Se anche Papandreou fosse costretto a lasciare, l'Italia resterebbe l'unico tra i Paesi a rischio a conservare il primo ministro di prima: Portogallo e Irlanda hanno infatti già cambiato governo e la Spagna sta per farlo. Sembra però ogni ora più impossibile che questa anomalia italiana sopravviva. Il premier ha assicurato ieri al G20 che il nostro debito pubblico è coperto dalla ricchezza privata. Ma i governi possono esaurire il loro capitale politico ben prima di esaurire i capitali e i patrimoni da tassare.
L'era Berlusconi sta dunque chiudendosi nel peggiore dei modi. Per un governo di centrodestra, infatti, perdere la fiducia dei mercati finanziari è il colmo, la misura di un fallimento. Resta da vedere chi saprà riconquistarla. L'impressione è che quegli stessi mercati se lo stiano già chiedendo; e, a giudicare dallo spread, senza risposta.
Tutto ruota intorno alla sinistra, intendendo per essa l'alleanza di Vasto, con il Pd al centro e Di Pietro e Vendola alle ali. Questa coalizione oggi dispone, secondo i sondaggi, del maggior numero di consensi in caso di elezioni. E la sua forza parlamentare sarebbe decisiva anche in caso di un governo d'emergenza. La domanda è: ci si può contare per un programma da lacrime e sangue, del genere che ci viene richiesto?
Già porsi questo interrogativo, che non a caso ha rivolto anche il capo dello Stato a Bersani, segnala l'esistenza di un problema. Se infatti il centrodestra italiano è così anomalo da aver spaventato i mercati, il centrosinistra, fin dai tempi del primo Prodi e del suo professore Andreatta, è stato sempre anomalo nel senso opposto, avendo privilegiato il rigore e l'austerità. Oggi non è più così. Quando Di Pietro definisce la lettera della Bce «macelleria sociale» e i «giovani turchi» della segreteria Bersani vorrebbero restituirla al mittente, c'è da dubitare del sostegno reale che questi partiti potrebbero dare a un governo di salute pubblica, quand'anche il nome del suo premier fosse da solo un programma. Ma c'è di più: un sentimento nuovo, che s'è diffuso nella cultura di questa parte politica, e che è ormai espresso con sempre maggior chiarezza dai suoi polemisti e maître à penser.
Questo nuovo senso comune, forse eccitato dal riapparire di un movimento di protesta anticapitalista globale, pretende di mettere in opposizione democrazia e mercato. Sostiene che se si obbedisce al mercato si disobbedisce inevitabilmente al popolo. Dimenticando che ogni democrazia, persino quella greca, può liberamente mandare a quel paese anche l'euro, purché ne accetti le conseguenze. I cosiddetti mercati non impongono nulla all'Italia: è l'Italia che con una certa frequenza va a chiedere loro i soldi per tenere in piedi lo Stato, compreso quello sociale. Il nuovo mood «indignato» che seduce la sinistra applaude i mercati se bocciano Berlusconi, ma li demonizza se ci chiedono sacrifici. Intima anzi di rinnegare le esperienze sprezzantemente definite «riformiste» di Clinton e Blair, perché troppo cedevoli ai mercati.
La crisi, insomma, ha cambiato anche la sinistra. Altre volte, nel corso di questa tormentata seconda repubblica, si sapeva con che cosa si sostituiva Berlusconi. Stavolta si ha l'impressione di avventurarsi in una terra sconosciuta. E anche se il cammino è obbligato, perché dietro di noi è rimasto solo il deserto, ciò non di meno bisogna riconoscere che, per ora, stiamo camminando al buio (nota wsi:
ma non del tutto).