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Email di Hillary, dinari d’oro e Primavera araba


luglio 12, 2016 2 commenti

F. William Engdahl, New Eastern Outlook 17 marzo 2016

Sepolto tra decine di migliaia di pagine e-mail segrete dell’ex-segretaria di Stato Hillary Clinton, ora rese pubbliche dal governo degli Stati Uniti, c’è un devastante scambio di e-mail tra Clinton e il suo confidente Sid Blumenthal su Gheddafi e l’intervento degli Stati Uniti coordinato nel 2011 per rovesciare il governante libico. Si tratta dell’oro quale futura minaccia esistenziale al dollaro come valuta di riserva mondiale. Si trattava dei piani di Gheddafi per il dinaro-oro per l’Africa e il mondo arabo.
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Due paragrafi in una e-mail di recente declassificate dal server privato illegalmente utilizzato dall’allora segretaria di Stato Hillary Clinton durante la guerra orchestrata dagli Stati Uniti per distruggere la Libia di Gheddafi nel 2011, rivelano l’ordine del giorno strettamente segreto della guerra di Obama contro Gheddafi, cinicamente chiamata “Responsabilità di proteggere”. Barack Obama, presidente indeciso e debole, delegò tutte le responsabilità presidenziali della guerra in Libia alla segretaria di Stato Hillary Clinton, prima sostenitrice del “cambio di regime” arabo utilizzando in segreto i Fratelli musulmani ed invocando il nuovo bizzarro principio della “responsabilità di proteggere” (R2P) per giustificare la guerra libica, divenuta rapidamente una guerra della NATO. Con l’R2P, concetto sciocco promosso dalle reti dell’Open Society Foundations di George Soros, Clinton affermava, senza alcuna prova, che Gheddafi bombardasse i civili libici a Bengasi. Secondo il New York Times, citando fonti di alto livello dell’amministrazione Obama, fu Hillary Clinton, sostenuta da Samantha Power, collaboratrice di primo piano al Consiglio di Sicurezza Nazionale e oggi ambasciatrice di Obama alle Nazioni Unite, e Susan Rice, allora ambasciatrice di Obama alle Nazioni Unite, e ora consigliere per la Sicurezza Nazionale, che spinse Obama all’azione militare contro la Libia di Gheddafi. Clinton, affiancata da Powers e Rice, era così potente che riuscì a prevalere sul segretario alla Difesa Robert Gates, Tom Donilon, il consigliere per la sicurezza nazionale di Obama, e John Brennan, capo antiterrorismo di Obama ed oggi capo della CIA. La segretaria di Stato Clinton guidò la cospirazione per scatenare ciò che venne soprannominata “primavera araba”, l’ondata di cambi di regime finanziati dagli USA nel Medio Oriente arabo, nell’ambito del progetto del Grande Medio Oriente presentato nel 2003 dall’amministrazione Bush dopo l’occupazione dell’Iraq. I primi tre Paesi colpiti dalla “primavera araba” degli USA nel 2011, in cui Washington usò le sue ONG per i “diritti umani” come Freedom House e National Endowment for Democracy, in combutta come al solito con le Open Society Foundations dello speculatore miliardario George Soros, insieme al dipartimento di Stato degli Stati Uniti e ad agenti della CIA, furono la Tunisia di Ben Ali, l’Egitto di Mubaraq e la Libia di Gheddafi. Ora tempi e obiettivi di Washington della destabilizzazione via “primavera araba” del 2011 di certi Stati in Medio Oriente assumono nuova luce in relazione alle email declassificate sulla Libia di Clinton con il suo “consulente” e amico Sid Blumenthal. Blumenthal è l’untuoso avvocato che difese l’allora presidente Bill Clinton nello scandalo sessuale di Monika Lewinsky quando era Presidente e affrontava l’impeachment.

Il dinaro d’oro di Gheddafi
Per molti rimane un mistero perché Washington abbia deciso che Gheddafi dovesse essere ucciso, e non solo esiliato come Mubaraq. Clinton, quando fu informata del brutale assassinio di Gheddafi da parte dei terroristi di al-Qaida dell'”opposizione democratica” finanziata dagli USA, pronunciò alla CBS News una perversa parafrasi di Giulio Cesare, “Siamo venuti, l’abbiamo visto, è morto” con una fragorosa risata macabra. Poco si sa in occidente di ciò che Muammar Gheddafi fece in Libia o anche in Africa e nel mondo arabo. Ora, la divulgazione di altre e-mail di Hillary Clinton da segretaria di Stato, al momento della guerra di Obama a Gheddafi, getta nuova drammatica luce. Non fu una decisione personale di Hillary Clinton eliminare Gheddafi e distruggerne lo Stato. La decisione, è ormai chiaro, proveniva da ambienti molto potenti dell’oligarchia monetaria degli Stati Uniti. Era un altro strumento a Washington del mandato politico di tali oligarchi. L’intervento era distruggere i piani ben definiti di Gheddafi per creare una moneta africana e araba basata sull’oro per sostituire il dollaro nei traffici di petrolio. Da quando il dollaro USA ha abbandonato il cambio in oro nel 1971, il dollaro rispetto all’oro ha perso drammaticamente valore. Gli Stati petroliferi dell’OPEC hanno a lungo contestato il potere d’acquisto evanescente delle loro vendite di petrolio, che dal 1970 Washington impone esclusivamente in dollari, mentre l’inflazione del dollaro arrivava ad oltre il 2000% nel 2001. In una recentemente declassificata email di Sid Blumenthal alla segretaria di Stato Hillary Clinton, del 2 aprile 2011, Blumenthal rivela la ragione per cui Gheddafi andava eliminato. Utilizzando il pretesto citato da una non identificata “alta fonte”, Blumenthal scrive a Clinton, “Secondo le informazioni sensibili disponibili a questa fonte, il governo di Gheddafi detiene 143 tonnellate di oro e una quantità simile in argento… l’oro fu accumulato prima della ribellione ed era destinato a creare una valuta panafricana basata sul dinaro d’oro libico. Questo piano era volto a fornire ai Paesi africani francofoni un’alternativa al franco francese (CFA)“. Tale aspetto francese era solo la punta dell’iceberg del dinaro d’oro di Gheddafi.

Dinaro d’oro e molto altro ancora
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Nel primo decennio di questo secolo, i Paesi OPEC del Golfo persico, tra cui Arabia Saudita, Qatar e altri, iniziarono seriamente a deviare una parte significativa dei ricavi delle vendite di petrolio e gas sui fondi sovrani, basandosi sul successo dei fondi petroliferi norvegesi. Il crescente malcontento verso la guerra al terrorismo degli Stati Uniti, con le guerre in Iraq e Afghanistan e la loro politica in Medio Oriente dal settembre 2001, portò la maggior parte degli Stati arabi dell’OPEC a deviare una quota crescente delle entrate petrolifere su fondi controllati dallo Stato, piuttosto che fidarsi delle dita appiccicose dei banchieri di New York e Londra, come era solito dagli anni ’70, quando i prezzi del petrolio schizzarono alle stelle creando ciò che Henry Kissinger affettuosamente chiamò “petrodollaro” per sostituire il dollaro-oro che Washington mollò il 15 agosto 1971. L’attuale guerra tra sunniti e sciiti o lo scontro di civiltà sono infatti il risultato delle manipolazioni degli Stati Uniti nella regione dal 2003, il “divide et impera”. Nel 2008 la prospettiva del controllo sovrano in un numero crescente di Stati petroliferi africani ed arabi dei loro proventi su petrolio e gas causava gravi preoccupazioni a Wall Street e alla City di Londra. Un’enorme liquidità, migliaia di miliardi, che potenzialmente non potevano più controllare. La primavera araba, in retrospettiva, appare sempre più sembra legata agli sforzi di Washington e Wall Street per controllare non solo gli enormi flussi di petrolio dal Medio Oriente arabo, ma ugualmente lo scopo era controllarne il denaro, migliaia di miliardi di dollari che si accumulavano nei nuovi fondi sovrani. Tuttavia, come confermato dall’ultimo scambio di email Clinton-Blumenthal del 2 aprile 2011, dal mondo petrolifero africano e arabo emergeva una nuova minaccia per gli “dei del denaro” di Wall Street e City di Londra. La Libia di Gheddafi, la Tunisia di Ben Ali e l’Egitto di Mubaraq stavano per lanciare la moneta islamica indipendente dal dollaro USA e basata sull’oro. Mi fu detto di questo piano nei primi mesi del 2012, in una conferenza finanziaria e geopolitica svizzera, da un algerino che sapeva del progetto. La documentazione era scarsa al momento e la storia mi passò di mente. Ora un quadro molto più interessante emerge indicando la ferocia della primavera araba di Washington e l’urgenza del caso della Libia.

‘Stati Uniti d’Africa’
Nel 2009 Gheddafi, allora Presidente dell’Unione africana, propose che il continente economicamente depresso adottasse il “dinaro d’oro”. Nei mesi precedenti la decisione degli Stati Uniti, col sostegno inglese e francese, di aver una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per aver la foglia di fico del diritto alla NATO di distruggere il regime di Gheddafi, Muammar Gheddafi organizzò la creazione del dinaro-oro che sarebbe stato utilizzato dagli Stati africani petroliferi e dai Paesi arabi dell’OPEC per vendere petrolio sul mercato mondiale. Al momento Wall Street e City di Londra erano sprofondati nella crisi finanziaria del 2007-2008, e la sfida al dollaro quale valuta di riserva l’avrebbe aggravata. Sarebbe stata la campana a morto per l’egemonia finanziaria statunitense e il sistema del dollaro. L’Africa è uno dei continenti più ricchi del mondo, con vaste inesplorate ricchezze in minerali ed oro, volutamente mantenuto per secoli sottosviluppato o preda di guerre per impedirne lo sviluppo. Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale negli ultimi decenni furono gli strumenti di Washington per sopprimere un vero sviluppo africano. Gheddafi invitò i Paesi produttori di petrolio africani dell’Unione africana e musulmani ad entrare nell’alleanza che avrebbe fatto del dinaro d’oro la loro valuta. Avrebbero venduto petrolio e altre risorse a Stati Uniti e resto del mondo solo in dinari d’oro. In qualità di Presidente dell’Unione africana, nel 2009 Gheddafi presentò all’Unione Africana la proposta di usare il dinaro libico e il dirham d’argento come unico denaro con cui il resto del mondo poteva comprare il petrolio africano. Insieme ai fondi sovrani arabi dell’OPEC, le altre nazioni petrolifere africane, in particolare Angola e Nigeria, creavano i propri fondi nazionali petroliferi quando nel 2011 la NATO bombardava la Libia. Quei fondi nazionali sovrani, legati al concetto del dinaro d’oro di Gheddafi, avrebbe realizzato il vecchio dell’Africa indipendente dal controllo monetario coloniale, che fosse sterlina, franco francese, euro o dollaro statunitense. Gheddafi attuava, come capo dell’Unione africana, al momento dell’assassinio, il piano per unificare gli Stati sovrani dell’Africa con una moneta d’oro negli Stati Uniti d’Africa. Nel 2004, il Parlamento panafricano di 53 nazioni aveva piani per la Comunità economica africana, con una moneta d’oro unica entro il 2023. Le nazioni africane produttrici di petrolio progettavano l’abbandono del petrodollaro e di chiedere pagamenti in oro per petrolio e gas; erano Egitto, Sudan, Sud Sudan, Guinea Equatoriale, Congo, Repubblica democratica del Congo, Tunisia, Gabon, Sud Africa, Uganda, Ciad, Suriname, Camerun, Mauritania, Marocco, Zambia, Somalia, Ghana, Etiopia, Kenya, Tanzania, Mozambico, Costa d’Avorio, oltre allo Yemen che aveva appena scoperto nuovi significativi giacimenti di petrolio. I quattro Stati africani nell’OPEC, Algeria, Angola, Nigeria, gigantesco produttore di petrolio e primo produttore di gas naturale in Africa dagli enormi giacimenti di gas, e la Libia dalle maggiori riserve, avrebbero aderito al nuovo sistema del dinaro d’oro. Non c’è da stupirsi che il presidente francese Nicolas Sarkozy, che da Washington ricevette il proscenio della guerra contro Gheddafi, arrivò a definire la Libia una “minaccia” alla sicurezza finanziaria del mondo .

I “ribelli” di Hillary creano una banca centrale
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Una delle caratteristiche più bizzarre della guerra di Hillary Clinton per distruggere Gheddafi fu che i “ribelli” filo-USA di Bengasi, nella parte petrolifera della Libia, nel pieno della guerra, ben prima che fosse del tutto chiaro che avrebbero rovesciato il regime di Gheddafi, dichiararono di aver creato una banca centrale di tipo occidentale “in esilio”. Nelle prime settimane della ribellione, i capi dichiararono di aver creato una banca centrale per sostituire l’autorità monetaria dello Stato di Gheddafi. Il consiglio dei ribelli, oltre a creare la propria compagnia petrolifera per vendere il petrolio rubato, annunciò: “la nomina della Banca Centrale di Bengasi come autorità monetaria competente nelle politiche monetarie in Libia, e la nomina del governatore della Banca centrale della Libia, con sede provvisoria a Bengasi“. Commentando la strana decisione, prima che l’esito della battaglia fosse anche deciso, di creare una banca centrale per sostituire la banca nazionale sovrana di Gheddafi che emetteva dinari d’oro, Robert Wenzel del Economic Policy Journal, osservò, “non ho mai sentito parlare di una banca centrale creata poche settimane dopo una rivolta popolare. Ciò suggerisce che c’è qualcos’altro che non una banda di straccioni ribelli e che ci sono certe piuttosto sofisticate influenze“. È chiaro ora, alla luce dei messaggi di posta elettronica Clinton-Blumenthal, che tali “influenze abbastanza sofisticate” erano legate a Wall Street e City di Londra. La persona inviata da Washington a guidare i ribelli nel marzo 2011, Qalifa Haftar, aveva trascorso i precedenti venti anni in Virginia, non lontano dal quartier generale della CIA, dopo aver lasciato la Libia quando era uno dei principali comandante militari di Gheddafi. Il rischio per il futuro del dollaro come valuta di riserva mondiale, se Gheddafi avesse potuto procedere insieme a Egitto, Tunisia e altri Stati arabi di OPEC e Unione Africana, introducendo le vendite di petrolio in oro e non dollari, sarebbe stato chiaramente l’equivalente finanziario di uno tsunami.

La Nuova Via della Seta d’oro
Il sogno di Gheddafi di un sistema basato sull’oro arabo e africano indipendente dal dollaro, purtroppo è morto con lui. La Libia, dopo la cinica “responsabilità di proteggere” di Hillary Clinton che ha distrutto il Paese, oggi è lacerata da guerre tribali, caos economico, terroristi di al-Qaida e SIIL. La sovranità monetaria detenuta dal 100% dalle agenzie monetarie nazionali statali di Gheddafi e la loro emissione di dinari d’oro, è finita sostituita da una banca centrale “indipendente” legata al dollaro. Nonostante ciò, va notato che ora un nuovo gruppo di nazioni si unisce per costruire un sistema monetario basato sull’oro. Questo è il gruppo guidato da Russia e Cina, terzo e primo Paesi produttori di oro nel mondo. Questo gruppo è legato alla costruzione del grande progetto infrastrutturale eurasiatico della Nuova Via della Seta della Cina, comprendente 16 miliardi di fondi in oro per lo sviluppo della Cina, decisa a sostituire City di Londra e New York come centri del commercio mondiale dell’oro. L’emergente sistema d’oro eurasiatico pone ora una serie completamente nuova di sfide all’egemonia finanziaria statunitense. Questa sfida eurasiatica, riuscendo o fallendo, deciderà se la nostra civiltà potrà sopravvivere e prosperare in condizioni completamente diverse, o affondare con il fallimentare sistema del dollaro.
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F. William Engdahl è consulente di rischio strategico e docente, laureato in politica alla Princeton University, è autore di best-seller su petrolio e geopolitica, in esclusiva per la rivista online “New Eastern Outlook“.

Traduzione di Alessandro Lattanzio – SitoAurora
 
14 LUGLIO

come sapete, in Francia è festa nazionale

la RIVOLUZIONE

allora piccolo remainder

- il 14 luglio 1789 alla Bastiglia c'erano 7 prigionieri: 4 ladri, 2 malati di mente, 1 libertino

- nel 1793 le COLONNE INFERNALI dell'esercito repubblicano devastano la VANDEA, massacrando 300.000 cittadini, in gran parte contadini

erano stupidi contadini che non si allineavano alle élites di Parigi e dovevano essere sterminati

Vi dice nulla...? a proposito di Brexit...?

come scrisse il generale Westerman, capo dell'esercito repubblicano:

"non esiste più la Vandea. L'ho sotterrata massacrando tutti, donne e bambini"

« Il n’y a plus de Vendée, citoyens républicains, elle est morte sous notre sabre libre, avec ses femmes et ses enfants. Je viens de l’enterrer dans les bois et les marais de Savenay. Suivant les ordres que vous m’avez donnés, j’ai écrasé les enfants sous les pieds des chevaux et massacré les femmes qui, au moins pour celles-là, n’enfanteront plus de brigands. Je n’ai pas un prisonnier à me reprocher. J’ai tout exterminé. »

il primo GENOCIDIO DI STATO

dell'età moderna

Vend?e French call for revolution massacre to be termed 'genocide'

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economici.
analisi e studi luglio 14, 2016 posted by Mitt Dolcino
Perché il sistema bancario italiano, il più sano al mondo post crisi subprime, fallisce 8 anni dopo? Semplice, ci han obbligato a salvare le banche francesi e tedesche. Poi l’austerità…

Vi propongo un’analisi su cui riflettere, per l’ombrellone. Purtroppo nessuno si fa la domanda di cui al titolo, nessuno si chiede perché siamo vicini al fallimento del sistema bancario nazionale, come ben ci ricorda il ministro ceco Andrej Babis, peggio del Brexit ha detto.

A scanso di equivoci scolpitevelo nella testa, è vero che il nostro sistema bancario usciva vincente nel post subprime nel settembre 2008, Roma fu l’unico paese occidentale che non dovette salvare nessuna banca ai tempi, solo Unicredit aveva problemi a causa delle sue controllate tedesche ed austriache e venne salvata dal fondo sovrano di Gheddafi, forse firmando così la propria condanna a morte.

Eh si, a seguito del crack Lehman il sistema bancario italiano era sanissimo anche grazie all’enorme mole di risparmi degli italiani e della relativa stabilità dei prezzi degli immobili, da noi non ci furono picchi incredibili come invece accadde in Spagna, Portogallo, USA, Gran Bretagna, Olanda, anche in Francia. Il crollo dei prezzi degli immobili e la successiva crisi economica nel post crack Lehman aveva reso irredimibili troppi debiti: il risultato fu il di fatto fallimento – nei due anni successivi al crack, settembre 2008-10 – di nomi enormi del panorama finanziario globale, ING, Abn Amro, Dexia, Northern Rock, Lloyds, West LB ed una miriade di banche tedesche, pochi ricordano che anche la mitica UBS svizzera era di fatto fallita.



SocGen si salvò solo grazie ad uno scandalo tanto strano quanto molto opportuno, alla francese, quello del caso Kerviel in cui si fece passare per colpa di un trader il buco miliardariodella banca, un piccolo scandaletto d’oltralpe (che in Italia è passato in sordina) in cui – sembra – siano stati interessati anche i servizi segreti con intercettazioni dei giudici competenti…. Addirittura il sistema finanziario irlandese e cipriota erano tecnicamente falliti, parlo di interi paesi. Ed in Italia nulla….

Quindi, PRIMO PASSO per spiegare il prossimo fallimento delle banche italiane dei nostri giorni: nel post subprime i paesi EU dovettero salvare le proprie banche, ecco i conti da far tremare le gambe.

La crisi Greca che seguì fu una semplice conseguenza del subprime, anche il sistema finanziario greco basato sul credito dato non solo allo Stato ellenico era già traballante ed andò in crisi non appena le banche straniere dovettero rimpatriare i propri asset per salvare i propri conti, questo fece fare crack ad Atene, non appena il mercato riprezzò il rischio di prestare soldi alla traballante Atene ed ai suoi concittadini.

Dunque, a livello macro quello che succedette fu che gli Stati dovettero salvare il sistema finanziario globale post subprime, paese per paese. La crisi ellenica fu la conseguenza per cui le banche francesi e tedesche si resero conto di avere prestiti inesigibili enormi, encore/di nuovo, sarebbero tecnicamente fallite se tali debiti non fossero stati restituiti. Ecco perché la Grecia non è MAI stata mandata formalmente al tappeto evitando la dichiarazione di fallimento (i CDS del debito Greco non sono MAI scattati). L’Italia invece aveva un’esposizione ridottissima o nulla verso Atene, o quasi.

Dunque, restando all’Europa, cosa si dovette fare per salvare Atene? Appunto salvare le banche, quelle che avevano pretato ai paesi in crisi. L’EU creò dunque i vari meccanismi ESM etc. per aiutare i paesi in crisi (specialmente Irlanda, Cipro, Grecia ed anche Spagna), che in realtà significava salvare le loro di banche tanto interconnesse col resto del mondo.

In tutto questo L’Italia ai tempi di Tremonti e Berlusconi dovette mettere mano al portafoglio per salvare i sistemi finanziari altrui con un contributo di un ammontare ciclopico.



Il risultato dunque fu, SECONDO PASSO, che l’EU dovette salvare il i paesi andati in crisi a valle del subprime e per questo l’Italia dovette contribuire a salvare le banche altrui (soprattutto francesi e tedesche) per un sobrio italiano contributo di ca. 125 mld euro.

In ogni caso già a questo livello si può comprendere l’incredibilità dell’atteggiamento franco-tedesco odierno contrario al salvataggio sistemico dell’Italia, dopo quanto è successo e dopo il suo contributo al sistema ci dicono di no, sembra proprio che oggi ci vogliano fare fallire. E qui bisognerebbe sforzarsi di capire il perchè…

Ma il punto più importante è cosa successe dopo: il sistema finanziario più solido in quanto meno intaccato dal subprime – quello italiano – venne azzoppato a partire da luglio 2011 (ma tutto iniziò durante il 2010) con la successiva incredibile, mortale austerità del liquidatore europeo Mario Monti. Il risultato dopo quasi 5 anni è che oggi abbiamo noi un sistema finanziario (italiano) in fallimento in quanto così si voleva, causato dall’EU per salvare la sua stessa esistenza e le sue banche a vantaggio tedesco (anche se ormai dovrei dire franco-tedesco, il rapporto tra Parigi e Berlino di oggi è assimilabile a quello che esisteva con la Francia di Vichy).

E questo è accaduto a causa di collaterale in mano alle banche che prima era sufficiente – molto spesso immobili – ed oggi è pesantemente degradato, ora capite perché le maxi tasse montiane si siano concentrate sugli immobili (ormai ca. pari all’1% del valore commerciale degli stessi ), ossia prendendo due piccioni con una fava uccidendo sia la crescita economica che le costruzioni generano nell’indotto che annichilendo a termine il valore del collaterale immobiliare in mano alle banche.



Anche lo stesso collaterale aziendale di PMI andate in crisi è stato dilapidato, aziende soprattutto piccole, contribuendo al disastro non avendo potuto sopravvivere alla crisi interna indotta dall’austerità. Anche il ritiro dei capitali dall’estero e verso l’estero – a fronte dell’incertezza ingeneratesi in Italia – è andato nella stessa direzione. Notasi, che le tasse siano aumentate a dismisura lo dice anche il PD….
 
economici.itil mondo visto da un'altra angolazione
Ma soprattutto la drastica riduzione dei trasferimenti dello Stato ci ha portati verso il fallimento, immaginatevi ad esempio agli effetti diffusi della legge Fornero, cosa può aver significato in termini di riduzione dei consumi nazionali. Noi non ci rendiamo conto che oggi la gente non solo fa fatica a consumare ma troppo spesso anche semplicemente a mangiare (le persone sotto la soglia di povertà sono a livelli mai visti dal secondo dopoguerra). E tale crisi è stata determinata da un improvviso aumento della protervia dello Stato nel recuperare tasse per fare gettito a causa delle pressione europee in tal senso, pressioni nate nel dopo il golpe del 2011 e perfettamente inutili se non addirittura dannose per far uscire l’Italia dalla crisi economica (ma utili all’estero per costringere ad esempio a “privatizzare”, come nel post Tangentopoli). E per il futuro stando nell’euro scordatevi tasse basse, ve lo dice lo stesso governo nei suo vari DEF. Interessante osservare nella tabella che segue l’effetto della crisi nel deficit pensionistico italiano, spaventoso (leggasi, vogliono mandarci sul lastrico per impulso europeo per poi tagliarci le pensioni che diventeranno insostenibili e dunque comprarci per un tozzo di pane dandoci in pasto ai paesi del nord, ad esempio una volta cambiata la legge sulle successioni – fra qualche mese, inasprendole pesantemente – le cosa avute in eredità dai genitori su cui si sono già pagate le imposte si dovranno vendere per pagare le successioni!).



Quindi, ecco il TERZO PASSO verso il fallimento, causato dalla dannosa austerità incredibilmente imposta all’Italia ed ai periferici per impulso dell’Europa tedesca, con iperbolico aumento delle tasse imposte ai cittadini [infatti il primo messaggio post Brexit è stato quello di tagliare le tasse in UK e fare deficit, senza i vincoli europei utili solo alla GErmania vedremo Londra risorgere].

In breve, al di fuori delle sue innegabili colpe, l’Italia è stata vittima di un piano molto ben congegnato utile a far pagare “al vicino” i costi dei propri salvataggi. Poi si è calcata la mano, l’appetito vien mangiando, un paese politicamente debole è un paese attaccabile e depredabile, soprattutto se ricco.



Ed infatti francesi e tedeschi quasi non riescono a capacitarsi di quanto sia resistita fino ad oggi l’Italia alla Troika, ben sapendo che se non riusciranno a mettere le mani sui nostri assets nazionali entro la fine della presidenza Obama (che non è amico dell’Italia) tutto potrebbe cambiare.

In tutto questo i vari scandali bancari, il caso Etruria ad esempio ma anche Cassa di Risparmio di Vicenza e BP Milano ecc. ecc., non sono un’eccezione, vengono sempre fuori anche a valle crisi come queste. Il vero problema sistemico è un altro e va capito nei termini sopra indicati. Mi permetto di aggiungere che quanto deve essere fatto negli scandali è punire i responsabili dei misfatti: la cosa inaccettabile è che oggi si mandino agli arresti persone che fanno “magheggi” nel timbrare i cartellini [arrecando danni limitati al Paese] mentre i vari CdA delle varie banche che hanno creato danni enormemente maggiori sono tranquillamente a piede libero, manco gli hanno sequestrato i beni.

Si noti che oggi la Germania continua a non voler sdoganare la flessibilità normativa per l’Italia, sta solo cercando un escamotage per tornare al rigore quanto prima (oggi è obbligata a cedere qualcosa a causa del Brexit).

Ricordatevi queste parole e questa analisi quando la crisi si acuirà, nei prossimi mesi. Ovvero, per farvi capire con la pratica, quando non vi pagheranno più completamente la pensione, quando l’ufficiale giudiziario verrà a casa vostra per verificare che i metri quadrati della vostra casa siano corretti, quando vi imporranno una patrimoniale, quando l’agenzia delle entrate pretenderà di farvi pagare tasse quanto meno assurde (base casi recenti, Striscia la Notizia docet), quando vi alzeranno l’età pensionabile fino a non farvela quasi prendere [preparatevi ad un buco inps di almeno 10 mld EUR annui a causa della mancata crescita da austerità], quando [unito al punto precedente] vi taglieranno la sanità fino a non potervi curare almeno la pensione proprio non la riceverete…. Si chiama dittatura fiscale finalizzata al pagamento del debito.

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DUNQUE, RISCRIVIAMO LA STORIA RECENTE DELL’ITALIA DAL GOLPE DEL 2011…

E qui i lettori che non vogliono essere trascinati in visioni che possono tranquillamente essere considerate complottiste si fermino, non andate oltre. Per chi invece vuole provare a dare un senso alle cose vorrei proporre una visione rivista sulla base dei dati e fatti italiani dal 2010 in avanti – ripeto, quelli sopra riportati sono dati e fatti -, tanto per fare chiarezza.

Come abbiamo visto la crisi subprime introdusse il rischio fallimento dei principali paesi occidentali a causa della pervasività delle relazioni economiche tra i vari sistemi finanziari annichiliti da una enorme massa di prestiti/collaterali in mano alle banche diventati carta straccia soprattutto in relazione agli immobili. Come soluzione gli USA e gli UK – che hanno una loro valuta indipendente – iniziarono a stampare moneta dando soldi gratis alle banche, mentre l’EU chiese denaro ai vari paesi membri per fare la stessa cosa.

In tale contesto – nel 2008 – l’Italia era sana, non aveva soldi investiti nei subprime e non aveva dato soldi ai greci, una gestione che aveva evitato rischi che non si comprendevano a pegno di minori utili negli anni precedenti, fatto questo che avevano fatta apparire le nostre banche come “arretrate”, invece era semplice cautela. Purtroppo il Governo Berlusconi, dopo i fasti dell’era Bush a valle dell’elezione di Obama era improvvisamente diventato debole, guarda caso a valle della registrazione audio della notte brava passata con la signora D’Addario durante l’elezione del primo presidente di colore della storia americana che fissò ad imperitura memoria le affermazioni dell’ingenuo – e pure gran maleducato – Cavaliere (per inciso, Madame D’Addario alcuni sospettano sia stata usata da servizi segreti d’oltralpe per registrare quanto accaduto). In ogni caso Berlusconi e Tremonti avevano capito che l’attacco a Gheddafi era legato a doppio filo con il prossimo attacco all’Italia post subprime per i motivi sopra citati, Berlusconi aveva un rapporto strettissimo con il Rais, addirittura per non farsi intercettare negli ultimi tempi prima del golpe le riunioni importanti si diceva le tenesse a Tripoli….

Guarda caso proprio dal 2010 partirono – come al solito – gli attacchi giudiziari del sistema, come in Tangentopoli: possiamo tranquillamente dire che Berlusconi (probabilmente) era entrato in politica per difendersi dalle sue sospette malefatte dell’era craxiana ma tutto era andato in prescrizione ormai, o quasi. L’attacco del 2011, che le varie corti europee dopo il novembre prossimo molto probabilmente dimostreranno indebito nell’applicazione (legge Severino e caso Agrama su tutti), furono parte del piano, purtroppo come in Tangentopoli una certa magistratura puntualmente arrivò a fare pulizia, ripeto puntualmente [grazie alle azioni dei magistrati – azioni che eminenti giudici internazionali definirono ai tempi non rispettose dei diritti democratici della difesa, un golpe insomma o qualcosa di simile alla tortura (reato guarda caso non presente nel diritto italiano), cfr. Justice Antonin Scalia della Corte Suprema USA -; solo grazie a Tangentopoli secolo arrivò la svendita degli assets italiani di fine millennio passando per l’uccisione di Gardini e la fine di Montedison (poi vendita ai francesi, guarda caso…) a cui collaborarono i soliti noti del nostro Paese, che poi fecero fulgida carriera in Europa, ndr].

Sta di fatto che il caso della “culona inchiavabile” non esiste agli atti, come non esisteva l’affermazione di Consorte sulla banca BNL, “abbiamo una banca”. Nel senso, ripeto, tali affermazioni non sono agli atti, da nessuna parte. Ma qualcuno le ha dette ed esiste chi ha registrato e dato in pasto alla stampa i contenuti, sappiamo bene che solo un soggetto – solo lui – può esser stato. Sta di fatto che Berlusconi fu opportunamente tolto di mezzo e ritengo che il motivo fosse perché aveva capito in anticipo che nel post subprime si sarebbe trattato di azzoppare l’Italia, dunque si attirò le proterve antipatie di Francia e Germania che convinsero gli USA ad annichilire il più grande alleato non anglosassone degli USA in Europa. Per questa ragione il Cavaliere – iniziate a riusare questo titolo, dato che verrà riabilitato dopo il novembre prossimo – presentò un piano a Napolitano per uscire dall’Euro in caso di attacco alla Penisola. Il resto è storia [e l’attacco ci fu ma lui era ormai neutralizzato]; sta di fatto che in tale contesto qualcuno non fece l’interesse dell’Italia – tradì e continua oggi a tradire – ed il Cavaliere di poco non andò in galera e non trapassò….

Due parole su Cameron: si schierò con Francia e Germania interessate ad indebolire l’Italia nel post suprime, Italia che fu troppo vicina fu agli USA nelle guerre in Iraq [contrariamente agli indirizzi franco-tedeschi, che erano contrari] e dunque approvò l’abbattimento a termine dell’unico suo alleato nell’EU diventata poi tedesca, magari per mettere le mani su Libya ed ENI per salvare BP caduta in disgrazia – leggasi quasi fallita, encore -. Poi, quando Cameron realizzò che le regole europee erano solo a vantaggio del blocco franco-tedesco decise di indire il referendum sul Brexit, che poi avvenne nei termini che conosciamo nel rispetto degli interessi britannici.

Il risultato di tutto quanto sopra è che molto probabilmente con il prossimo cambio di presidenza USA Berlusconi verrà riabilitato fino a diventare senatore a vita, ecco perché l’asse franco-tedesco deve velocizzare il piano per mettere le mani su quanto è veramente di loro interesse, gli assets italiani (aziende, immobili, risparmi delle famiglie, clienti per i propri servizi facendo indebitare la popolazione etc.). Se va bene con il nuovo presidente USA verrà fatto in Italia un qualche repulisti per ristabilire equilibri caduti, magari questa volta anche in capo alla magistratura, vedremo. Naturalmente – e ben inteso, come sempre – le decisioni verranno prese dall’estero.

Risulterebbe infatti che l’establishment americano non eletto si sia ormai schierato contro l’Europa franco tedesca in quanto ha perfettamente capito che ormai Berlino ha tradito, da mo’ sta facendo l’occhiolino alla Russia ed anzi ambisce a sostituirsi bellamente a Washington in Europa. Il caos fomentato in mezzo mondo e soprattutto nel bacino mediterraneo è certamente utile ai tedeschi che ambiscono a prendere il posto degli USA nel vecchio continente. E questo agli americani non può andare giù, militari in testa. Forse ora si comprende perché lo scrivente ha sempre dato al Brexit un’importanza enorme, più a livello geostrategico che economico.

Sta di fatto – per chiudere il cerchio – che uno dei più grandi finanziatori della campagna di H. Clinton è proprio la tanto bistrattata Deutsche Bank. Spero proprio di non dover rilevare in futuro un Obama in veste di assiduo conferenziere per aziende tedesche, DB o Siemens o BASF o Bayer o Allianz o VW o Daimler. O magari tutte e sette…

Oggi siamo in attesa del prossimo presidente USA e l’Italia viene messa alle strette anche da attentati stile Dacca in cui si sono espressamente attaccati gli italiani, quasi a destabilizzarla. E questo viene dopo la crisi dei migranti in cui certamente ci vogliono riempire di disperati, senza permesso lato europeo per farli uscire dal paese, probabilmente per destabilizzarci, per innervosirci, per sfidarci, ormai è certo che tutto questo non accade per caso. Uniamo anche l’incertezza indotta da “casualità cosmiche” assai negative che vanno costantemente nella stessa direzione, incidenti, dalla disgrazia dei ragazzi Erasmus fiorentini in Spagna in un incidente di bus inspiegabile a quello di ieri in Puglia per un incidente ferroviario altrettanto inspiegabile. Che (s)fortuna abbiamo! L’unica cosa che posso rilevare è che dovremmo essere abituati a questi “scherzi del destino”, è storia che in momenti difficili e di grande cambiamento l’Italia ha dovuto subire varie “casualità cosmiche” sempre negative e mai ben capite nè ben spiegate, fatevene una ragione (ben inteso, le casualità cosmiche sono per definizione casuali ma come gli oroscopi ci insegnano possono essere in qualche modo annunciate, ….)

Dovrebbe tornare tutto, più o meno.

Buone vacanze

Jetlag per Mitt Dolcino
 
DISASTRO E EFFICIENZA NELL'ERA €URISTICA (il "ridicolo Monopoli") [/paste:font]


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1. Questa è una descrizione a caldo dei fatti e delle prime ipotesi sulle cause del disastro:
"Lo scontro, ripetiamo, è avvenuto in aperta campagna ed è giustificabile soltanto con la mancata accensione del segnale di blocco in una delle due stazioni da cui provenivano i treni.
Le prime ricostruzioni “aziendali” parlano – come sempre di “errore umano”, tacendo vergognosamente delle ragioni per cui un errore umano puà prodursi in determinate condizioni.
Parliamo infatti di un sistema di trasporto su rotaia, dunque con percorso obbligato, su cui possono essere installate tecnologie e sensori a costi ormai bassissimi. Ma non lo si fa, per “risparmiare” sui costi.
Al contrario, da oltre venti anni Fs (già sotto la gestione “privatizzante” di Mauro Moretti, ex segretario della Filt Cgil, traslocato quasi in una notte da quella carica a quella di amministratore delegato della Rete Ferroviaria Italiana, poi asceso alla carica di amministratore delegato di Fs e ora nello stesso ruolo in Finmeccanica-Leonardo) l’azienda ha imposto il ritorno all’”agente unico”, ovvero a un solo macchinista per treno, con il solo ausilio dell’”uomo morto”, un vecchio meccanismo a pedale che costringe il macchinista a distribuire la sua concentrazione tra la guida del treno e il pedale da premere ogni tot secondi.
In queste condizioni di lavoro “l’errore” diventa statisticamente inevitabile. Basta moltiplicare le ore di guida di “macchinisti soli”, contrattualmente fissate ma con straordinario obbligato, per il numero di tratte a binario altrettanto unico.
Ci si aggiunga una giornata torrida, a oltre 40 gradi all’ombra, è si vedrà che queste probabilità crescono esponenzialmente. Quando basterebbero pochi sensori per bloccare automaticamente la marcia dei treni molto prima di ogni possibile impatto.
Ma la stessa logica è stata applicata alla sanità, quindi al sistema dei pronto soccorso e dei dervizi di autoambulanza, quasi completamente privatizzato. Qui la politica dei tagli alla spesa pubblica ha rarefatto i punti di assistenza sanitaria, il personale disponibile per i soccorsi e contemporaneamente allungato i percorsi che le autoambulanze – in numero minore – debbono coprire".

2. Possiamo fare un primo commento ricorrendo alla più volte citata analisi di Florio, in un passaggio che si attaglia alla situazione accennata nella "descrizione a caldo", con gli opportuni adattamenti alla situazione delle forme societarie di gestione privatizzata (in concessione) di servizi pubblici non particolarmente lucrativi (tipici quelli di trasporto locale):
"Mi sono convinto, soprattutto studiando il caso Telecom Italia (in I ritorni paralleli di Telecom Italia), che la vera origine delle privatizzazioni non sia il liberismo, anche se ovviamente i miti della libera concorrenza hanno avuto un peso nella retorica, ma uno scambio fra rendite politiche e finanziarie.

La tesi che ho sostenuto (in Le privatizzazioni come mito riformista) è che in particolare la sinistra, oltre più ovviamente la destra, abbia cercato di accreditarsi presso i gestori della finanza offrendo loro in pasto delle attività perfette per montarvi operazioni speculative, garantite dalla dinamica nel tempo dei flussi di cassa. Il caso delle autostrade è in questo senso emblematico. Il rischio imprenditoriale è nullo, la rendita garantita, gli investimenti attuati minimi e neppure rispettati, le tariffe aumentano con e più dell’inflazione, il contribuente continua a farsi carico della spesa per la rete in aree meno ricche e più a rischio (vedi autostrada Salerno-Reggio Calabria e grande viabilità interregionale), mentre un ambiente imprenditoriale come quello dei Benetton e altri sono diventati dei concessionari, con tutto quello che questo implica di rapporti con la politica.
In tutti i settori privatizzati le spese di ricerca e sviluppo sono diminuite, indebolendo il potenziale tecnologico".

3. E sempre rammentando che la pubblicizzazione proprio delle ferrovie fu dovuta alla dilagante disfunzionalità della gestione privata:
Il XX secolo iniziava con una situazione precaria del sistema "privatistico" delle ferrovie italiane; la carenza di investimenti da un lato e la scarsa remuneratività di molti settori dell'esercizio dall'altro aveva spinto le società ad un sempre maggiore sfruttamento dei lavoratori il cui impegno travalicava spesso ogni ragionevole limite.
Sempre più accese manifestazioni sindacali spinsero molti settori dell'opinione pubblica e della politica a chiedere la rescissione delle "Convenzioni".
Alla fine del 1898 era stata istituita una "Commissione parlamentare di studio per il riordino delle strade ferrate" le cui conclusioni concordavano sull'ovvia constatazione che per il loro valore strategico le ferrovie non potevano ulteriormente essere lasciate in mano a gruppi finanziari privati.
Il Regio decreto n.250 del 15 giugno 1905 istituiva l'"Amministrazione autonoma delle Ferrovie dello Stato" allo scopo di affidarle la gestione della rete fino ad allora gestita dalle precedenti compagnie[75].
Il riscatto delle reti delle predette società avvenne il 1º luglio del 1905, con l'entrata in vigore della legge 137 del 22 aprile 1905 sul riordino delle ferrovie detta anche "legge Fortis".
Lo Stato assunse quindi la gestione diretta di 10.557 km di linee (di cui 9.868 già di sua proprietà), denominandola rete delle "Ferrovie dello Stato". L'anno dopo, con la confluenza della rete SFM rimasta, l'estensione della Rete di Stato raggiunse i 13.075 km, di cui 1.917 a doppio binario[76]. La struttura dell'amministrazione ferroviaria statale venne definita nel luglio del 1907 per mezzo di apposita legge per l'esercizio da parte dello Stato delle ferrovie non concesse all'industria privata".
Il sistema di concessione di tratte ferroviarie locali a gestori privati proseguì, ma all'interno di un sistema di rigido controllo degli standard e di contribuzione pubblica alla rete e alla gestione: una gestione sostanzialmente vigilata a livello ministeriale (come per le stesse FF.SS:), che garantiva la coerenza e funzionalità all'interesse pubblico di tutti i principali atti del gestore.
La contribuzione statale, naturalmente, ha subito anch'essa la sorte della spesa pubblica primaria seguita al consolidamento fiscale imposto da Maastricht in poi, attraverso, quantomeno, la cristallizzazione in termini reali, (al netto dell'inflazione), e l'introduzione di "condizionalità" conformative alla gestione privastistica "efficiente".
E infatti, i vari fondi trasferiti dallo Stato alle regioni e agli enti locali di conseguenza sono oggetto di assegnazione in funzione del c.d. efficientamento: cioè della riduzione dei costi di esercizio e dei "servizi offerti in eccesso rispetto alla domanda", dell'incremento dei ricavi in rapporto ai costi operativi e della "definizione di livelli occupazionali adeguati" (parametro che pare rinviare al taglio del personale ritenuto in eccesso rispetto alla riduzione dei costi e dei servizi...in eccesso).

4. Le cose sono dunque cambiate, nel senso indicato da Florio, a cui occorre aggiungere le politiche fiscali che, in termini generalizzati, limitano i trasferimenti agli enti locali con la conseguente logica della gestione "efficiente" di taglio dei costi e degli investimenti.
Col paradossale ritorno (€uropean-way) alla situazione che, nel 1905, aveva portato alla "statizzazione":
"Gli inizi degli anni duemila sono stati caratterizzati dalla cosiddetta liberalizzazione, cioè dalla possibilità che più imprese ferroviarie possano effettuare servizi sulla rete.
Tale liberalizzazione tuttavia riguarda i servizi ma non l'infrastruttura rimasta di proprietà e gestita da un soggetto unico, RFI, di fatto monopolista.
Sull'infrastruttura, in seguito alle autorizzazioni ottenute, hanno però iniziato a transitare treni di soggetti diversi, a volte concorrenti altre volte con accordi di complementarità[113].
Nel settore del trasporto merci, soprattutto di tipo specializzato o a treno completo si è assistito alla nascita di numerose imprese a partire dal 2001, prima in assoluto Ferrovie Nord Milano Cargo, poi Ferrovie Nord Cargo, ramo di Ferrovie Nord Milano Esercizio, che ha di fatto interrotto il monopolio delle Ferrovie Statali effettuando il primo treno merci "privato" da Melzo a Zeebrugge in Belgio il 25 settembre 2001, un treno combinato trainato dal locomotore Skòda E630-03; successivamente l'impresa a capitale privato RTC Rail Traction Company operante sull'asse del Brennero; mentre è rimasta carente la concorrenza ai servizi viaggiatori di Trenitalia da parte dei soggetti privati. Unica eccezione la NTV (Italotreno), ma nel settore dell'alta velocità...

...Il tentativo di dare origine a un trasporto pendolare o a lunga distanza effettuato da Arenaways[117][118][119][120] è invece andato incontro al fallimento a causa di molteplici motivazioni tra cui la difficoltà ad ottenere da RFI "tracce orario" e itinerari ritenuti convenienti[121].

In atto, fino al 2014, la "liberalizzazione delle ferrovie" in Italia ha prodotto, oltre all'operatore interamente privato NTV, pochi esempi di circolazione di treni viaggiatori di altri soggetti, solo apparentemente privati,[122] ma in realtà collegati ad enti regionali o locali o da essi dipendenti, su tratte di interesse prettamente locale o pendolare".

5. Andando a ritroso nella spiegazione sistemica di tragici fenomeni del genere, ricorriamo ad un primo schema generale, di recente elaborato:
"...si possono fare crociate moralizzatrici per ottenere risparmi e tagliare gli sprechi: ma in un'organizzazione sociale che, come l'UE-M, normativizza l'inderogabile prevalenza del mercato, si ritiene che quasi ogni tipo di utilità possa essere resa all'interno di un ordinario contratto di scambio tra privati: tranne l'eccezionale e residuale ipotesi di beni non "rivali" e non "escludibili" (il "faro" e, oggi, con sempre meno convinzione, la difesa nazionale), tutto dovrebbe essere "razionato" efficientemente col sistema dei prezzi.
Dunque apprestare ai consumatori/utenti quell'utilità - la pubblica istruzione, la sanità e le connesse forme di assistenza sociale, la costruzione e gestione di un ponte o di un'autostrada, il servizio di trasporto collettivo, - "deve" essere consentito, progressivamente ma inevitabilmente, a qualsiasi operatore privato che, assicurandosi (tendenzialmente) un prezzo pari al costo marginale di erogazione, garantirebbe l'efficienza massima ottenibile.
Per promuovere al meglio questo sistema di razionamento efficiente - non necessariamente concorrenziale: l'importante è che sia privato- dei beni/utilità un tempo pubblici, occorre rendere sempre più alto il costo marginale di produzione pubblica, in modo che, appunto, l'ente pubblico debba prendere atto che "non ce lo possiamo più permettere".
Per fare ciò si procede al "razionamento" della moneta, escludendo la legittimità dell'emissione di moneta pubblica (ovvero "sovrana") e imponendo il pareggio di bilancio.
Rammentiamo: basta quello "primario", cioè con deficit solo determinato dall'ammontare degli interessi sul debito contratto in passato e con l'imposizione di crescenti "avanzi primari" che progressivamente portino al "pieno" pareggio di bilancio con l'estinzione del debito pregresso.
Con tale sistema si rendono lo Stato e, ancor più accentuatamente, gli enti locali, dei debitori di diritto comune.
In tal modo, il settore pubblico diviene privo del flusso della moneta "pubblica", e affetto da una costosa "scarsità" della moneta privata ottenibile dal settore bancario privato; ciò lo induce ad accrescere, via tassazione (centrale e specialmente locale) i flussi di reddito offerti a garanzia dell'ottenimento fiduciario del "credito" privato ma, specialmente, della sua restituzione, e, contemporaneamente, a dover procedere alla predetta privatizzazione di tutte le attività assoggettabili al pieno sistema dei prezzi privatistico.
...Che senso ha occuparsi di tagli degli sprechi se la gran parte degli stessi sprechi sono determinati, strutturalmente, dalla mancanza di adeguati investimenti in strutture e competenze, nonché dall'abolizione del sistema dei controlli preventivi? Sono, queste, tutte caratteristiche ordinamentali complessivamente derivanti dalla concezione privatizzante, anzitutto della moneta, imposta dall'€uropa e che deve condurre, prima o poi, con le buone o con le cattive, alla privatizzazione per vincolo da debito di diritto comune".

6. Ora, questa ennesima tragedia dell'incuria del territorio e delle sue più fondamentali e vitali infrastrutture, in nome del "non possiamo vivere al di sopra delle nostre possibilità", verrà persino usata per distrarre l'attenzione dalla incombente crisi bancaria: eppure questa ha le stesse origini dell'attitudine a tagliare i costi della gestione dei servizi pubblici fondamentali, in nome della presunta "efficienza".
Si tratta del paradigma €uropeo, quello per cui si deve avere il "razionamento", di cui abbiamo sopra visto, e che ripropone, in crescendo, il suo intreccio di fattori di insostenibilità economica e sociale per milioni, centinaia di milioni, di cittadini assoggettati allo Stato "minimo" che l'euro implica come punto d'arrivo.
 
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5. Andando a ritroso nella spiegazione sistemica di tragici fenomeni del genere, ricorriamo ad un primo schema generale, di recente elaborato:
"...si possono fare crociate moralizzatrici per ottenere risparmi e tagliare gli sprechi: ma in un'organizzazione sociale che, come l'UE-M, normativizza l'inderogabile prevalenza del mercato, si ritiene che quasi ogni tipo di utilità possa essere resa all'interno di un ordinario contratto di scambio tra privati: tranne l'eccezionale e residuale ipotesi di beni non "rivali" e non "escludibili" (il "faro" e, oggi, con sempre meno convinzione, la difesa nazionale), tutto dovrebbe essere "razionato" efficientemente col sistema dei prezzi.
Dunque apprestare ai consumatori/utenti quell'utilità - la pubblica istruzione, la sanità e le connesse forme di assistenza sociale, la costruzione e gestione di un ponte o di un'autostrada, il servizio di trasporto collettivo, - "deve" essere consentito, progressivamente ma inevitabilmente, a qualsiasi operatore privato che, assicurandosi (tendenzialmente) un prezzo pari al costo marginale di erogazione, garantirebbe l'efficienza massima ottenibile.
Per promuovere al meglio questo sistema di razionamento efficiente - non necessariamente concorrenziale: l'importante è che sia privato- dei beni/utilità un tempo pubblici, occorre rendere sempre più alto il costo marginale di produzione pubblica, in modo che, appunto, l'ente pubblico debba prendere atto che "non ce lo possiamo più permettere".
Per fare ciò si procede al "razionamento" della moneta, escludendo la legittimità dell'emissione di moneta pubblica (ovvero "sovrana") e imponendo il pareggio di bilancio.
Rammentiamo: basta quello "primario", cioè con deficit solo determinato dall'ammontare degli interessi sul debito contratto in passato e con l'imposizione di crescenti "avanzi primari" che progressivamente portino al "pieno" pareggio di bilancio con l'estinzione del debito pregresso.
Con tale sistema si rendono lo Stato e, ancor più accentuatamente, gli enti locali, dei debitori di diritto comune.
In tal modo, il settore pubblico diviene privo del flusso della moneta "pubblica", e affetto da una costosa "scarsità" della moneta privata ottenibile dal settore bancario privato; ciò lo induce ad accrescere, via tassazione (centrale e specialmente locale) i flussi di reddito offerti a garanzia dell'ottenimento fiduciario del "credito" privato ma, specialmente, della sua restituzione, e, contemporaneamente, a dover procedere alla predetta privatizzazione di tutte le attività assoggettabili al pieno sistema dei prezzi privatistico.
...Che senso ha occuparsi di tagli degli sprechi se la gran parte degli stessi sprechi sono determinati, strutturalmente, dalla mancanza di adeguati investimenti in strutture e competenze, nonché dall'abolizione del sistema dei controlli preventivi? Sono, queste, tutte caratteristiche ordinamentali complessivamente derivanti dalla concezione privatizzante, anzitutto della moneta, imposta dall'€uropa e che deve condurre, prima o poi, con le buone o con le cattive, alla privatizzazione per vincolo da debito di diritto comune".

6. Ora, questa ennesima tragedia dell'incuria del territorio e delle sue più fondamentali e vitali infrastrutture, in nome del "non possiamo vivere al di sopra delle nostre possibilità", verrà persino usata per distrarre l'attenzione dalla incombente crisi bancaria: eppure questa ha le stesse origini dell'attitudine a tagliare i costi della gestione dei servizi pubblici fondamentali, in nome della presunta "efficienza".
Si tratta del paradigma €uropeo, quello per cui si deve avere il "razionamento", di cui abbiamo sopra visto, e che ripropone, in crescendo, il suo intreccio di fattori di insostenibilità economica e sociale per milioni, centinaia di milioni, di cittadini assoggettati allo Stato "minimo" che l'euro implica come punto d'arrivo.

Lo avevamo visto già circa tre anni fa, in una situazione che presentava già tutti gli elementi di questo intreccio perverso.
E teniamo conto che il dissesto idrogeologico e la situazione di sottoinvestimento delle reti ferroviarie "minori" (e di ogni altra infrastruttura pubblica italiana), hanno la stessa radice della privatizzazione senza senso economico dell'ENAV, così come dell'incombente apocalisse bancaria:

PUD€ NEL TRILEMMA "COMPETITIVO". CREDIT CRUNCH, DEFLAZIONE SALARIALE, DEVASTAZIONE DEL TERRITORIO

7. "Abbiamo menzionato il fattore "imprevisti e probabilità", in questo ridicolo "Monopoli" che è diventata la gestione della Repubblica italiana, PER NON PARLARE DEL GIGANTESCO, E PERFETTAMENTE PREVEDIBILE, PROBLEMA AMBIENTALE-TERRITORIALE ITALIANO, qui più volte segnalato. Il problema è divenuto tale a seguito di 20 anni di manovre di "convergenza" e di rientro nei parametri del deficit: oggi discutono della tragedia consumatasi in Sardegnae pensano al "dissesto idrogeologico" come a un problema nazionale.
Ma finiscono per proporre come soluzione la solita maxi-patrimoniale "una tantum" ammazza-risparmio privato, pagabile solo intaccando i redditi e drenando altra liquidità che rischierebbe di non essere poi rimessa in circolo, per il problema - considerato da questo governi ben più impellente- di dover "ridurre il debito pubblico" e pagare i creditori stranieri.
E non solo: la super-patrimoniale darebbe anche la spallata definitiva al mercato immobiliare, ormai in sovraofferta e devalorizzazione accelerata, senza colpire affatto i grandi patrimoni, ormai fuggiti all'estero da un bel pezzo.
Ma un paese sovrano, con una sua moneta e con una sua banca centrale che funzioni da tesoriere e non da piazzista passiva per gli idolatrati "mercati", non ha bisogno di far dilagare la recessione per provvedere alla incolumità ed alla ordinata convivenza dei suoi cittadini.
Non gli possono mancare le risorse per investire sul proprio territorio, - un elemento costitutivo della sua stessa sovranità!- e non può fare default.






8. E uno Stato sovrano non può limitarsi ad augurarsi che "non piova troppo" per sperare di non dover fronteggiare il caos antropico: che non è dovuto ai "rivolgimenti climatici", come ridicolmente cercano di farci credere, ma al sistematico abbandono delle funzioni fondamentali dello Stato, trasformatosi in percettore di contributi da condoni e urbanizzazioni selvagge per "fare cassa".
E, possiamo aggiungere, all'interno dello stesso €-paradigma, uno Stato trasformatosi in tagliatore dei livelli dei servizi, e in loro privatizzatore, per esigenze di cassa dettate ormai esclusivamente dalla necessità irrinunciabile di tenere in vita la moneta unica.

Uno Stato che non può ridursi a contare sulla "fortuna" meteorologica, (o sulla non sfortuna nel produrre tragici eventi) per agganciare la crescita (!!!) da qui alla fine del 2014"...e di tutti gli anni a seguire!

Pubblicato da Quarantotto a 09:06 8 commenti: Link a questo post
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Orizzonte48
Le Istituzioni riflettono la società o esse "conformano" la società e ne inducono la struttura? In democrazia, la risposta dovrebbe essere la prima. Ma c’è sempre l'ombra della seconda...il "potere" tende a perpetuarsi, forzando le regole che, nello Stato "democratico di diritto" ne disciplinano la legittimazione. Ultimamente, poi, la seconda si profila piuttosto...ingombrante, nella sintesi "lo vuole l'Europa". Ma non solo. Per capire il fenomeno, useremo la analisi economica del diritto.































L'EQUALIZZAZIONE, LA GUERRA CIVILE PERMANENTE E L'ISRAELIZZAZIONE €UROPEA [/paste:font]


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immagine tratta da: L'emergenza si fa regola. Arriva lo stato d'eccezione permanente
1. L'autore della strage di Nizza era di origine tunisina ma con documenti di cittadinanza francese; aveva alle spalle una storia di piccoli reati (di violenza).
Riferita alla situazione francese, che è quella che nell'Occidente europeo si presenta come la più caratterizzata dal terrorismo, si conferma quanto si era più volte evidenziato, parlando dell'evidente stortura di una "guerra con l'Islam". Bazaar ha ripetutamente analizzato questo aspetto in termini di conflitto sociale, e quindi distributivo, in un'economia dominata dal mercato globalizzato, parlando di "menti elementari", cioè quelle che reagiscono in automatico-acritico allo spin mediatico indotto dagli stessi che sostengono il mercatismo mondialista.

2. Nell'illustrare come manchino le condizioni più basilari per poter parlare del "siamo in guerra con l'Islam", - salvo quanto si può aggiungere sulla questione "saudita" (e occorrerà tornarci)- si era evidenziato un aspetto così evidente che, infatti, in Italia, è del tutto trascurato:
"Se i terroristi che agiscono in Francia sono essenzialmente di cittadinanza francese, si ha l'evidente conferma che si tratti di un problema di pubblica sicurezza: e non si dica che possono esistere rilevanti aspetti di connessione con territori e organizzazioni non francesi, quanto a addestramento e supporto logistico di questi terroristi, perchè ogni forma di terrorismo, come ci insegna la stagione italiana delle Brigate rosse, è costantemente sospettata di questi aspetti (mai ben chiariti...), cioè di strumentalizzazione di cittadini di uno Stato da parte di entità straniere per destabilizzare questo stesso Stato.
Rimane il fatto che l'eventuale violazione del principio di non ingerenza commessa in questo modo, esige l'accertamento univoco e obiettivo (cioè delle prove esposte alla opinione pubblica in modo trasparente e credibile), della responsabilità di un preciso Stato che finanzi l'addestramento e l'armamento dei terroristi, identificandone pure l'indispensabile movente strategico (cioè quale "movente" e quale obiettivo persegua lo Stato che si ingerisce, promuovendo il terrorismo mediante cittadini di un altro Stato che agiscono sul territorio di quest'ultimo).
Ma il fatto che cittadini di uno Stato prendano le armi in preda a furia omicida nei confronti di propri connazionali, è certamente ed evidentemente un problema di ordine pubblico (v.qui al punto 11.3): e, attenzione, lo sarebbe anche se i terroristi non fossero cittadini dello Stato "colpito", laddove, come abbiamo visto, non si abbia la prova, ma nemmeno l'ipotesi, che il "diverso" Stato alla cui nazionalità appartengono i terroristi sia coinvolto con azioni attribuibili alla chiara responsabilità del suo governo.
Ad esempio, dopo l'11 settembre, infatti, pur essendo Bin Laden un cittadino saudita nessuno propose il bombardamento dell'Arabia Saudita.
Sta di fatto che non si può ignorare che i cittadini francesi (o belgi) accusati allo stato di essere autori delle stragi sono immigrati (presumibilmente di seconda generazione) di origine mediorientale o nordafricana, cioè provenienti da territori a religione islamica prevalente e, ovviamente, dichiaratamente musulmani "integralisti".
E' allora ragionevole domandarsi come e perchè questo tipo di immigrazione si converta in un problema di sicurezza pubblica di tale gravità, e, ancor più perchè lo diventi ORA, in questi anni, trattandosi di seconde o terze generazioni, laddove la presenza di Maghrebini o mediorientali, provenienti da territori ex coloniali, non è certo una novità in Europa e certamente non in Francia.
Dunque perchè "ora", viene generato un problema così devastante?
La risposta più logica ha a che vedere con l'accumulo di rabbia, proprio perchè assistiamo a un tale livello di cieca violenza. E tale rabbia a livello sociale ha spiegazioni non troppo difficili da fornire, usando un po' di buon senso (punto 11) guardando alle condizioni attuali de:

"...gli immigrati in Occidente, scacciati dalla loro terra per gli effetti di impoverimento permanente determinato dalle ex e post colonizzazioni, imposte dagli spietati "mercati".
Siano essi di prima o di seconda generazione, questi immigrati non soffrono "soltanto" della mancata integrazione determinata da omissione o fallimento di presunte politiche sociali e culturali (ovviamente cosmetiche), quanto della impossibilità strutturale di un'integrazione che deriva da impostazioni di politica economica rigide e insensate, incentrante sull'idea della deflazione, della competitività e della connessa riduzione dello Stato sociale.
Tutti insieme, immigrati e strati crescenti della stessa popolazione autoctona dei paesi occidentali, soffrono di impoverimento e della arrogante imposizione della "durezza" del vivere da parte di una governance che vive nel più sfacciato privilegio della rendita economica (anche in Italia). Gli immigrati, specie della seconda generazione, finiscono per sbattere contro il muro della fine della mobilità sociale imposta dal paradigma neo-liberista (in particolare quello adottato dall'UE): quando si accorgono di essere destinati a un irredimibile destino di lavoratori-merce, che si aggiunge alla continua tensione razziale e culturale con gli strati più poveri della popolazione del paese "ospitante", sono nella condizione "ideale" per abbracciare l'Islam integralista. L'adesione restituisce loro dignità, identità e una risposta alle frustrazioni della tensione con gli "impoveriti" del paese ospitante.
Questatensione è tanto più acuìta quanto più questi ultimi, gli "autoctoni", sono essi stessi assorbiti nella voragine del lavoro-merce. Come esito di tale processo ormai ultraventennale, gli immigrati sono posti, pur essendo (teoricamente) in condizioni materiali diverse da quelle dei disperati concittadini (o ex tali) delle terre di orgine, nella stessa attitudine di rabbia e disperazione dei diseredati dei paesi più impoveriti del mondo."

3. Riallacciando queste osservazioni al discorso relativo ai fatti di Dacca e alla ridicola osservazione che, in quel caso, gli attentatori sarebbero stati di "buona famiglia e di istruzione superiore", basti ribadire quanto di recente osservato complessivamente in questo post e in questa ulteriore osservazione:
"Più ancora, c'è un punto che pare sfuggire totalmente: non è che i terroristi sono proletari oppressi che fanno una confusa lotta di classe. Tutt'altro.
Il terrorismo nasce da due ingredienti: l'islam e le sue strutture sociali feudali, maschiliste e comunitarie, e il forte impatto con la superiorità tecnologica e sessual-edonistica dell'occidente, ridivenuto neo-liberista e, perciò, liberoscambista e neo-colonialista. Cioè fortemente anti-Stato sociale: come ben sapeva Nasser; v.qui pp. 3 e 4.

I terroristi, a livello "esecutivo", sono piuttosto persone dal profilo psicologico destabilizzato e condizionabile, facilmente reperibili laddove il modello sociale neo-liberista occidentalizzato si imponga brutalmente a suon di condizionalità, creando frustrazioni e vari complessi di "rifiuto" (si rifiuta per non essere rifiutati): e ciò sia se tale modello sia esportato (caso del Bangladesh, come dei paesi della primavera araba), sia se sia "da importazione", cioè imposto ai migranti di massa ghettizzati in terra straniera.

A livello ideativo e finanziario, il vertice del terrorismo è invece ben consapevole di questi meccanismi identitari e di frustrazione e li sfrutta abilmente, sapendo che è proprio il sistema occidentale inteso in senso cosmetico (cioè ridotto cialtronamente a questioni sessuali e di costume familiare) ad alimentare la base di reclutamento degli psicotici manipolabili.

Più ancora, il post voleva evidenziare perché:
a) dopo anni di applicazione delle "cure" FMI e WB del Washington Consensus, in un paese a maggioranza musulmana, il comune sentire sociale non produca una forte resistenza all'azione dei terroristi islamici, visti comunque come capaci di una qualche forma di riscatto, quand'anche non condiviso sotto il profilo del'estremismo identitario;
b) i governi non hanno interesse, in termini di consenso, in una situazione di tensione sociale prodotta dalla "modernizzazione" globale (liberista), e neppure sufficienti risorse finanziarie, per condurre con convinzione un'azione repressiva di tale terrorismo: sanno che, sul piano militare, le forze estere che lo finanziano, fanno reclutamento e addestramento, e lo armano, sono ben protette (dallo stesso occidente), mentre, d'altra parte, gli stessi governi, astretti dai vari modi delle "condizionalità" fiscali, non sono in grado di mutare l'assetto sociale che produce il substrato ideale per il reclutamento.

4. Questo aspetto sistemico di rifiuto e di rabbia, - sia da parte di immigrati sottoposti contemporaneamente alla fine della mobilità sociale ed alla tensione cultural-razziale con gli strati sociali impoveriti "autoctoni", sia da parte di coloro che, segnatamente nei paesi islamici, vedono alterate dalla globalizzazione le condizioni minime di sviluppo e solidarietà sociali, nella loro stessa terra-, trova conferma in quanto esprime la stessa analisi critica francese, esprimendosi a caldo sulla strage di ieri:
La Francia, invece, sembra l’epicentro di una crisi multipla, politica ed economica. E sul piano sociale fatica a integrare gli immigrati. Tutto ciò la rende più vulnerabile?
«Certo, è così. Si sommano diverse componenti. L’arrivo massiccio di profughi, la crescita economica bloccata e l’alto tasso di disoccupazione. Ma c’è un numero chiave: circa l’8% della popolazione non si sente francese, non si riconosce nello Stato. E queste persone non sono rifugiati appena sbarcati. Sono figli di immigrati, giovani di seconda o terza generazione. E’ la percentuale più alta tra i Paesi europei. Dalla Francia sono partiti tanti foreign fighter verso l’Iraq e la Siria».
Messa così il governo di Parigi non sembra avere molti margini. Proprio ieri il presidente François Hollande aveva annunciato la revoca delle misure di emergenza…
«Il governo può rafforzare di nuovo le misure anti-terrorismo o i controlli alla frontiera. Ma questo non contribuirà a risolvere la questione di fondo, offrendo una possibilità ai giovani francesi, figli di immigrati, che oggi non si sentono accettati dal Paese. Quindi, se vogliamo andare in profondità, a questo punto per la Francia vedo solo due opzioni.
O si apre con decisione o si blinda. Prima strada: intensificare al massimo l’opera di integrazione dei giovani che oggi si sentono esclusi. Vuol dire massicci investimenti nell’educazione, in programmi di deradicalizzazione mirati, in posti di lavoro. Oppure la Francia può scegliere di diventare come Israele: sottoporre a stretta sorveglianza i soggetti considerati un potenziale pericolo per lo Stato».
Quale delle due opzioni sta guadagnando spazio politico e psicologico nell’opinione pubblica francese?
«Mi piacerebbe fosse la prima opzione, quella dell’integrazione, ma vedo invece avanzare la seconda».
5. E, se avanza la seconda, come risulta irresistibilmente probabile, anzi "vincolato" dalla rigida struttura fiscale della moneta unica, dato il divieto imprescindibile di fare quei "massicci investimenti nell'educazione e in posti di lavoro", la logica della "accoglienza" indiscriminata (ormai understated in modo strisciante), verrà contraddittoriamente mantenuta proprio per produrre i presupposti :
a) di un mercato del lavoro e di un sistema sociale "equalizzati" rispetto ai paesi di provenienza, considerato indispensabile per la competitività mercantile del sistema che adotta la moneta unica;
b) per un continuo riprodursi, - nel tempo del consolidarsi generazionale di questa presenza di immigrati accompagnata da assenza di mobilità sociale e scontato scontro con gli strati più poveri delle popolazioni locali-, di nuove leve di giovani esasperati da rifiuto e emarginazione economico-sociale, che determinino, in un calcolo cinico, proprio quei problemi di sicurezza pubblica che, divengono una sorta di guerra civile permanente. ADDENDUM: una guerra civile che cristallizzi, al più alto livello di efficacia, il sub-conflitto sezionale che consente la stabile realizzazione del progetto delle elites globalizzatrici (come ben focalizza Rodrik, p.4: Inoltre, le elites possono ben preferire - e ne hanno l'attitudine- di dividere e comandare...giocando a porre un segmento di non elite contro l'altro);
c) per portare a livello di stabilità istituzionalizzata lo stato di eccezione che consegue a tale guerra civile permanente, in modo che, analogamente a quanto avvenne in Italia ai tempi della strategia della tensione, sia resa incontestabile la prosecuzione delle politiche economico-sociale attuali; l'idea della "israelizzazione" delle ex-democrazie sociali sottintende di raccogliere il consenso intorno a una "Autorità" salvifica e "protettiva", che possa rivendicare la sua legittimazione in termini polizieschi e di militarizzazione, anche esterna e in funzione di spesa "keynesiana", di ogni residua funzione dello Stato. O del super-Stato €uropeo...
 
ANTIFASCISMO SU MARTE E LIBERISMO: L'IRRESISTIBILE TINA GUERRAFONDAIO [/paste:font]


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1. Su segnalazione di Alberto (di cui riproduciamo più sotto un commento svolto su Goofynomics e connesso al tema, in un modo che dovrebbe risultare evidente), pubblichiamo per intero un post tratto dal blog di "Correttore di bozzi".
La ragione per cui lo facciamo, trattandosi di un eccezionale episodio di post "esogeno", non sta nella semplice citazione ragionata di una serie di post di orizzonte48, richiamati come antecedenti per la comprensione del tema, quanto nella esigenza di "non dispersione" e di completezza del discorso intrapreso in questa sede.
Il post in questione si integra in tale discorso e consente dunque un arricchimento della comprensione asseverata da fonti preziose: da conservare, appunto...
Materiale sui rapporti fra fascismo e liberismo
Data la lunghezza, pubblico qui le citazioni di supporto alla risposta a questo commento su Goofynomics.

Oltre a quanto segue si consiglia la lettura di (almeno) questi articoli sul blog di Luciano Barra Caracciolo:


Dal libro di Raffaello Uboldi, La presa del potere di Benito Mussolini (p. 137 e seguente):

Del resto non è che piaccia troppo questo romagnolo di dubbie origini e di dubbio credo, quello che vogliono i capitani d'industria è soprattutto tornare a lavorare e produrre adesso che lo spettro della rivoluzione è stato esorcizzato. Si vuole comunque capire —a pericolo cessato— dove il fascismo intende portare il paese, semmai arriverà al potere. Da qui le rassicurazioni, che non mancano, e non mancheranno, partendo dalla prospettiva di uno Stato «manchesteriano», cioè privatizzato, che Mussolini ha così delineato:
«Lo Stato ci dia una polizia, che salvi i galantuomoni dai furfanti, una giustizia bene organizzata, un esercito pronto per tutte le eventualità, una politica estera intonata alle necessità nazionali. Tutto il resto, e non escludo nemmeno la scuola secondaria, deve rientrare nell'attività privata dell'individuo».
Una affermazione di principio, un solenne articolo di fede cui ha fatto seguito la pubblicazione di un più preciso programma economico-finanziario fascista, redatto da due convinti liberisti, Massimo Rocca e Ottavio Corgini. Un programma che prevede l'abolizione dell'iniziativa parlamentare in materia di proposte di nuove spese, la riforma della burocrazia, la cessione ai privati delle aziende industriali di Stato, l'abolizione degli organi statali inutili, la razionalizzazione dei tributi e delle leggi che inceppano la produzione.

Programma che prevede l'enunciazione di una teoria del trickle-downante litteram:
E sul finire: «Nulla è più falso della pretesa di tassare i ricchi per risparmiare i poveri. In realtà tutti i produttori, del braccio e del pensiero, esecutori e dirigenti, sono legati alle sorti dell'economia nazionale, e la demagogia finanziaria che inceppa l'attività di questi, ricade fatalmente su quelli con i suoi danni presenti e senza alcun utile positivo».

Uboldi precisa: “Non sarà questa, non al cento per cento, la politica economica dello Stato fascista, che annacquerà il liberalismo delle origine nelle pastoie del corporativismo.
Certo, se hai dei propositi bellicosi, una politica economica che ti deprime l'economia e porta alla fame quelli che dovranno costituire il grosso del tuo esercito non è il massimo.

Poi spunta er padre della Patria che si esprime sulla Voce del Padrone:
Si capiscono tuttavia le reazioni del mondo economico. Valga per tutti il commento del «Corriere della Sera». Per la penna di Einaudi si legge che «il programma … di Corgini e Rocca è un esempio di ritorno alle sorgenti. Nel caso nostro le sorgenti sono quelle liberali dell'economia classica, adattate alle necessità dell'ora presente».

Ancora sul programma di Rocca e Corgini, questa volta tratto da Le politiche economiche e finanziarie del governo Mussolini negli anni ‘20 di Andrea Virga, ritroviamo la riduzione del perimetro dello Stato, il taglio delle tasse e il pareggio di bilancio:

Il Fascismo Nazionale
...
Un altro documento di grande importanza è la relazione pel risanamento finanziario dello Stato, presentata da Massimo Rocca e Ottavio Corgini alla vigilia della Marcia su Roma[12] (Partito Nazionale Fascista, Per il risanamento della finanza pubblica, Roma, settembre 1922.). In primo luogo, esso lamenta il continuo peggioramento del disavanzo annuale dello Stato, per cui accusa le richieste di spesa del Parlamento, e al cui proposito raccomanda l’abolizione dell’iniziativa parlamentare, in favore del solo lavoro del Ministero delle Finanze. Oltre ai soliti appunti sulla necessità di riformare la burocrazia e snellire il sistema tributario, è rilevante il proposito di “equilibrare le tassazioni”, ovvero ridurre la pressione fiscale sulle classi capitaliste, in modo da colmare il deficit non già grazie alle imposte, ma grazie all’aumento della produzione e della ricchezza. Queste misure dovrebbero secondo i relatori eliminare il disavanzo fiscale, condizione questa indispensabile per limitare il ribasso della valuta e l’aumento del costo della vita.

Poi ci fu la battaglia per la moneta forte:
La "battaglia di quota novanta"
...
Un tale rafforzamento sgomentò lo stesso Volpi, il quale si interrogò circa l’opportunità di una simile rivalutazione, ma Mussolini insistette sul valore, ormai propagandistico, della "quota 90".
Gli effetti politici furono senz’altro positivi, soprattutto sul piano del consenso. Le conseguenze economiche, tuttavia, risultarono in una forte contrazione del credito e una pesante deflazione, con un aumento rapido e vertiginoso della disoccupazione da 241.889 (30 giugno 1927) a 341.782 (31 ottobre). Nonostante ciò, piuttosto che tornare a una svalutazione della lira fino a raggiungere un valore più favorevole, si preferì agire con tre provvedimenti principali: la riduzione dell’indennità caro-vita e dei salari, l’alleggerimento del carico fiscale e la riduzione degli affitti.

Infine, tratto da Mises on Fascism, Democracy, and Other Questions, il parere ben informato dei liberisti su quale sia la libertà a cui sono interessati e che il fascismo gli potrebbe garantire:

Giretti’s initial support of the Fascist movement is highly illuminating:
I am more than ever convinced that without economic liberty, liberalism is an abstraction devoid of any real content, when it is not a mere electoral hypocrisy and imposture. If Mussolini with his political dictatorship will give us a regime of greater economic freedom than that which we have had from the dominant parliamentary mafias in the last one hundred years, the sum of good which the country could derive from his government would surpass by far that of evil.

Thus, at this early point, Giretti, like the other liberisti, shared the interpretation of Fascism which one scholar has attributed to Luigi Albertini, editor of the influential Corriere della Sera, that it was “a movement at once anti-Bolshevik (in the name of the authority of the state) and economically liberal, capable, that is, of giving a new vigor” to the liberal idea in Italy.90
A major early Fascist figure who was also an economic liberal was Leandro Arpinati, leader of the squadristi of Bologna. Arpinati later broke with Mussolini over the latter’s increasingly interventionist policies.


2. Questo poi il commento di Alberto Bagnai su un tema strettamente connesso e, purtroppo, oggi tornato di angosciante attualità (citerò poi altri commenti tratti dal dibattito generato da quel post, dibattito che invito a leggere integralmente):
"...Io non sto dicendo che le parti belligeranti nella seconda guerra mondiale si siano dichiarate rispettivamente liberista e antiliberista, per poi combattersi frontalmente come in un simpatico torneo medievale. Io sto dicendo una cosa un po' diversa, che nessuno mi sembra voglia capire (il che spiega, peraltro, perché si stia ripetendo):
[1] che il capitalismo presenta una sua intrinseca instabilità, che si esalta nel momento in cui le istanze "liberiste" (pro capitale) prendono il sopravvento schiacciando la distribuzione dei redditi da lavoro e aprendo la strada alla finanziarizzazione del sistema;

[2] che, a valle delle crisi che questo modello "liberista" cagiona, la risposta "liberista" è deflazionista;

[3] che a valle della spirale deflazionista, l'unico modo per far ripartire il sistema è una guerra, e che quindi, strutturalmente, la causa della guerra è un certo modo di gestire i rapporti sociali di produzione (modo che abbiamo deciso un po' sbrigativamente di identificare con il termine "liberista", sul quale ci sarebbe da discutere);

[4] che, a valle degli orrori della guerra, le forme umane senzienti mantengono una labile memoria del come ci si sia arrivati, e quindi producono Piani Beveridge e quant'altro, determinando "a ratifica" del conflitto una sua sostanziale rilettura funzionale in chiave "antiliberista" (perché l'esito del conflitto è COMUNQUE ANCHE che le politiche liberiste vengono temporaneamente accantonate pro bono pacis).

[5] che queste dinamiche si stanno riproducendo oggi nei loro tratti essenziali.

Spero che saremo d'accordo sul fatto che Roosevelt non ha fatto ripartire l'America perché era "cheinesiano antilibberista": l'ha fatta ripartire perché si è fatto tirar giù qualche naviglio in una isoletta che non saprei localizzare esattamente sulla carta geografica, dopo di che si è "dovuto" regolare di conseguenza.
Ci siamo, no?

Quindi, la risposta su chi e come scatenerà il prossimo conflitto antideflazionista mi pare sia piuttosto chiara: come nel caso precedente, gli Stati Uniti. Mi pare anche che ci stiano provando in ogni e qualsiasi modo e alla fine ci riusciranno. Lo scrivono sui loro giornali che c'è bisogno di una guerra per uscire dalla "secular stagnation". Lo avrà notato, no? Notarlo è il suo lavoro e sono sicuro che lei lo fa benissimo. Può sembrare paradossale, ma non lo è tanto: alla fine è il liberismo (capitalismo) che combatte se stesso per assicurare la propria sopravvivenza. E finora ha funzionato, con grande smarrimento di chi proponeva un modello alternativo".

3. Va soggiunto che, in uno scenario di potenze internazionali dotate di armi nucleari strategiche (ma anche "tattiche"), l'irresistibile deriva guerrafondaia può, logicamente e prevedibilmente, assumere caratteri ben diversi da quelli della seconda guerra mondiale (di cui condividiamo la definizione, originata da Karl Schmitt, di "guerra civile mondiale": per capire meglio questa acuta definizione, occorrerebbe uscire dalla visione europeo-centrica della stessa ultima guerra mondiale e verificare l'andamento del conflitto in altre, oggi più che mai, importanti aree del mondo).
Ma, anche questo, è un discorso già svolto in varie occasioni (che forse vale la pena di approfondire ulteriormente; per quanto questo sia un blog di analisi economica del diritto pubblico)...

Pubblicato da Quarantotto a 11:46 13 commenti: Link a questo post
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sabato 9 luglio 2016
UE-EURSS? NO, TOTALITARISMO NEO-LIBERISTA DEL MERCATO (con ADDENDUM) [/paste:font]
 
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sabato 9 luglio 2016
UE-EURSS? NO, TOTALITARISMO NEO-LIBERISTA DEL MERCATO (con ADDENDUM) [/paste:font]


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1. Come spesso capita, seguendo una prassi "conservativa", dei commenti più stimolanti, ci soffermiamo sulla questione della "spontaneità" dell'ordine naturale del mercato per arrivare poi a verificare la presunta equiparabilità dell'Unione Europea all'URSS.
Muoviamo dalla notazione di Philip Mirowsky (et al.) suggerita da Francesco:
il Mercato” non fa apparire naturalmente e magicamente le condizioni per il suo continuo fiorire, per questo il neoliberismo è in primis e soprattutto una teoria su come ristrutturare lo Stato al fine di garantire il successo del mercato e dei suoi attori più importanti (…)” [P. MIROWSKI - D. PLEHWE, The Road from Mont Pelerin, Harvard University Press, Cambridge, 2009, 161]".

Non che Mirowsky sia un entusiasta assertore di tutto questo: anzi, egli è uno dei più acuti e ironici osservatori critici di quel paradigma neo-liberista, che controlla saldamente governi nonchè opinione pubblica e di massa, avendo unificato il pensiero politico-filosofico (prima ancora che, ovviamente, quello economico), ormai praticamente in tutto il mondo:
"Nel suo libro Never Let a Serious Crisis Go to Waste , Mirowski conclude nel senso che il pensiero neoliberale è divenuto così pervasivo che qualsiasi evidenza ad esso contrapponibile viene utilizzata solo per un ulteriore convincimento dei suoi seguaci circa la sua verità definitiva. Una volta che il neoliberalismo diviene una "TEORIA DEL TUTTO", fornendo una definizione rivoluzionaria del Sé, della conoscenza, dell'informazione, dei mercati e dello Stato, non può più essere falsificata da una cosa così "insignificante" come i dati dell'economia reale".2. Ma tralasciando il pur interessante versante del pensiero di Mirowsky, l'argomento del costruttivismo (auto)occultato dei neo-liberisti è agevolmente ricavabile dal loro originario e peraltro monoliticamente immutabile pensiero: basti vedere, come "concetti di questo tipo vennero teorizzati, nel (tristemente) noto "Colloque Lippmann", da Miksch, e furono ripresi dallo stesso Einaudi in assemblea Costituente; cfr; pagg.97-98 de "La Costituzione nella palude".
Il "costruttivismo" neo-ordo-liberista è, in realtà, giustificato come restaurazione dell'ordine naturale della Legge (del mercato), e quindi in funzione "anticostruttivismo" statale.
Contraddizione su cui Ruini non mancò di ironizzare nella sua formidabile replica a Einaudi..."
Su questa considerazione si innesta l'intervento confermativo di Arturo che ci offre questa ulteriore e significativa fonte:
«La scelta – scriveva Robbins non è fra un piano o l’assenza di piano, ma fra differenti tipi di piano». Correttamente si deve parlare dell’esistenza di un piano liberale, così come si parla di un piano socialista o nazionale.
«La ‘pianificazione’, nel suo significato moderno, comporta il controllo pubblico della produzione in una forma o in un’altra. L’intento del piano liberale era quello di creare un insieme di istituzioni in cui i piani dei privati potessero armonizzarsi. Lo scopo della moderna (pianificazione) è quello di sostituire i piani privati con quello pubblico – o in ogni caso di relegarli in una posizione di subordinazione».
Su questa base, Robbins fu allora in grado di denunciare il difetto della posizione liberale (e socialista) al livello internazionale.

I liberali classici avevano sostenuto la necessità di introdurre una serie di istituzioni, come la moneta, la regolamentazione degli scambi e della proprietà, ecc. al fine di consentire il funzionamento del mercato: la mano invisibile è in verità, scriveva Robbins, la mano del legislatore.
Ma gli economisti classici, mentre ritenevano indispensabili queste misure di governo all’interno dello Stato, avevano ingenuamente creduto che potesse spontaneamente crearsi un mercato ben ordinato e funzionante anche al livello internazionale, in una situazione di anarchia politica."
3. Ora Lionel Robbins è importante perché ebbe una non trascurabile influenza sulla visione economica e "federalista" del "secondo" Einaudi (anzi del "terzo", dopo quello, inizialmente socialista, della gioventù): parliamo di quell'Einaudi che, dopo averlo appoggiato, prende le distanze dal fascismo, per divenire oppositore delle teorie keynesiane e sostenitore della riduzione "in polvere" degli Stati nazionali in nome dell'ordine internazionale dei mercati, un concetto trasmesso e trasposto come soluzione irenica nel manifesto di Ventotene.
Di conseguenza, per quella naturale trasmissione osmotica del pensiero che nel neoliberismo raggiunge uno dei massimi livelli di efficacia e di compatto conformismo, Robbins ebbe anche un'influenza moral-scientifica sulla stessa costruzione europea.
Ecco che si spiega come e perché egli stesso sostenga qualcosa che risulta in perfetta assonanza con l'ordoliberista Miksch.
Il problema è che Einaudi e Robbins, e Monnet, e Adenauer e i suoi consiglieri (Roepke, Erhard, Eucken, etc.), sono perfettamente coscienti che l'attivismo interventista del neo-Stato (bello), neo-liberista, distruttore dello Stato sociale nazionale, orientato al "sezionalismo" (cioè alla considerazione e tutela della posizione dei lavoratori...), deve proiettarsi, in un processo a fasi successive, nella graduale costruzione di un organismo sovranazionale detentore di ogni residua sovranità ammissibile, sottratta agli Stati e in parte concentrata, in parte "naturalisticamente" dispersa/soppressa in tale sede superiore.
Come appunto teorizzava meglio di tutti Hayek.

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4. Il punto è se tale "processo"- condotto in modo che il cittadino dell'ex-Stato nazionale (e democratico) non si accorga della distruzione progessiva di sovranità democratica-, possa non divenire un inevitabile cammino verso un nuovo totalitarismo: cioè, parafrasando l'ipocrisia della rivendicazione libertaria oligarchica di Hayek, un cammino "verso la schiavitù" dei popoli soggetti a questa costruzione dell'internazionalismo neo-liberista.

Per risolvere questo problema, dobbiamo dunque tornare all'enunciato di Robbins sopra riportato.
Sì, perché risolto il problema della pianificazione nel senso che essa ben possa (anzi: debba) essere "neo-liberista" e promercato, una volta portato il sistema alla sua (intrinseca) internazionalizzazione, ne deriva la difficoltà di individuare QUALE INTERESSE PRIVATO debba ritenersi prevalente.

Infatti, a livello nazionale, ciò risulta relativamente semplice, seguendo le indicazioni intrinseche nel sistema del mercato (marshalliano e marginalista), quali esplicitate da Hayek sul piano politico.
Egli compie un'implicita ridefinizione della stessa soggettività e capacità giuridica generale delle persone umane, in base ad una (neo)eguaglianza formale, restrittiva persino rispetto alle formali enunciazioni del liberalismo ottocentesco; e cioè, quella di una "piena"capacità condizionata al ricorrere della titolarità dei beni patrimoniali essenziali: capitale industriale e finanziario.
In funzione della titolarità di tali beni si individuano gli interessi prescelti e da perseguire(quanto appena detto è agevolmente desumibile anche dalle istituzioni essenziali affidate alla creazione del legislatore-mano invisibile dalla predicazione di Robbins: "introdurre una serie di istituzioni, come la moneta, la regolamentazione degli scambi e della proprietà, ecc" ).

5. Ma a livello internazionale, e lo nota lo stesso Robbins, riscontrandosi una società (o comunità sociale) composta da Stati, cioè tra persone giuridiche sovrane, manca un assetto sociologico comparabile a quello nazionale, suddiviso in proprietari-capitalisti e "minus-habentes" (cioè tutti gli altri) che sia idoneo per risolvere il conflitto distributivo mediante lo stesso criterio utilizzabile all'interno dei singoli Stati.
Si pone allora il problema di quale interesse statale, tra quelli dei vari protagonisti della comunità internazionale o di una comunità "federativa", possa incarnare, a preferenza di altri, l'interesse privato privilegiato (proprietario e capitalista) in base a cui indirizzare la pianificazione dell'intera società (composta dal substrato sociale di più Stati, appunto, "federati").
E poi come giustificare la qualificazione di interesse privato a cui asservire gli interventi dell'autorità sovranazionale neo-liberista, mantenendo la facciata coerente della pianificazione pro-mercatista, se ogni soggetto dell'ordinamento internazionale si presenta come l'entificazione di un'organizzazione per definizione pubblica?

6. In realtà si tratta di problemi irrisolvibili, essenzialmente perché si pretende di negare l'affermazione autoritaria, e quindi "pubblicistica", delle forze del mercato, che si contrappongono alla "libertà" di un'ampissima sfera di interessi privati "esclusi": insomma si limita fortemente, in funzione di un'oligarchia, l'interesse generale dei popoli e lo si vuol dissimulare in un'utopica e pretestuosa ricerca della pace. Ce lo spiegò la stessa Rosa Luxemburg, qualche decennio prima delle visioni di Hayek e Robbins, con icastica lucidità:
«Il carattere utopico della posizione che prospetta un’era di pace e ridimensionamento del militarismo nell’attuale ordine sociale, è chiaramente rivelato dalla sua necessità di ricorrere all’elaborazione di un progetto. Poiché è tipico delle aspirazioni utopiche delineare ricette “pratiche” nel modo più dettagliato possibile, al fine di dimostrare la loro realizzabilità. A questa tipologia appartiene anche il progetto degli “Stati Uniti d’Europa” come mezzo per la riduzione del militarismo internazionale. [...]
L’idea degli Stati Uniti d’Europa come condizione per la pace potrebbe a prima vista sembrare ad alcuni plausibile, ma a un esame più attento non ha nulla in comune con il metodo di analisi e con la concezione della socialdemocrazia. [...]

...Che un' idea così poco in sintonia con le tendenze di sviluppo non possa fondamentalmente offrire alcuna efficace soluzione, a dispetto di tutte le messinscene, è confermato anche dal destino dello slogan degli “Stati Uniti d’Europa”. Tutte le volte che i politicanti borghesi hanno sostenuto l’idea dell’europeismo, dell’unione degli stati europei, l’anno fatto rivolgendola, esplicitamente o implicitamente, contro il “pericolo giallo”, il “continente nero”, le “razze inferiori”; in poche parole l’europeismo è un aborto dell’imperialismo.
E se ora noi, in quanto socialdemocratici, volessimo provare a riempire questo vecchio barile con fresco ed apparentemente rivoluzionario vino, allora dovremmo tenere presente che i vantaggi non andrebbero dalla nostra parte, ma da quella della borghesia. Le cose hanno una loro propria logica oggettiva...".


7. E, d'altra parte, Lenin, ben conoscendo come i "federalisti dell'ordine internazionale dei mercati" potessero intendere le cose in un solo modo, aveva anticipato le pseudo-soluzioni e gli esiti di un federalismo europeo guidato dai liberisti (trionfatori nella lotta di classe proprio grazie al federalismo):
Ripassare non fa mai male: Lenin, 1915
In regime capitalistico, gli Stati Uniti d'Europa equivalgono ad un accordo per la spartizione delle colonie.
Ma in regime capitalistico non è possibile altra base, altro principio di spartizione che la forza. Il miliardario non può dividere con altri il "reddito nazionale" di un paese capitalista se non secondo una determinata proporzione: "secondo il capitale" (e con un supplemento [l'aumento di produttività a favore dei profitti!, ndr], affinché il grande capitale riceva più di quel che gli spetta). Il capitalismo è la proprietà privata dei mezzi di produzione e l'anarchia della produzione [ovvero privatizzazioni e anarco-liberismo, ndr]. Predicare una "giusta" divisione del reddito su tale base è proudhonismo, ignoranza piccolo-borghese, filisteismo. Non si può dividere se non "secondo la forza". È la forza che cambia nel corso dello sviluppo economico."

8. Dunque, i problemi di "pacifica" (id est. "razionale") individuazione degli interessi da perseguire nell'interventismo neo-liberista internazionalizzato, sono irrisolvibili: e lo sono all'interno degli stessi interessi comuni delle elites "parti" dell'accordo, - che rimangono pur sempre divise dalle diverse origini e strutture nazionali del capitali. A decidere può essere sempre e solo la "forza": e ogni finalità di pace è solo una simulazione di facciata.

Ma date le premesse dei neo-liberisti federalisti, questi problemi in definitiva sono una false flag: a nessuno veramente importa che non ci sia un criterio, nell'ambito del diritto internazionale, per stabilire quale gruppo di capitalisti debba essere privilegiato, a scapito di altri, nella regolazione pianificata della società sovranazionale regolata dal mercato: cioè, appunto, una Grande Società dove piuttosto prevale come valore, l'obiettivo della unificazione federalista, che risolve(rebbe) ogni problema in una saldatura degli interessi di classe che le elites capitaliste mettono, in qualche modo, in comune.
Una classe transnazionale di oligarchi della finanza e del capitale industriale (finanziarizzato), si coagula per stabilire regole cogenti e irresistibili che ridurranno a miti consigli le rispettive classi sociali contrapposte; in particolare i lavoratori, "controparte" di mercato indebolita dall'apertura delle economie nazionali.
Queste ultime, infatti, permangono come punto di riferimento meramente contabile, e non più politico-sociale, degli equilibri delle partite correnti e delle esortazioni a sopportare i costi della corsa alla "competitività".
Cioè, in pratica, internazionalizzaione dei profitti, e nazionalizzazione dei costi per i lavoratori.

9. Tuttavia, nonostante l'accordo di saldatura degli interessi elitari transnazionali, una volta riportata la prospettiva al livello di riferimento nazionale, cioè alle masse non tutelabili per definizione nella privazione progressiva e "non avvertita" della sovranità democratica da parte dei singoli popoli, le elites che danno vita al disegno non escludono una lotta feroce.
(Il TUE, art.3, par.3, parla di economia (sociale) di mercato fortemente competitiva).

E dunque ha ragione Lenin: non è possibile altra base, altro principio di spartizione che la forza.
Ed è così che ci troviamo, oggi, a fronteggiare, l'arrembante ordoliberismo pianificatore e super interventista della Germania: naturalmente interventista con legislazione pro-mercato, come ben vediamo in occasione della crisi indotta dalla regolazione introdotta con l'Unione bancaria, ma non solo.
Solo che l'intervento della pianificazione neo-liberista, come avevano pronosticato 100 anni fa Lenin e Luxemburg, è NATURALMENTE DIRETTO A PRESERVARE E RAFFORZARE LA POSIZIONE DELLE ELITES NAZIONALI CHE, GRAZIE ALLA ISTITUZIONE "FEDERALISTA", HANNO VINTO LA COMPETIZIONE SUL MERCATO.
 
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10. E la prova di ciò l'abbiamo nella vicenda dell'euro: al principio del processo di pianificazione dell'ordine internazionale dei mercati, le elite si accordano per farne il fulcro della denazionalizzazione della moneta e delle stesse politiche fiscali. Stabiliti i rapporti di forza e di suddivisione dei "dividendi" (di cui tanto si parla, tutt'ora), cioè registrati gli esiti della spietata competizione, i danni sociali a livello popolar-nazionale non trattengono da alcuna ulteriore misura tesa e conservare l'utilità elitaria della moneta unica (controllo del mercato del lavoro e dell'intero conflitto distributivo che l'euro consente).
Da ciò, senza alcuna resistenza politica nazionale, (almeno in Italia), regole, attuative della più ampia pianificazione mercatista, quali il fiscal compact e l'Unione bancaria, coi suoi "meccanismi di risoluzione", che riducono il perdente della "guerra dell'euro" a quasi-colonia sotto ricatto armato della BCE.

Ne discende una situazione di rapporti di forza in consolidamento e divaricazione: il "centro" vincitore diventa paese imperialista e i paesi perdenti, divenuti periferici, divengono poco più che colonie.
Ecco che, dunque, il disegno federalista dell'ordine internazionale dei mercati, cioè l'unione del "mercato unico" a danno del lavoro, rivela il suo inevitabile esito totalitario.
Ed essendo intollerante, culturalmente e politicamente, rispetto a qualsiasi contraddizione e opposizione, diviene anche inevitabilmente autoritario.

11. Che il (neo)liberismo, quale che sia l'alibi dietro cui viene nascosta la inevitabile natura oligarchica e antisociale dell'ordine del mercato, avesse un esito autoritario, ce lo aveva già dimostrato questo post di Bazaar:
"...il totalitarismo non è altro che la fase assoluta a cui tende il sistema capitalistico liberale – senza freni e limiti – nel momento in cui viene mercificato e monopolisticamente prezzato qualsiasi oggetto sensibile, da qualsiasi risorsa naturale, all'uomo, dalle norme morali, ai sentimenti.Sheldon Wolin, il grande teorico politico americano recentemente scomparso, all'inizio degli anni 2000, analizzando la proiezione degli Stati Uniti sul mondo, propose la definizione di “totalitarismo rovesciato”...




Vediamo ad esempio C. Friedrich e Z. Brzeziński (1956) sul significato storico di totalitarismo, proponendo già alcuni spunti di riflessione tra parentesi quadre:
a) un'ideologia onnicomprensiva che promette la piena realizzazione dell'umanità; [tipo il “mondialismo”?]
b) un partito unico di massa, per lo più guidato da un capo, che controlla l'apparato statale e si sovrappone a esso;
[tipo il “PUDE”, il “PUO” o il partito unico liberale con a capo il Grande Fratello, ovvero il Mercato?]
c) un monopolio quasi totale degli strumenti della comunicazione di massa;
d) un monopolio quasi totale degli strumenti di coercizione e della violenza armata;
e) un terrore poliziesco esercitato attraverso la
costrizione sia fisica sia psicologica, che si abbatte arbitrariamente su intere classi e gruppi della popolazione;
f) una direzione centralizzata dell'economia.
[Possiamo chiamare anche questo “monopolio” di un mercato massimamente concentrato che pianifica produzione e fissa i prezzi?]...




Le differenze che trova Sheldon Wolin in forma di attributi di segno inverso nell'attuale totalitarismo sono principalmente tre:
1 – Le grandi imprese sostituiscono lo Stato come principale attore economico e, tramite attività di lobbying, controllano il governo senza che ciò sia ritenuto corruzione;
2 – Non viene più ricercata una costante mobilitazione di massa a fini di propaganda, ma la popolazione viene tenuta in uno stato perenne di apatia politica;[9]
3 – La democrazia viene formalmente rivendicata e proposta come modello al mondo intero".


12. Riassumendo: ci pare evidente come, senza neppure ricorrere a tutte le illustri e sofisticate analisi finora richiamate:
a) un ordine dei mercati proiettato a livello sovranazionale sia, necessariamente, il frutto di un accordo concluso tra elites di operatori economici, proprietari del capitale finanziario e produttivo;
b) tale accordo diviene il presupposto AUTOMATICO per una intensa pianificazione normativa, di tutela degli interessi e dei RAPPORTI DI FORZA che si manifesteranno nella competizione;
c) una competizione, però, non assolutamente libera e lasciata a forze naturalistiche, bensì svoltasi sulla base delle regole che sono state stabilite nell'accordo tra elites.

13. Questa idea del mercato è intrinsecamente autoritaria, perché geneticamente orientata a perseguire istituzionalmente sologli interessi delle elites: l'istituzione (moneta, regole del mercato, governance delle relative politiche), detterà norme e applicherà sanzioni a vantaggio di queste elites e PER ASSOGGETTARE LE NON ELITES.
Questo autoritarismo è la negazione della democrazia e pertanto esige un continuo sforzo di controllo politico-culturale sul substrato sociale delle non elites.
Per esercitare questo sforzo continuo di controllo sociale si sviluppa, appunto, l'istituzionalismo sovranazionale neo-liberista che, come evidenzia Mirowsky, rivendica ormai il ruolo di "teoria del tutto": e proprio come tale il neoliberismo sfocia inevitabilmente in un TOTALITARISMO DEL MERCATO, nella nuova forma che evidenzia Wolin.
Una forma, cioè che controlla le istituzioni formali in assoluta mancanza di trasparenza e assunzione di responsabilità, distrugge cultura e consapevolezza nella massa di non-elite e predica un simulacro esile, contraddittorio, e spesso ridicolo, di democrazia.
Ma come ogni autoritarismo totalitario non rinuncia a creare un "uomo nuovo", un essere perfettamente asservito alle esigenze del mercato e della competitività,incapace di avere altra aspirazione che assecondare e massimizzare questi pseudo-valori mercatori, concordati dalle elites e offerti come prospettiva di "pace" e di benessere (!), contro ogni evidenza.
14. In questo quadro, nulla risulta più inesatto, se non addirittura grottesco, che fare un accostamento del federalismo europeo, - pianificatore della privatizzazione oligarchica di ogni istituzione e di ogni gerarchia creata dalla spietata competizione- con l'URSS.
L'ipotesi di Vladimir Bukovskji che vi sia una somiglianza con l'URSS, e addirittura una "strumentalità" dell'UE rispetto all'assoggettamento dei popoli europei al dominio "sovietico", è una mera fantasia priva di qualsiasi attendibilità analitica e non corrispondente alla realtà storica e fenomenologica del federalismo europeo, cioè del neo-ordoliberismo istituzionalizzato, di cui abbiamo visti gli esiti inevitabili.
Spero che le persone dotate di intelligenza critica e cultura non parlino più di EURSS.E guardino alla ipermanifesta realtà, nella quale il neo-liberismo, con il suo ordine sovranazionale dei mercati, e il suo liberoscambismo istituzionalizzato, teorizza apertamente i suoi esiti "pianificatori" e la sua idea totalitaria e antiumana della società e del "Tutto".
ADDENDUM: i termini della questione relativa al totalitarismo come conseguenza insita nelle premesse stesse del neo-liberismo, avrebbero dovuto essere insiti nel post che precede.
Ma, constatata, per vari aspetti, una certà difficoltà a trarreun'agevole schematizzazione critica della questione stessa, prendo spunto da un commento di Bazaar, per proporre uno schema riassuntivo che, spero, risulti chiarificatore.
"1. Riassumo in termini semplificati la questione: il socialismo reale sovietico vuole modificare la struttura sociale ma non l'essere umano nella sua essenza psicologica e antropologica (ciò che è la caratteristica del totalitarismo).
E non considera questa opzione come razionale proprio perché non la considera "reale": si rende infatti conto che tale essenza delle dinamiche sociali è immodificabile;cioè antropologicamente la società tende a produrre delle posizioni di forza politico-economica e delle norme per conservarle. Perciò, per risolvere con "effettività" il problema, sceglie l'autoritarismo, cioè un regime che usa la forza per realizzare il cambiamento sociale strutturale.

1.1. C'è un versante utopico e antiumano in ciò?
Sì, perché il "metodo" non solo si rivela (inevitabilmente, direi) non transitorio(id est. delimitato a una fase "instaurativa"), come inizialmente lo si voleva giustificare, ma contiene in sè i germi della strutturazione del potere burocratizzata e anti-libertaria (in senso essenziale: libertà di parola, di stampa, di movimento, di inviolabilità della persona e del domicilio, ecc.). Rosa Luxemburg è chiara su questo punto. Lo ritiene un costo non giustificabile.

2. Il neo-liberismo, a sua volta, muove sempre dalla stessa premessa ma ne inverte il senso valoriale: ritiene che le posizioni prevalenti, economico-politiche, DEBBANO essere preservate istituzionalmente, ma considera tale obiettivo strutturale una "Legge naturale", con pretesa di scientificità: poiché, poi (come hai sempre evidenziato), convidide l'analisi strutturale marxista della società, si rende conto della incessante conflittualità determinata da tale Legge naturale.

Perciò teorizza e attua, come prassi politica, un sistema di controllo sociale autoritario del conflitto (in varie forme, di cui le principali, contemporanee, sono il sistema mediatico e quello monetario): questo sistema è funzionale ad una DEFINITIVA MUTAZIONE dell'orientamento psicologico e esistenziale dell'essere umano (cioè vuole invertire la sua autopercezione di essere capace di autodeterminarsi, sia pure entro limiti storicamente "convenzionali").

2.1. Questa utopia-distopia, ben evidenziata da Orwell, fornisce alla Storia un formidabile paradosso: per strutturare la naturalità (scientifica) delle Leggi del mercato, e le loro conseguenze di gerarchizzazione sociale definitiva (come già nelle teorie teocratiche del medio-evo, da parte dell'aristocrazia terriera che, pure, svolgeva, in origine, una funzione difensiva del minimo di sopravvivenza delle comunità territoriali), il neo-liberismo ritiene indispensabile modificare la "natura" degli esseri umani, rendendoli propensi ad accettare la schiavitù come fatto normativo "fondante" (grund-norm complementare a quella dell'ordine del mercato).

Esattamente in questa pars construens consiste il totalitarismo e la differenza insanabile con l'autoritarismo sovietico: l'essere umano deve, senza alternative, riconoscere la colpa di non essere "naturalmente" nel modo in cui gli imporrebbe...la Legge naturale del mercato.

2.2. Come dice Hayek, nell'aforisma qui infinite volte citato, per realizzare ciò ogni strumento e ogni fine deve essere riplasmato dall'elite degli eletti.
In questa contraddizione, incentrata sull'innaturalità consapevole della prassi politica predicata - elemento che fa cadere anche la naturalità della premessa (sull'ordine del mercato), (come attestano Basso, Mirowsky, Miksch e via dicendo: cioè chiunque ci ragioni, da qualunque punto di partenza muova)-, è il clou del totalitarismo.
Che è dunque un carattere proprio del liberismo e a cui questo, per questioni di continuità di potere e, quindi, per la sua stessa sopravvivenza, NON POTRA' MAI E POI MAI RINUNCIARE.
 

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