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Forumer storico
Petrolio e Aramco, le nuove minacce per i mercati
Pubblicazione: 04.02.2020 - Mauro Bottarelli
Il rallentamento della domanda di petrolio della Cina rischia di creare molti problemi per i mercati. Occhio quindi al prezzo di Aramco.
SPY FINANZA/ Petrolio e Aramco, le nuove minacce per i mercati
Attenzione, in questi giorni che saranno di panico e confusione comunicativa, a non confondere cause ed effetti: siamo a un punto di snodo, di quelli epocali. Ma la battaglia e le sorprese non sono finite, a livello globale la strada del riassesto degli equilibri geopolitici e geofinanziari è ancora lunga. E piena di insidie. Almeno fino al prossimo 3 novembre.
Prima regola, non fatevi impressionare dalla Borsa. Restare freddi, emotività al bando. Altrimenti si rischia di cadere da un errore di valutazione a quello opposto in un breve giro di posta. Ovvero, prima esaltarsi per rallies manipolati come quello che stiamo festeggiando dallo scorso ottobre e ora drammatizzare un tracollo – quello dei mercati equities cinesi, riaperti ieri dopo il lungo ponte vacanziero per il nuovo anno – che in realtà è soltanto una purga necessaria, al fine di evitare guai peggiori. Certo, la magnitudo di quanto accaduto in Cina fa impressione. Fra Shanghai e Shenzhen sono stati bruciati 420 miliardi di dollari in una sola seduta, addirittura il primo dei due indici all’apertura segnava un -9%, il peggior tonfo dall’esplosione della bolla azionaria del 2015 e in grado di azzerare 12 mesi di guadagni in un solo colpo, come mostra il grafico. Insomma, roba con un certo impatto.
Ma è altro che deve fare paura, appunto. E vi spiego perché. Primo, la fine delle vacanze per i mercati finanziari, ieri è coincisa anche con il termine dell’embargo della pubblicazione di dati macro. Bene, nonostante tre quarti del Paese sia chiuso in casa per l’emergenza da coronavirus, quegli umoristi dei demoscopi cinesi hanno venduto al mondo la panzana in base alla quale l’indice Caixin PMI manifatturiero sia salito a 51,1 dal 51,0 del mese di dicembre.
Il classico caso di presa per i fondelli: mostro al mondo come il momento della contrazione sia finito, ma, per un rigurgito di decenza, lo faccia spiattellando una cifra che rappresenta il minimo sindacale di miglioramento, praticamente nullo. Simbolico, insomma e non in grado di compromettermi ulteriormente a livello reputazionale. Secondo, come mostra questo grafico, i cinesi erano assolutamente consci del rischio di un vero e proprio bagno di sangue alla riapertura dei mercati, visto che i futures segnalavano appunto un calo atteso per lo Shanghai Composito fra il 6% e l’8%. E, ovviamente, le autorità avevano preso delle precauzioni.
Domenica sera, infatti, da Pechino giungeva notizia che all’ovvio bando sulle vendite allo scoperto, l’ente regolatore dei mercati aveva aggiunto anche il divieto di vendite nette fino al 7 febbraio almeno e una norma che impone la necessità di un “permesso speciale” da parte dei regolatori per la liquidazione di posizioni oltre i 10 milioni di yuan. Insomma, vietato vendere. Ma una cosa è la teoria, un’altra la pratica: perché tu puoi vietarmi di operare sui titoli, ma nessuno può limitarmi nell’operare sulle opzioni o sui credit default swaps. Et voilà. Non basta, sempre in ossequio all’emergenza attesa, la Pboc aveva annunciato l’iniezione di 1,2 triliardi di yuan, il massimo a livello di fornitura di liquidità in un singolo giorno addirittura dal 2004, il tutto attraverso operazioni di reverse repo.
Ma anche qui, c’era il trucchetto.
Quella liquidità serviva unicamente a sterilizzare maturazioni di prestiti a breve termine, le cui scadenze nella data di ieri ammontavano appunto a circa 1 triliardo di yuan. Insomma, nel sistema sono rimaste le briciole.
Però, giova sempre vedere anche il bicchiere mezzo pieno: se ai tonfi generalizzati si sono fosse unito l’accelerante di quelle scadenze da onorare, il massacro dovuto a prosciugamento della liquidità sarebbe stato ben peggiore. In effetti, a onor del vero, a metà della seduta di contrattazione la magnitudo dei cali ha spaventato un po’ gli stessi regolatori, visto che la Pboc ha dato vita a un inusuale intervento a Borsa aperta sui tassi repo a 7 e 14 giorni, abbassandoli rispettivamente dal 2,5% al 2,4% e dal 2,65% al 2,55%. Questo sì, sintomo di un po’ di panico. Controllato ma pur sempre panico.
Ma la questione vera da osservare nei prossimi giorni, ovvero come dinamica strutturale e sistemica, a mio avviso è la terza entrata in gioco. Quella che ci mostra questo ultimo grafico: a fronte di consumi petroliferi record, la domanda cinese di greggio a seguito della crisi da cononavirus è crollata per un controvalore di 3 milioni di barili al giorno, ovvero il 20% in meno di consumi totali. Sapete questo numero cosa rappresenta, a detta degli stessi analisti del settore? Il maggiore shock sulla domanda mondiale dalla crisi finanziaria del 2008 e il più inaspettato e improvviso dagli attentati dell’11 settembre.
Non a caso, l’Opec sta considerando fin da ora l’ipotesi di un meeting di emergenza. Anche perché la Cina pre-virus consumava qualcosa come 14 milioni di barili di petrolio al giorno, l’equivalente combinato delle necessità energetiche di Francia, Italia, Germania, Spagna, Regno Unito, Giappone e Corea del Sud.
Insomma, questo sì un impatto devastante.
E, a differenza dei cali di una Borsa sopravvalutata e manipolata che necessitava una purga, destinato a divenire trend di medio periodo. Almeno, al netto di una crescita globale già asfittica che rischia di vedere il coronavirus tramutarsi nel proverbiale chiodo nella bara, in grado di sancire la mutazione ufficiale da stagnazione a contrazione e recessione su scala mondiale.
Dal picco dello scorso 8 gennaio, quando la crisi fra Iran e Usa seguita al raid statunitense in territorio iracheno aveva spedito alle stelle le quotazioni del greggio per qualche giorno, il prezzo del barile da ieri è ufficialmente entrato in bear market, avendo perso già il 22% dal suo ultimo massimo di valutazione a inizio mese. Questo deve fare paura, in prospettiva. E se la Cina rischia di tramutarsi nell’accelerante dell’incendio doloso della falsa crescita globale garantita da debito e Banche centrali, attenzione a non confonderlo con il detonatore: volete sapere chi osservare, attentamente, nei prossimi giorni?
Aramco.
Se il titolo del gigante petrolifero saudita alla Borsa di Ryad scenderà sotto il prezzo di collocamento dello scorso dicembre, allora l’effetto domino potrebbe davvero essere dietro l’angolo. E un effetto tutto finanziario, perché in caso di fallimento dell’operazione “Ipo del secolo” per fare cassa e finanziare il deficit strutturale del Regno, Ryad potrebbe vedersi costretta a ritirarsi da buona parte degli investimenti non strategici contratti attraverso il proprio munifico Fondo sovrano: in primis, Softbank, il conglomerato finanziario giapponese verso cui è esposto mezzo mondo, non fosse altro per le quote di controllo assoluto che vanta su Uber e WeWork. Effetto domino, appunto. Ma, in quel caso, davvero devastante.
Pubblicazione: 04.02.2020 - Mauro Bottarelli
Il rallentamento della domanda di petrolio della Cina rischia di creare molti problemi per i mercati. Occhio quindi al prezzo di Aramco.
SPY FINANZA/ Petrolio e Aramco, le nuove minacce per i mercati
Attenzione, in questi giorni che saranno di panico e confusione comunicativa, a non confondere cause ed effetti: siamo a un punto di snodo, di quelli epocali. Ma la battaglia e le sorprese non sono finite, a livello globale la strada del riassesto degli equilibri geopolitici e geofinanziari è ancora lunga. E piena di insidie. Almeno fino al prossimo 3 novembre.
Prima regola, non fatevi impressionare dalla Borsa. Restare freddi, emotività al bando. Altrimenti si rischia di cadere da un errore di valutazione a quello opposto in un breve giro di posta. Ovvero, prima esaltarsi per rallies manipolati come quello che stiamo festeggiando dallo scorso ottobre e ora drammatizzare un tracollo – quello dei mercati equities cinesi, riaperti ieri dopo il lungo ponte vacanziero per il nuovo anno – che in realtà è soltanto una purga necessaria, al fine di evitare guai peggiori. Certo, la magnitudo di quanto accaduto in Cina fa impressione. Fra Shanghai e Shenzhen sono stati bruciati 420 miliardi di dollari in una sola seduta, addirittura il primo dei due indici all’apertura segnava un -9%, il peggior tonfo dall’esplosione della bolla azionaria del 2015 e in grado di azzerare 12 mesi di guadagni in un solo colpo, come mostra il grafico. Insomma, roba con un certo impatto.
Ma è altro che deve fare paura, appunto. E vi spiego perché. Primo, la fine delle vacanze per i mercati finanziari, ieri è coincisa anche con il termine dell’embargo della pubblicazione di dati macro. Bene, nonostante tre quarti del Paese sia chiuso in casa per l’emergenza da coronavirus, quegli umoristi dei demoscopi cinesi hanno venduto al mondo la panzana in base alla quale l’indice Caixin PMI manifatturiero sia salito a 51,1 dal 51,0 del mese di dicembre.
Il classico caso di presa per i fondelli: mostro al mondo come il momento della contrazione sia finito, ma, per un rigurgito di decenza, lo faccia spiattellando una cifra che rappresenta il minimo sindacale di miglioramento, praticamente nullo. Simbolico, insomma e non in grado di compromettermi ulteriormente a livello reputazionale. Secondo, come mostra questo grafico, i cinesi erano assolutamente consci del rischio di un vero e proprio bagno di sangue alla riapertura dei mercati, visto che i futures segnalavano appunto un calo atteso per lo Shanghai Composito fra il 6% e l’8%. E, ovviamente, le autorità avevano preso delle precauzioni.
Domenica sera, infatti, da Pechino giungeva notizia che all’ovvio bando sulle vendite allo scoperto, l’ente regolatore dei mercati aveva aggiunto anche il divieto di vendite nette fino al 7 febbraio almeno e una norma che impone la necessità di un “permesso speciale” da parte dei regolatori per la liquidazione di posizioni oltre i 10 milioni di yuan. Insomma, vietato vendere. Ma una cosa è la teoria, un’altra la pratica: perché tu puoi vietarmi di operare sui titoli, ma nessuno può limitarmi nell’operare sulle opzioni o sui credit default swaps. Et voilà. Non basta, sempre in ossequio all’emergenza attesa, la Pboc aveva annunciato l’iniezione di 1,2 triliardi di yuan, il massimo a livello di fornitura di liquidità in un singolo giorno addirittura dal 2004, il tutto attraverso operazioni di reverse repo.
Ma anche qui, c’era il trucchetto.
Quella liquidità serviva unicamente a sterilizzare maturazioni di prestiti a breve termine, le cui scadenze nella data di ieri ammontavano appunto a circa 1 triliardo di yuan. Insomma, nel sistema sono rimaste le briciole.
Però, giova sempre vedere anche il bicchiere mezzo pieno: se ai tonfi generalizzati si sono fosse unito l’accelerante di quelle scadenze da onorare, il massacro dovuto a prosciugamento della liquidità sarebbe stato ben peggiore. In effetti, a onor del vero, a metà della seduta di contrattazione la magnitudo dei cali ha spaventato un po’ gli stessi regolatori, visto che la Pboc ha dato vita a un inusuale intervento a Borsa aperta sui tassi repo a 7 e 14 giorni, abbassandoli rispettivamente dal 2,5% al 2,4% e dal 2,65% al 2,55%. Questo sì, sintomo di un po’ di panico. Controllato ma pur sempre panico.
Ma la questione vera da osservare nei prossimi giorni, ovvero come dinamica strutturale e sistemica, a mio avviso è la terza entrata in gioco. Quella che ci mostra questo ultimo grafico: a fronte di consumi petroliferi record, la domanda cinese di greggio a seguito della crisi da cononavirus è crollata per un controvalore di 3 milioni di barili al giorno, ovvero il 20% in meno di consumi totali. Sapete questo numero cosa rappresenta, a detta degli stessi analisti del settore? Il maggiore shock sulla domanda mondiale dalla crisi finanziaria del 2008 e il più inaspettato e improvviso dagli attentati dell’11 settembre.
Non a caso, l’Opec sta considerando fin da ora l’ipotesi di un meeting di emergenza. Anche perché la Cina pre-virus consumava qualcosa come 14 milioni di barili di petrolio al giorno, l’equivalente combinato delle necessità energetiche di Francia, Italia, Germania, Spagna, Regno Unito, Giappone e Corea del Sud.
Insomma, questo sì un impatto devastante.
E, a differenza dei cali di una Borsa sopravvalutata e manipolata che necessitava una purga, destinato a divenire trend di medio periodo. Almeno, al netto di una crescita globale già asfittica che rischia di vedere il coronavirus tramutarsi nel proverbiale chiodo nella bara, in grado di sancire la mutazione ufficiale da stagnazione a contrazione e recessione su scala mondiale.
Dal picco dello scorso 8 gennaio, quando la crisi fra Iran e Usa seguita al raid statunitense in territorio iracheno aveva spedito alle stelle le quotazioni del greggio per qualche giorno, il prezzo del barile da ieri è ufficialmente entrato in bear market, avendo perso già il 22% dal suo ultimo massimo di valutazione a inizio mese. Questo deve fare paura, in prospettiva. E se la Cina rischia di tramutarsi nell’accelerante dell’incendio doloso della falsa crescita globale garantita da debito e Banche centrali, attenzione a non confonderlo con il detonatore: volete sapere chi osservare, attentamente, nei prossimi giorni?
Aramco.
Se il titolo del gigante petrolifero saudita alla Borsa di Ryad scenderà sotto il prezzo di collocamento dello scorso dicembre, allora l’effetto domino potrebbe davvero essere dietro l’angolo. E un effetto tutto finanziario, perché in caso di fallimento dell’operazione “Ipo del secolo” per fare cassa e finanziare il deficit strutturale del Regno, Ryad potrebbe vedersi costretta a ritirarsi da buona parte degli investimenti non strategici contratti attraverso il proprio munifico Fondo sovrano: in primis, Softbank, il conglomerato finanziario giapponese verso cui è esposto mezzo mondo, non fosse altro per le quote di controllo assoluto che vanta su Uber e WeWork. Effetto domino, appunto. Ma, in quel caso, davvero devastante.