Val
Torniamo alla LIRA
Di solito, i parenti attendono la fine delle esequie prima di accapigliarsi sul lascito del defunto.
Nel caso di Silvio Berlusconi politico gli ex cuccioli allevati nelle tante nidiate in Forza Italia
non hanno avuto il dovuto riguardo verso l’anziano leader.
Nel fuggi-fuggi generale, stimolato dalle cattive condizioni di salute del vecchio leone di Arcore,
le tribù da tempo accampate all’interno di quella che è stata la casa dei liberali e riformisti (Forza Italia)
stanno togliendo le tende per migrare verso lidi incogniti, non prima di aver rastrellato il possibile.
Molta paccottiglia e poca argenteria (quella è già sparita da un pezzo).
Mentre il capo lotta per sopravvivere, in Parlamento nasce un nuovo gruppo politico.
Si chiama “Coraggio Italia”.
Il promotore è il sindaco di Venezia, Luigi Brugnaro.
A dargli una mano Giovanni Toti, governatore della Liguria e fondatore del movimento “Cambiamo” il cui appeal elettorale è da prefisso telefonico.
Sappiamo bene che la politica, come la rivoluzione, non sia un pranzo di gala.
Lealtà e spirito cavalleresco non si combinano con la difesa di interessi smaccatamente egoistici,
tuttavia Brugnaro ci consentirà ugualmente un appunto sullo stile.
La sua mossa politica, riguardo ai tempi, è stata inelegante.
Attendere di avere un colloquio chiarificatore con Silvio Berlusconi
per spiegargli a viso aperto il perché della decisione di provocare un trauma (l’ennesimo) alla già claudicante formazione azzurra
avrebbe conferito diversa dignità all’iniziativa (legittima).
Di certo, non avrebbe lasciato negli osservatori quel retrogusto sgradevole da pugnalata alla schiena
che l’annuncio della costituzione del nuovo soggetto politico indubbiamente lascia.
E quando si comincia con il piede sbagliato, non si va lontano.
Ma c’è anche una questione di sostanza che va indagata.
Berlusconi, nonostante i suoi tanti meriti in politica e nelle istituzioni, un po’ se l’è cercata.
Il vecchio leone ha avuto a disposizione un quarto di secolo per far maturare una classe dirigente
e una leadership autorevole e condivisa che avesse potuto raccogliere, al momento debito, la sua eredità e conferirle nuova linfa.
Purtroppo, il “Cav” non ha lavorato per prepararla.
Coloro che, di volta in volta, venivano individuati come possibili delfini del “re Sole” di Arcore
o sono stati ammazzati (politicamente) nella culla, seguendo una tradizione che da Erode in poi non è mai passata di moda,
oppure erano tanto inetti di loro che si sono autoeliminati senza che Berlusconi muovesse un dito.
Risultato?
Ciò che resta di Forza Italia è un rassemblement disarmonico di figure scarsamente dotate di carisma
che si guardano in cagnesco, pronte a darsi battaglia per contendersi uno strapuntino sulla scena della prossima legislatura.
Spettacolo poco edificante.
Ma tant’è.
Prendiamo atto del nuovo gruppo in Parlamento che ha messo insieme 23 deputati alla Camera e 7 membri al Senato.
L’apporto maggiore viene dall’emorragia verificatasi in Forza Italia alla quale si aggiunge la pattuglia di “Cambiamo”.
Ai due filoni si sommano i (pochi) rappresentanti del Centro Democratico
con un tocco di Cinque Stelle – la deputata Martina Parisse – che di questi tempi non guasta.
Che dire: auguri e figli maschi (legge Zan permettendo).
Fatta la manovra di Palazzo, ora i “coraggiosi” devono convincere gli italiani della bontà del progetto.
L’idea forte non è il non plus ultra dell’originalità: ridare voce a una vasta area di moderati e liberali
che non si riconoscerebbero nella radicalizzazione della politica a destra dopo l’avvento dei “sovranisti” Giorgia Meloni e Matteo Salvini.
Ritorna la sindrome della corsa verso un mitico centro che possa riequilibrare i rapporti all’interno della coalizione del centrodestra.
É il viaggio fantastico alla scoperta del nuovo El Dorado,
luogo leggendario dove starebbero nascoste le masse moderate in attesa di un David Livingstone voglioso di ritrovarle.
Nella realtà, l’intenzione di Brugnaro e compagni si riduce a una competizione tutta interna alla destra
nel tentativo di recuperare consensi approdati stabilmente sia nella Lega, sia in Fratelli d’Italia.
Ma non esiste alcuna Atlantide del moderatismo.
Morta la Democrazia Cristiana, il prorompere sulla scena del bipolarismo
ha prodotto negli italiani una mutazione antropologica nell’approccio ai codici comunicativi della politica.
Lo stare di qua o di là della linea di demarcazione tra due schieramenti plasticamente riconoscibili – la destra e la sinistra –
non è stato un fattore transitorio, congiunturale, come invece è stato l’abbaglio ottico del tripolarismo a seguito della comparsa del Cinque Stelle,
ma un elemento di trasformazione strutturale dell’ethos comunitario non reversibile mediante il ricorso ad anacronistici avventurismi.
La prova?
Chi per mestiere racconta o commenta i fatti della politica può esserne testimone.
C’è un’opinione pubblica che si esprime attraverso i canali social utilizzando linguaggi urticanti, talvolta ruvidi quando non sfrontatamente volgari.
Tocca proprio ai cronisti e agli opinionisti responsabili,
che non ammiccano alla violenza verbale per meschino tornaconto personale,
farsi carico del non facile compito di tenerli a bada attraverso un dialogo improntato al ragionamento e alla moderazione nella comunicazione.
La gente, brutto termine per indicare l’opinione pubblica,
sovente motivata dalle pessime condizioni in cui versa il Paese,
dalla drammatica crisi economica che, complice la pandemia,
continua a colpire soprattutto i più deboli e i meno difesi dallo Stato, non va per il sottile.
Di moderazione, e soprattutto di politica come arte del compromesso, non vuole sentire parlare.
Pretende piuttosto che i politici si esprimano con parole dure se necessario, ma che parlino linguaggi di verità e di coerenza.
Perché Giorgia Meloni cresce nei sondaggi?
La linearità della sua posizione le dà credito.
Quand’è che i leader (veri o fasulli) del centrodestra sono calati nei consensi?
Quando hanno cominciato a confondere le acque sul posizionamento in campo;
quando hanno promesso di stare da una parte e poi si sono buttati dall’altra.
È pura bizzarria credere che vi siano tanti italiani disponibili ad accordare fiducia a formazioni neo-centriste
le quali, soprattutto nel caso di una riforma in senso proporzionale della legge elettorale,
una volta approdate nel nuovo Parlamento siano pronte a darsi al migliore offerente, tra la destra e la sinistra.
Resta in piedi la questione del lascito liberale.
Spiace comunicarlo agli interessati ma anche su questo fronte arrivano in ritardo.
Fintantoché fosse stato in circolazione un Salvini iper-sovranista e anti-europeista,
una zona franca del pensiero liberale avrebbe avuto piena cittadinanza all’interno di una destra
egemonizzata da popolari, conservatori, populisti e sovranisti.
Ma la pandemia lo ha cambiato.
O meglio, ha dato la spallata decisiva a un processo evolutivo da tempo in atto nella Lega.
Il mondo dei media, malato di superficialismo, ha trascurato un evento significativo
sul quale avrebbe dovuto puntare i riflettori anziché prendere a irridere il leader leghista.
Era l’ottobre del 2020 quando si diffuse la notizia che Matteo Salvini
aveva avviato un dialogo sul liberalismo con il “maestro” Marcello Pera.
Era il segnale della svolta.
La Lega, abbandonando le barricate della resistenza ai poteri forti, all’eurocrazia e la lotta contro la moneta unica,
deviava in direzione del recepimento delle istanze liberali provenienti da una parte consistente del proprio blocco sociale di riferimento.
Il primo effetto del riposizionamento strategico: la ridefinizione della categoria concettuale, fino ad allora sostenuta, di “sovranismo”.
Il secondo: l’appoggio convinto a Mario Draghi, già banchiere centrale dell’Unione europea.
Specularmente, anche Fratelli d’Italia ha corretto la rotta.
Dal nazionalismo tout court si è riposizionato su visioni proprie del pensiero conservatore anglosassone.
La virata leghista ha convinto molti liberali a convergere su Salvini e, nel contempo,
ha silenziato la componente dell’anti-europeismo intransigente della sua constituency.
Pensate che i liberali, una volta accasati nel perimetro leghista, siano disposti a tornare sui propri passi
solo per il fatto che un pur bravo sindaco e un capace governatore di regione dicano loro: “Eccoci qua”?
Comunque, da sostenitori della libera impresa in libero mercato
non possiamo che guardare con curiosità a ciò che combineranno d’ora in avanti i “coraggiosi”,
nella consapevolezza che un insieme caotico di cespugli non facciano una foresta.
Riguardo a Forza Italia, dopo quest’ultimo scossone è bene che si dia una regolata e decida cosa essere da grande.
Che possibilmente non sia di somigliare alla sala d’aspetto di una stazione ferroviaria
con tanta gente in procinto di squagliarsela.
Valigie in mano e masserizie in spalla.
Nel caso di Silvio Berlusconi politico gli ex cuccioli allevati nelle tante nidiate in Forza Italia
non hanno avuto il dovuto riguardo verso l’anziano leader.
Nel fuggi-fuggi generale, stimolato dalle cattive condizioni di salute del vecchio leone di Arcore,
le tribù da tempo accampate all’interno di quella che è stata la casa dei liberali e riformisti (Forza Italia)
stanno togliendo le tende per migrare verso lidi incogniti, non prima di aver rastrellato il possibile.
Molta paccottiglia e poca argenteria (quella è già sparita da un pezzo).
Mentre il capo lotta per sopravvivere, in Parlamento nasce un nuovo gruppo politico.
Si chiama “Coraggio Italia”.
Il promotore è il sindaco di Venezia, Luigi Brugnaro.
A dargli una mano Giovanni Toti, governatore della Liguria e fondatore del movimento “Cambiamo” il cui appeal elettorale è da prefisso telefonico.
Sappiamo bene che la politica, come la rivoluzione, non sia un pranzo di gala.
Lealtà e spirito cavalleresco non si combinano con la difesa di interessi smaccatamente egoistici,
tuttavia Brugnaro ci consentirà ugualmente un appunto sullo stile.
La sua mossa politica, riguardo ai tempi, è stata inelegante.
Attendere di avere un colloquio chiarificatore con Silvio Berlusconi
per spiegargli a viso aperto il perché della decisione di provocare un trauma (l’ennesimo) alla già claudicante formazione azzurra
avrebbe conferito diversa dignità all’iniziativa (legittima).
Di certo, non avrebbe lasciato negli osservatori quel retrogusto sgradevole da pugnalata alla schiena
che l’annuncio della costituzione del nuovo soggetto politico indubbiamente lascia.
E quando si comincia con il piede sbagliato, non si va lontano.
Ma c’è anche una questione di sostanza che va indagata.
Berlusconi, nonostante i suoi tanti meriti in politica e nelle istituzioni, un po’ se l’è cercata.
Il vecchio leone ha avuto a disposizione un quarto di secolo per far maturare una classe dirigente
e una leadership autorevole e condivisa che avesse potuto raccogliere, al momento debito, la sua eredità e conferirle nuova linfa.
Purtroppo, il “Cav” non ha lavorato per prepararla.
Coloro che, di volta in volta, venivano individuati come possibili delfini del “re Sole” di Arcore
o sono stati ammazzati (politicamente) nella culla, seguendo una tradizione che da Erode in poi non è mai passata di moda,
oppure erano tanto inetti di loro che si sono autoeliminati senza che Berlusconi muovesse un dito.
Risultato?
Ciò che resta di Forza Italia è un rassemblement disarmonico di figure scarsamente dotate di carisma
che si guardano in cagnesco, pronte a darsi battaglia per contendersi uno strapuntino sulla scena della prossima legislatura.
Spettacolo poco edificante.
Ma tant’è.
Prendiamo atto del nuovo gruppo in Parlamento che ha messo insieme 23 deputati alla Camera e 7 membri al Senato.
L’apporto maggiore viene dall’emorragia verificatasi in Forza Italia alla quale si aggiunge la pattuglia di “Cambiamo”.
Ai due filoni si sommano i (pochi) rappresentanti del Centro Democratico
con un tocco di Cinque Stelle – la deputata Martina Parisse – che di questi tempi non guasta.
Che dire: auguri e figli maschi (legge Zan permettendo).
Fatta la manovra di Palazzo, ora i “coraggiosi” devono convincere gli italiani della bontà del progetto.
L’idea forte non è il non plus ultra dell’originalità: ridare voce a una vasta area di moderati e liberali
che non si riconoscerebbero nella radicalizzazione della politica a destra dopo l’avvento dei “sovranisti” Giorgia Meloni e Matteo Salvini.
Ritorna la sindrome della corsa verso un mitico centro che possa riequilibrare i rapporti all’interno della coalizione del centrodestra.
É il viaggio fantastico alla scoperta del nuovo El Dorado,
luogo leggendario dove starebbero nascoste le masse moderate in attesa di un David Livingstone voglioso di ritrovarle.
Nella realtà, l’intenzione di Brugnaro e compagni si riduce a una competizione tutta interna alla destra
nel tentativo di recuperare consensi approdati stabilmente sia nella Lega, sia in Fratelli d’Italia.
Ma non esiste alcuna Atlantide del moderatismo.
Morta la Democrazia Cristiana, il prorompere sulla scena del bipolarismo
ha prodotto negli italiani una mutazione antropologica nell’approccio ai codici comunicativi della politica.
Lo stare di qua o di là della linea di demarcazione tra due schieramenti plasticamente riconoscibili – la destra e la sinistra –
non è stato un fattore transitorio, congiunturale, come invece è stato l’abbaglio ottico del tripolarismo a seguito della comparsa del Cinque Stelle,
ma un elemento di trasformazione strutturale dell’ethos comunitario non reversibile mediante il ricorso ad anacronistici avventurismi.
La prova?
Chi per mestiere racconta o commenta i fatti della politica può esserne testimone.
C’è un’opinione pubblica che si esprime attraverso i canali social utilizzando linguaggi urticanti, talvolta ruvidi quando non sfrontatamente volgari.
Tocca proprio ai cronisti e agli opinionisti responsabili,
che non ammiccano alla violenza verbale per meschino tornaconto personale,
farsi carico del non facile compito di tenerli a bada attraverso un dialogo improntato al ragionamento e alla moderazione nella comunicazione.
La gente, brutto termine per indicare l’opinione pubblica,
sovente motivata dalle pessime condizioni in cui versa il Paese,
dalla drammatica crisi economica che, complice la pandemia,
continua a colpire soprattutto i più deboli e i meno difesi dallo Stato, non va per il sottile.
Di moderazione, e soprattutto di politica come arte del compromesso, non vuole sentire parlare.
Pretende piuttosto che i politici si esprimano con parole dure se necessario, ma che parlino linguaggi di verità e di coerenza.
Perché Giorgia Meloni cresce nei sondaggi?
La linearità della sua posizione le dà credito.
Quand’è che i leader (veri o fasulli) del centrodestra sono calati nei consensi?
Quando hanno cominciato a confondere le acque sul posizionamento in campo;
quando hanno promesso di stare da una parte e poi si sono buttati dall’altra.
È pura bizzarria credere che vi siano tanti italiani disponibili ad accordare fiducia a formazioni neo-centriste
le quali, soprattutto nel caso di una riforma in senso proporzionale della legge elettorale,
una volta approdate nel nuovo Parlamento siano pronte a darsi al migliore offerente, tra la destra e la sinistra.
Resta in piedi la questione del lascito liberale.
Spiace comunicarlo agli interessati ma anche su questo fronte arrivano in ritardo.
Fintantoché fosse stato in circolazione un Salvini iper-sovranista e anti-europeista,
una zona franca del pensiero liberale avrebbe avuto piena cittadinanza all’interno di una destra
egemonizzata da popolari, conservatori, populisti e sovranisti.
Ma la pandemia lo ha cambiato.
O meglio, ha dato la spallata decisiva a un processo evolutivo da tempo in atto nella Lega.
Il mondo dei media, malato di superficialismo, ha trascurato un evento significativo
sul quale avrebbe dovuto puntare i riflettori anziché prendere a irridere il leader leghista.
Era l’ottobre del 2020 quando si diffuse la notizia che Matteo Salvini
aveva avviato un dialogo sul liberalismo con il “maestro” Marcello Pera.
Era il segnale della svolta.
La Lega, abbandonando le barricate della resistenza ai poteri forti, all’eurocrazia e la lotta contro la moneta unica,
deviava in direzione del recepimento delle istanze liberali provenienti da una parte consistente del proprio blocco sociale di riferimento.
Il primo effetto del riposizionamento strategico: la ridefinizione della categoria concettuale, fino ad allora sostenuta, di “sovranismo”.
Il secondo: l’appoggio convinto a Mario Draghi, già banchiere centrale dell’Unione europea.
Specularmente, anche Fratelli d’Italia ha corretto la rotta.
Dal nazionalismo tout court si è riposizionato su visioni proprie del pensiero conservatore anglosassone.
La virata leghista ha convinto molti liberali a convergere su Salvini e, nel contempo,
ha silenziato la componente dell’anti-europeismo intransigente della sua constituency.
Pensate che i liberali, una volta accasati nel perimetro leghista, siano disposti a tornare sui propri passi
solo per il fatto che un pur bravo sindaco e un capace governatore di regione dicano loro: “Eccoci qua”?
Comunque, da sostenitori della libera impresa in libero mercato
non possiamo che guardare con curiosità a ciò che combineranno d’ora in avanti i “coraggiosi”,
nella consapevolezza che un insieme caotico di cespugli non facciano una foresta.
Riguardo a Forza Italia, dopo quest’ultimo scossone è bene che si dia una regolata e decida cosa essere da grande.
Che possibilmente non sia di somigliare alla sala d’aspetto di una stazione ferroviaria
con tanta gente in procinto di squagliarsela.
Valigie in mano e masserizie in spalla.