«Non avrei mai immaginato che questa foto, di me bambina, sarebbe diventata così significativa per molti
e riuscisse a raccogliere, in una piccola e semplice immagine, tanta storia di sofferenza e speranza».
Egea Huffner, ha oggi 79 anni ed è quella “bambina con la valigia” ritratta in una fotografia in bianco e nero
che è diventata simbolo dell’esodo delle popolazioni italiane costrette a lasciare tutto fuggendo dalla “pulizia etnica” messa in atto dai partigiani comunisti jugoslavi.
Sulla sua valigia, nella foto, si legge chiaramente “Esule Giuliana N. 30.001”. Una frase scritta da un suo zio.
L’aggettivo “giuliana” indica le popolazioni della Venezia Giulia, regione che ha sempre compreso anche l’Istria, quindi Pola.
Il numero, invece, indicava gli abitanti della città di Pola, per far comprendere l’enormità di un esodo che svuotò quasi totalmente la bella città istriana.
Gli occhi della bambina della fotografia guardano verso un orizzonte ignoto. La sua espressione è un misto di sgomento, timore e fierezza.
Ancora oggi, gli occhi di Egea Huffner raccontano quegli stessi sentimenti e vanno a scavare nella memoria pagine indelebili di una storia che è doveroso ricordare.
Signora Haffner, che ricordi ha dei suoi primi anni a Pola?
«Sono nata nel 1941, ero molto piccola, ciò che mi ricordo sono i volti e l’affetto dei miei genitori e dei miei parenti, la mia casa in via Sergia e il negozio di gioielleria della mia famiglia.
Ma ricordo bene anche l’atmosfera di quegli anni che sembrava per certi aspetti, agli occhi di una piccola bambina, quasi magica, rassicurante, piena di luce… Invece».
Invece, cosa accadde?
«Nella notte tra il 4 e il 5 maggio del 1945 suonarono alla porta due agenti della famigerata OZNA (i Servizi di sicurezza militari di Tito), volevano mio padre.
Lui chiese il motivo di questa irruzione a tarda notte, ma i due lo rasserenarono spiegando che era pura formalità, di non preoccuparsi inutilmente…
Lo prelevarono per portarlo al Comando titino e per chiedergli alcune informazioni.
Mio padre, ricordo, chiese se dovesse prendere con sé qualcosa, ma di nuovo lo rassicurarono, così uscì con il vestito che indossava,
fece appena in tempo a prendere in fretta una bella sciarpa e indossarla.
La sciarpa dopo alcuni giorni, i miei familiari, la videro al collo di un partigiano comunista… Da quella sera non seppi più nulla di mio padre. Avevo 3 anni e mezzo».
Suo padre era un fascista?
«No, non aveva mai avuto nessuna implicazione politica o carica istituzionale, era soltanto un piccolo gioielliere.
L’unica “colpa” che, pensiamo, possa aver provocato il suo arresto e il suo ingiustificato assassinio – oltre a quella di essere italiano –
può essere riconducibile ad alcune traduzioni che aveva svolto professionalmente per il comando tedesco.
La sua famiglia era di origine ungherese e lui sapeva parlare bene, oltre che l’ungherese e l’italiano, anche il tedesco».
Non avete avuto più notizie di lui?
«Crediamo che Kurt Haffnerr, mio padre, sia stato assassinato e infoibato lo stesso 5 maggio, in una voragine di Pisino.
Mia mamma, Ersilia Camerano, e i miei parenti, hanno cercato ogni tipo di informazioni su di lui, inutilmente.
Siamo, purtroppo, rimasti sempre nell’ordine delle ipotesi.
Tutti noi non ci davamo pace e speravano che fosse prigioniero in qualche campo di concentramento titino.
Per diversi anni, tutte le sere, mia nonna ha messo da parte ogni sera un po’ di pane, preparandogli in un certo senso la cena, aspettando e sperando che facesse ritorno… inutilmente».
Cosa avete fatto dopo aver maturato la consapevolezza della morte di suo padre?
«Per noi italiani, la situazione peggiorava di giorno in giorno.
Ben presto ci rendemmo conto che se non volevamo correre pericoli, dovevamo lasciare la nostra terra.
Sentivamo ogni giorno di persone che scomparivano senza lasciar traccia e questo faceva molta paura…
bastava essere italiani e non essere comunisti, per avere guai molto seri.
Con il dolore nel cuore, anche noi insieme a più di 30.000 concittadini, siamo quindi dovuti andar via da Pola.
Tutti coloro che se ne andavano scattavano delle ultime foto per ricordo; chi davanti casa, chi davanti al luogo di lavoro o a monumenti caratteristici della città, come l’antica arena romana».
Così è nata l’ormai celebre foto che la ritrae con la valigia, che oggi è una specie di manifesto ufficiale del Giorno del Ricordo…
«Esattamente. Fu la sorella di mio padre a farmi i boccoli e a confezionarmi un vestitino di seta, mi misero in mano un ombrellino e la mia valigia, con su scritto “Esule Giuliana”.
In quella foto, che sembra aver fermato il tempo, sono diventata l’esule giuliana n. 30.001.
Un numero inventato, ma carico di significato, perché lo scrisse mio zio Alfonso per indicare il numero degli abitanti di Pola e sottolineare come la città, si fosse svuotata con l’esodo degli italiani».
Dove andò la bambina con la valigia?
«Pochi giorni dopo quella foto, che porta sul retro la data del 6 luglio 1946, partimmo per la Sardegna, dove viveva una sorella di mia madre.
Fu un periodo veramente difficile, sentivo molto la mancanza del mio papà e avevo la consapevolezza dei problemi che stava vivendo la mia famiglia.
Dopo otto mesi, mia madre mi affidò alla nonna e agli zii paterni a Bolzano a causa delle ristrettezze economiche in cui la mia famiglia fu costretta a vivere.
Ma grazie ad un bravissimo sacerdote, don Felice Odorizzi, sapendo bene il tedesco (che parlavamo quotidianamente anche a casa) riuscii ad entrare all’ENPAS.
Qualche anno dopo, ho incontrato quello che sarebbe diventato mio marito, nel 1966 ci siamo sposati e trasferiti,
in un primo tempo a Milano e successivamente a Rovereto, dove attualmente vivo».
Come è diventata un simbolo del Giorno del Ricordo, la sua foto da bambina?
«La foto la trovammo nei cassetti di famiglia quando il Museo della Guerra di Rovereto, nel 1997, allestì una mostra per il 50.mo dell’esodo degli Istriano-dalmati.
Dopo anni di oblio, qualcosa si stava muovendo e uscivamo alla luce del sole.
Ogni esule, portò ciò che aveva come ricordo della nostra terra, io portai la mia foto di piccola orfana, dove c’era sintetizzata tutta la mia storia e la tragedia di tanti italiani.
Anche se non tutto il mio sangue è italiano, io sono e mi sento pienamente italiana».
Come è nata la vicenda che ha affiancato il suo nome a quello di Liliana Segre?
«Nasce dal voler dare un riconoscimento a tutte e due, forse per non far torto più che altro a parti politiche contrapposte.
Ho rifiutato, pur nel massimo rispetto della senatrice Segre, ho ritenuto opportuno non farmi strumentalizzare.
Non amo le contrapposizioni della memoria dove alcuni politici vorrebbero condurci.
Le tragedie provocate dalle guerre, generano ferite difficili da rimarginare, bisognerebbe avere più cura nel maneggiare la memoria di certi eventi,
bisognerebbe che la politica facesse due passi indietro di fronte alle commemorazioni, affinché si arrivasse con la volontà di ritrovare la pace comune, che anche tutti i caduti di quel tempo meritano».
Adesso, quali sono i suoi progetti?
«Partecipo a molte conferenze e vengo chiamata in diverse scuole a parlare di ciò che ho vissuto
e della tragedia di più di 350.000 italiani costretti ad andar via dalle terre di Istria e Dalmazia.
Parlo anche di chi, in quelle terre è stato ucciso nelle foibe, oppure gettato legato nel mare e in tanti altri modi, avendo come unica colpa l’essere italiano.
Qualche giorno fa, ho fatto personalmente la posa della prima pietra del museo a me dedicato a Fertilia (Alghero), il “Museo Egea”.
Il Museo, costruito in un bene messo a disposizione dalla Regione, sarà terminato per settembre e, attraverso un percorso multimediale ricco di documenti e testimonianze,
farà conoscere sia la storia della “città di fondazione” Fertilia, sia quella dell’esodo giuliano-dalmata.
Un progetto molto bello, che darà modo alle giovani generazioni di conoscere la verità contro la cultura dell’odio e della mistificazione che ha contribuito per decenni ad occultarla».
«Sì come ad Arli, ove Rodano stagna,
sì com’ a Pola, presso del Carnaro,
ch’Italia chiude e suoi termini bagna»
(Dante Alighieri, Divina Commedia, Inferno, canto IX, vv. 112-114)