesi? Detto in altri termini: perché l’Italia aveva una competitività di prezzo (leggermente) inferiore alle altre nazioni e pertanto svalutava? È intuitivo che una nazione risulta essere tanto più competitiva quanto più riesce ad abbassare il prezzo delle merci che offre al resto del mondo, conseguentemente per ottenere una maggiore competitività occorre imporre un aumento della produttività e/o una riduzione di qualche reddito interno: si riesce ad essere competitivi se qualcuno all’interno del Paese “stringe la cinghia”. Chi, nella nazione, debba accettare una riduzione del proprio reddito reale, è una questione politica: se noi perdevamo competitività rispetto agli altri Paesi, tanto da dovere svalutare, voleva dire che la nostra produttività era nettamente inferiore alle altre oppure i nostri politici non volevano che qualcuno stringesse la cinghia.
Vediamo la produttività:



Produttività per ora lavorata (USD, prezzi costanti, 2010 PPP)

La nostra produttività (linea viola) era perfettamente in linea con le altre. E quindi? Stai a vedere che la maggiore inflazione italiana derivava dal fatto che i nostri salari reali, a differenza di quanto dice la narrazione “ufficiale”, non perdevano valore ma, anzi, crescevano?!? Stai vedere che Marco Bentivogli, segretario generale della Federazione Italiana Metalmeccanici (FIM CISL), ha detto una vergognosa bugia quando ha affermato che l’industria di quel tempo “invece di innovare chiedeva ai governi di svalutare lira, impoverendo con l’inflazione i lavoratori?



Per verificarlo basta prendere il valore delle retribuzioni lorde per unità di lavoro dipendente, tratte dal sito dell’ISTAT, e “deflazionarle” per l’indice generale dei prezzi al consumo. Si ottiene la seguente figura:



Salari reali italiani

I salari reali crescevano… e anche tanto! Negli anni ‘70 crescevano mediamente del 5% all’anno, mentre dal 1999 ad oggi, con l’eurone che “proteggere” il potere d’acquisto, sono cresciuti mediamente solo dello 0,3%. Ripeto: nell’era dell’inflazione a doppia cifra i salari reali crescevano del 5% all’anno, mentre nell’era dell’eurone, che protegge i lavoratori dalla temibile tassa occulta costituita dall’inflazione, i salari reali sono fermi. Fermi!



Tasso di variazione dei salari reali italiani (%)

Questo era il risultato di un forte potere contrattuale da parte dei lavoratori che si rifletteva nella quota salari. La quota salari è importante perché ci dice in quale modo viene spartita la “torta” dei redditi prodotti: se fino al 1981 la ricchezza prodotta veniva equamente spartita tra lavoratori dipendenti ed imprenditori (rispettivamente il 49% ai dipendenti ed il 51% agli imprenditori), da metà degli anni ’90 la fetta preponderante della ricchezza è andata al capitale (circa il 59%) ed i lavoratori si sono dovuti accontentare delle briciole (indicativamente il 41%).



Quota salari

Non è per caso che, chi favoleggia di inesistenti impoverimenti indotti dall’inflazione, di una fantomatica Italietta della liretta, lo faccia proprio perché vuole che la componente lavoro resti schiacciata a favore del capitale?



Non è per caso che mentano proprio perché vogliono distruggere il tessuto produttivo della nostra nazione a favore del grande capitale internazionale?

Claudio Barnabè


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domenica 7 ottobre 2018
IL RISVEGLIO DELL'OVVIO: LA MERKEL NON LEGGE KRUGMAN [/paste:font]

POST DI BAZAAR



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«La vittoria a sorpresa di R.Brinkhaus [a capogruppo alla Camera] deve mostrare ad Angela Merkel che la [sua] fine è vicina»

1. Il risveglio dell’ovvio nelle coscienze di chi è pagato per non aver coscienza.

Da Berlino a New York sembra che l’ovvio – se non proprio il banale – si faccia breccia nella consapevolezza degli intellettuali delle nazioni dominanti.

Questo articolo su politico.eu di Konstantin Richter si profila come un interessante punto di vista sulla dinamica economico-politica della Germania.

Il nostro rileva come la percezione dell’opinione pubblica sulla politica economica e sulle relative performance della Germania sia assolutamente fuorviata dalla propaganda tedesca.

Richter mette in luce come l’ideologia propria del capitalismo tedesco sia diversa da quella del mondo anglosassone, segnatamente da quella statunitense: «la nostra economia è condotta dall’ansia» a differenza di quella statunitense il cui «successo economico» è «basato sulla mera avidità o sull’ambizione epica o sul desiderio, come da Silicon Valley, di creare la prossima grande innovazione».

I media tedeschi sono focalizzati su altri problemi sociali, come quelli creati dall’immigrazione di massa, oppure su lontani problemi di cronaca internazionale, sorvolando sui segnali che arrivano dalla sfera economica nazionale; e vengono ricordati:

1 – lo scandalo degli accordi di cartello volti alla falsificazione delle quantità di emissioni emesse dai motori delle maggiori case automobilistiche tedesche;

2 – le condizioni disastrose in cui versa Deutsche Bank che «è l’istituzione che ha gestito praticamente la grande impresa tedesca controllando grosse quote delle società più importanti». Commerzbank non è messa meglio.

3 – Tyssenkrupp è sotto attacco dagli investitori;

4 – Bayer si è esposta con l’acquisizione ad alto rischio di Monsanto;

5 – il settore automobilistico non ha investito in innovazione.

Quando all’inizio del terzo millennio la Germania veniva chiamata dalla stampa estera «il malato d’Europa», il catastrofismo propagandato agevolò le riforme del mercato del lavoro e dello Stato sociale di Gerard Schröder, con la relativa compressione delle dinamiche salariali volta alla “svalutazione competitiva”.

Il nuovo modello tedesco di economia di mercato – che noi per inciso sappiamo essere il classico vecchio modello mercantilistico teutonico – ha rassicurato con le sue performance l’opinione pubblica.

Richter fa notare che questo stato di euforia nasconde l’insidioso lato nascosto del modello di sviluppo tedesco: nessuno parla più del problema demografico, della mancanza di personale qualificato – strettamente legati al modello mercantilista – o del declino di Deutsche Bank.

Soprattutto Richter osserva come il gigante tedesco abbia i piedi d’argilla: come è stato ottenuto l’incredibile surplus tedesco se il vantaggio competitivo su cui sono basate le esportazioni non è stato ottenuto tramite gli investimenti?

Non solo con la svalutazione del lavoro ottenuta da Schröder.

La rivelazione di una dura presa di coscienza è così espressa: «il successo degli esportatori tedeschi è ancora basato sulla superiorità dei loro prodotti? O è solo la droga anestetizzante dell’euro debole?»

La risposta a questa domanda la conosciamo: l’euro è spaventosamente sottovalutato per il mercato tedesco, regalando un vantaggio competitivo alla Germania che risulta essere destabilizzante per l’intera economia mondiale.

Ma i risvegli sui temi che la frontiera intellettuale italiana ha da tempo acquisito e divulgato, non si fermano al tragico karma alemanno: il nobel Krugman ci porta in altre vette dell’ovvio che, fuori da questi spazi, non è così banale: la dialettica tra microeconomia e macroeconomia che – dopo decenni di neoliberalismo – siamo abituati a non percepirla più, considerato che le due discipline risultano confusamente sovrapposte, non permettendo di distinguerne i diversi ambiti; ciò sappiamo essere naturale in quanto caposaldo del pensiero liberale è il cosiddetto individualismo metodologico che, nelle scienze economiche, si manifesta nello sviluppare modelli microfondati sul comportamento individuale al posto di ragionare per aggregati.

D’altronde, come amava dire la Thatcherpasdaran del liberismo antioperaio e discepola di Hayek – «non esiste la società: esistono soltanto gli individui».

2. Risvegli: «La macroeconomia è meglio di ciò che pensate, la microeconomia è peggio, ed i dati sono limitati»

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Krugman fa notare l’assoluto fallimento della comunità scientifica degli economisti nel dare supporto alla politica al fine di evitare, gestire, ed uscire dalla crisi che, da più di dieci anni, sta dilaniando la vita di centinaia di milioni di persone in tutto il mondo.

Il massimo che gli economisti riescono a produrre come autocritica è chiedersi se «non sarebbe necessario dare un maggiore ruolo ai mercati finanziari nei loro modelli».

Pochi, però, «hanno fatto ciò che avrebbero dovuto», ossia, «mettere in discussione interamente la direzione che ha preso la macroeconomia in questi ultimi quarant’anni».

L’economista americano ci informa che generalmente tra economisti la vulgata è – sulla falsa riga del meno-stato-più-riforme, più-disastro-economico, meno-stato-più-riforme, più-disastro-economico, ecc., in un circolo vizioso e viziato dagli interessi immediati delle classi egemoni – che il fallimento delle ricette economiche sia stato dovuto a troppa-macroeconomia-troppo-poca-microeconomia.

Per cui il circolo vizioso e viziato di meno-stato-più-riforme, con tutti i vari corollari microfondativi della microeconomia applicati alla crisi, ha trovato pure la leva del circolo vizioso (e viziato) di troppa-macroeconomia-troppo-poca-microeconomia, ricette-inutili-quando-va-bene-e-catastrofiche-quando-va-male, e via, viziosamente, nelle bolge infernali della stagnazione quando va bene, della recessione e della depressione quando va male.

Paul Krugman ci dice che «l’esaltazione della micro come l’unica “vera” teoria economica dà alla microeconomia troppo credito e ciò è di gran lunga la causa dei modi in cui la scienza economica ha fallito».

L’imbarazzante conclusione di queste dinamiche, ci informa il premio Nobel, è stata che influencer, tanto all’esterno quanto all’interno della professione economica, hanno deciso che la scienza economica è un «nonsense» – insomma, non è proprio una scienza – e, quindi, sarebbe stato molto meglio affidarsi a «coloro che erano immersi nel mondo reale, ovvero ai grandi capitani d’impresa»; da cui l’epopea mediatica accompagnata dalla maestosa immagine: “lo ideale dell’omo virile” schumpeterianamente emerso dalla selva di cadaveri lasciati dal darwinismo mercatista: in breve, l’epopea degli espertologi.

Oppure – osserva l’illustre economista – di converso e per amor di positivismo, ci si è «concentrati sui risultati empirici e si è tralasciato i modelli».

Secondo Krugman gli aitanti espertologi del mondo dell’imprenditoria (e delle grandi organizzazioni sovranazionali, aggiungiamo noi) sono stati, «nell’ultimo decennio, più dannosi che inutili, mentre le vocine nell'aria udite dagli squilibrati (sic) con potere decisionale hanno, come al solito, dato un pessimo consiglio». Parole di Paul.

Mentre – guarda un po’ – se «l’evidenza empirica è importante e ce n’è sempre più bisogno, i dati non parlano pressoché mai per se stessi; punto che è stato ampiamente dimostrato dai recenti eventi di politica monetaria».

Insomma, di fronte all’evidenza del disastro economico-sociale che ci circonda, dove una banda di «squilibrati» – quattro noci in un sacco (avrebbe Togliatti in Costituente a proposito dei liberali) – ha dirottato e preso in ostaggio gran parte dei Paesi a democratizzazione avanzata, pare che qualche Nobel abbia iniziato timidamente a far dell’epistemologia delle scienze sociali.

Krugman porta l’esempio dei due fisici Julian Schwinger and Richard Feynman: Schwinger riuscì per primo a venire a capo dell’elettrodinamica quantistica, ma i suoi metodi erano incredibilmente complicati.

Feynman ci arrivò egualmente ma con un approccio molto più semplice – i suoi famosi diagrammi – che davano il medesimo risultato ma erano molto più semplici da usare.

Nessuno vide mai Schwinger usare questi diagrammi, ma si mormora che avesse una stanza chiusa a chiave in cui teneva i diagrammi di Feynman che usava in segreto.

Ecco, la macroeconomia moderna ricalca questo aneddoto: immaginate però che Schwinger controlli tutte le riviste e sia in una posizione per cui può prevenire che nessuno possa pubblicare con il metodo più semplice.

Cos’è l’equivalente dei diagrammi di Feynman?

Ciò che tutti gli studenti del primo anno dei corsi di economia politica studiano sotto il nome di “modello IS-LM”.

Bene: tutti gli economisti che lavorano in istituzioni che si occupano di macroeconomia ragionano, pensano, e discutono tra loro in funzione del modello IS-LM; ma, quando hanno bisogno di pubblicare sulle riviste, vengono costretti a «microfondare» il loro modello.

E un esempio lo facciamo noi: è come se si volesse dimostrare il principio di Archimede non considerando il volume complessivo dell’acqua spostata dopo averci immerso un solido, ma cercando di capire la reazione fisica dell’acqua studiando il comportamento di ogni singola molecola.

Ecco, la formula di galleggiamento, invece di risultare una semplice equazione con un paio di rapporti, si presenterebbe come un’orgia di equazioni differenziali… non risolte.

E diciamo noi, non risolte perché alla classe egemone non interessa che sia risolto alcunché. Perché la classe egemone ha scommesso sull’affondamento del Titanic (alias, “mercato globale”) e, se la nave non galleggia, i profitti e la sua influenza politica aumentano.

Il delirio matematico permette di dimostrare tutto ciò che fa comodo a chi può finanziare il delirio matematico stesso.

Immaginatevi, quindi, quale potrà essere la deontologia media dell’economista che ce la fa. Che ha un nome prestigioso...

Ora, le analisi basate sul modello IS-LM non danno grandi informazioni in tempi normali, ma forniscono precise previsioni – spesso previsioni molto preziose per le priorità delle persone – durante i tempi di grave crisi.

Ad esempio, se c’è un grande shock avverso della domanda, come quello che è avvenuto nel 2007/2008 quando è scoppiata la bolla dei mutui subprime, si manifesta un cambiamento di regime per cui né la politica monetaria né la politica fiscale hanno i medesimi effetti come in tempi normali.

Ad esempio, la macroeconomia keynesiana afferma che una volta che i tassi di interesse sono vicini allo zero, le politiche monetarie servono a poco o nulla.

Insomma, il famoso quantitative easing delle banche centrali non servirà a produrre inflazione.

Se per esempio si va a spiare (nella stanza chiusa a chiave di cui si diceva più sopra) i modelli di Tobin sul sistema bancario, scopriremmo che grandi aumenti della base monetaria non serviranno nemmeno molto a mettere in circolo moneta.

Ciononostante alcuni economisti sono impazziti nel cercare di spiegare come mai Bernanke alla Fed abbia aumentato di cinque volte la base monetaria e – nonostante gli ammonimenti sul deprezzamento del dollaro e l’allarmismo sull’inflazione – iprezzi siano rimasti al palo.

Eppure, commenta Krugman, «questo è esattamente ciò che ci si sarebbe dovuti aspettare».

...

E sulla politica fiscale?

La macro tradizionale afferma che – quando i tassi di interesse scendono intorno allo zero – non si sarebbe dovuto verificare alcuno spiazzamento, che i deficit non avrebbero dovuto far salire i tassi d’interesse, e che i moltiplicatori fiscali sarebbero stati più grandi che in condizioni normali.

Ovviamente le cose sono andate come dovevano andare secondo la macro keynesiana: non ci sono altri modelli in grado di stupire per accuratezza previsionale e “controintuitività” – eppure – non-economisti (ma anche economisti) si rifiutano di crederci.

La microeconomia non è servita a nulla, se non a ricordare che la macroeconomia keynesiana funziona.

Ciononostante, «la teoria microeconomica, fondata nella rigorosa derivazione del comportamento individuale dalla massimizzazione dell’utilità, è stata presa come il gold-standard».

La macroeconomia keynesiana, a parte generiche proposizioni di profilo psicologistico come quelle relative alla propensione marginale al consumo, si occupa di aggregati senza esplicitamente descrivere cosa gli individui facciano: questa prassi è sempre stata considerata dubbia e rozza.

Però, cari liberisti-microfondatori, dice Krugman, «il-mondo-non-funziona-nel-modo-in-cui-pensate».

Tutte le previsioni basate sulla macroeconomia microfondata, del tipo: “solo i flussi monetari inaspettati dovrebbero influenzare la produzione reale”, “le temporanee variazioni del reddito non dovrebbero influenzare i consumi”, “la spesa pubblica dovrebbe spiazzare la domanda privata”, ecc. si sono rivelate sbagliate.

Un modo per capire che le teorie ed i modelli usati sono errati, è il dato empirico, ovvero il muro della realtà contro cui si va a sbattere! (Sulla pelle dei lavoratori, ovviamente).

Un altro argomento che tocca Krugman è il principio di autorità: «Io sono un famoso professore, quindi devi credere in ciò che dico». Commenta: «Così non finisce mai bene».

L’atteggiamento fallace opposto, invece, è quello per cui «gli economisti non sanno niente», e, aggiungiamo noi, chiunque può dire la qualunque, in un’orgia di espertologia che va dagli studi televisivi al bar sotto casa.

«Gli economisti non si sono guadagnati il diritto di essere altezzosi e superiori, soprattutto se la loro reputazione deriva dall’abilità di fare matematica complessa: la matematica complessa è stata particolarmente di poco aiuto ultimamente, se mai lo è stata»

Bè, caro Krugman: forse non sono semplicemente degli squinternati coloro che si affidano ai multimiliardari per le ricette di politica economica.

Forse è il pensiero economico dominante che, come direbbe Marx, è sovrastrutturato al potere economico dei multimiliardari.

Forse… nel frattempo tutti gli altri economisti e commentatori continuino a dormire.
 
corretto postarlo per evidenzare che chi compare nei mainsream nazionali o espertologi dell ultima ora, sul sito,nn siamo da meno ,quando spende o inventa teorie economiche passamdole 'per verità assolute, abbiamo la certezza,che abbiamo a che fare con l italiano medio, ovvero i 6o milioni di allenatori della nazionale italiana di calcio


Ottima analisi ma ...... dimentichi un dato FONDAMENTALE....

IL GRANDISSIMO AVANZO PRIMARIO REALIZZATO TRA IL 1996 e Il 2001 fu dovuto.... esclusivamente.... ripeto esclusivamente.... alla mostruosa riduzione dei tassi d'interesse che la BARCA D'ITALIA pavaga sulle NUOVE EMISSIONI DI TITOLI DI STATO.... SI PASSÒ DA UN TASSO DI SCONTO AL 12% .. del LAUREATO IN LEGGE CIAMPI... AL 4% del PRODI PRODIERE.

LA MOSTRUOSA DIMINUZIONE DEI TASSI D'INTERESSE SUI BTP E BOT... PERMISE DI CREARE AVANZO PRIMARIO MOSTRUOSO..

A QUESTA manna per le casse dello stato... si deve aggiungere... l'immenso surplus della BILANCIA commerciale dovuto... alla mostruosa svalutazione della lira del 1992-94.

Una svalutazione del 50% effettiva tant'è che per acquistare un franco svizzero si passerà da 800 lire del 1092 A 1600 lire...

ATTUALMENTE siamo a 1936/1,14= 1700 lire.

Ovviamente la diminuzione mostruosa degli interessi pagati dallo stato sui titoli di stato di nuova emissione.... e i conseguenti risparmi... NON FINIRONO I SIGNIFICATIVI AUMENTI DEGLI INVESTIMENTI PUBBLICI.. NE IN SIGNIFICATIVI AUMENTI SALARIALI... E ORA CHE SIAMO FERMI DA 16 a livelli retributivi da PREMISERIA... TUTTI GLI ESPERTI... PARLANO E PONTIFICANO SU TUTTO .. TRANNE IL POTERE D'ACQUISTO REALE DEI SALARIALI E DELLE PENSIONI.
 

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