Ormai siamo alle
liste di proscrizione.
Alle presunte indagini del Copasir su influencer, opinionisti e giornalisti accusati di “putinismo”.
Al punto in cui il Corriere pubblica foto segnaletiche dei colpevoli come manco nei peggiori bar de Caracas.
Come la pensiamo, lo sapete: non si possono combattere Putin e la sua autocrazia comportandosi peggio di lui.
La grande differenza tra “noi” democratici liberali e “loro” è proprio la capacità di sopportare,
difendere e al massimo criticare il dissenso.
L’opinione delle minoranze va tutelata.
Anche quelle che avanzano le più strampalate delle teorie.
Ci siamo sempre opposti alla denigrazione dei “no vax” e dei “no pass”
e lo facevamo, in netta minoranza, per difendere il principio secondo cui
in ambito sanitario, sociale e politico non esiste un dogma unico e indivisibile.
Il dibattito è il sale delle democrazie.
Allo stesso modo, difendiamo pure il diritto dei presunti “putiniani” di criticare Di Maio,
di redarguire Mario Draghi, di opporsi all’invio di armi in Ucraina.
Ma soprattutto, ribadiamo da tempo la necessità di non trasformare questa guerra in un atto di fede incrollabile.
Non c’è bisogno di spiegarvi chi è l’aggredito e chi l’aggressore.
Però da qui a buttare tutto in una tifoseria ce ne passa.
Le domande vanno poste, come ha fatto Toni Capuozzo su Bucha.
Occorre interrogarsi sul ruolo della Nato,
sugli errori di Kiev,
su quanto avremmo potuto fare per evitare l’inizio della cosiddetta “operazione speciale”.
E cosa stiamo facendo (o non facendo) per arrivare alla pace.
Si chiama spirito critico.
Quello che permette ad un essere pensante di porsi delle domande sull’utilità o meno delle sanzioni,
sulla logica di definire “animale” il presidente russo,
sull’opportunità di cercare a tutti i costi un “regime change” a Mosca o “l’umiliazione” di Putin.
Quello spirito critico, insomma, che ogni tanto bisognerebbe attivare
per leggere tra le righe delle notizie che arrivano non solo dal Cremlino,
ma anche da Kiev, che ha fatto sin dall’inizio uso sapiente della propaganda.
Ecco perché non ci piacciono le liste di proscrizione.
Perché a forza di affibbiare l’etichetta di “putinisti”
a chiunque non segua il tracciato della narrazione “corretta” sul conflitto,
si rischia di accusare di intelligenza col nemico la qualunque.
A sprezzo del ridicolo.
Ci è successo un mesetto abbondante fa.
Un istituto americano
ci aveva inserito all’interno di un report sulla disinformazione putiniana
accusandoci di
mettere “in dubbio la narrativa mainstream sulle atrocità di Bucha”.
Peccato avessimo solo riportato una notizia fresca fresca – ignorata da molti altri -,
ovvero la dichiarazione da parte di Rosemary DiCarlo, sottosegretario generale delle Nazioni Unite,
il quale riferiva di “denunce di violenza sessuale da parte delle forze ucraine”.
Era una fake news? No.
Eppure è bastato mettere in dubbio la moralità dei soldati ucraini per finire in quella sorta di elenco dei cattivoni.