I motori diesel
consumano mediamente meno di quelli a benzina, di conseguenza emettono
meno anidride carbonica CO2, che è un gas serra che contribuisce al surriscaldamento del pianeta. Per questo, in Europa, dove le normative pongono particolare attenzione ai livelli di CO2 emessa, i diesel non sono criminalizzati, anzi, nel 2014 rappresentavano
il 53% delle immatricolazioni di auto nuove. Per soddisfare le normative antinquinamento europee – emissioni medie della gamma di ogni costruttore inferiori a 95 g/km di CO2 entro il 2021 – i costruttori puntano anzi proprio su diesel e ibride. Poi dall’anno prossimo arriverà il nuovo ciclo di omologazione
World Light Vehicle Test Procedure (WLTP) che introdurrà prove reali su strada e non più solo sui rulli, quindi i limiti andranno ridiscussi, ma intanto le regole con cui si gioca in Europa sono queste. Certo, però, che se un motore diesel produce mediamente meno CO2 di un benzina di analoga potenza, allo stesso tempo emette
più particolato (il famoso
PM10) e più
ossidi di azoto (NOx), potenzialmente responsabili di
malattie respiratorie e cardiovascolari. A porre un limite alle emissioni di particolato hanno pensato le normative
Euro 5, che di fatto hanno imposto l’adozione sui diesel dell’apposito
filtro antiparticolato o Fap, una sorta di trappola che, come un setaccio, ferma le particelle e successivamente le brucia.
Le normative Euro 6, cioè quelle in vigore attualmente, hanno dato una stretta anche a livelli di NOx. Per soddisfare i parametri, i motori diesel devono essere dotati di un sistema di
post trattamento del gas si scarico, che può essere di due tipi. Per i motori più piccoli, basta una
“trappola” (LNT, Lean NOx Trap), che blocca e gli ossidi e periodicamente si rigenera. Per i motori più grandi, è necessario un sistema
SCR (Selective Catalytic Reductor), che faccia reagire gli ossidi di azoto con l’
ammoniaca contenuta in un additivo a base di
urea. Il liquido sta in un apposito serbatoio, che va riempito a seconda dei modelli ogni 7-8.000 km.