SOLITAMENTE SEGUO UNO SCHEMA:

L’Italia è da settantacinque anni un Paese satellite del sistema politico statunitense.

Ma, con l’indebolimento del potere economico americano e la caduta del sistema politico tradizionale (dal 1992 ad oggi),
pian pianino il Belpaese è finito sotto l’egida degli investimenti cinesi: sappiamo che questi ultimi detengono più del cinquanta per cento del debito pubblico Usa.

Questa condizione di doppia dipendenza, politica dall’Occidente tradizionale ed economica dall’Oriente,
ha generato una classe politica capace di vivere abilmente alla giornata e, soprattutto, poco convinta delle proprie idee.


Il fenomeno del vivere alla giornata era già emerso nei governi di centrodestra e centrosinistra della Seconda Repubblica (negli anni ‘90)
ma oggi ha toccato il suo acme con la prassi amministrativa targata 5 stelle.

Ne deriva che il potere non risiede più nelle aule parlamentari né in Regioni ed enti locali vari,
ma in soggetti esterni al momento democratico (aule e ministeri) ma capaci d’esercitare azione coercitiva sul premier e sull’esecutivo tutto.

Questi soggetti esterni alla politica, ma ben radicati in banche (assicurazioni, società multinazionali di certificazione, sicurezza varia) e gruppi di pressione,
sono il regolatore dei rapporti anche tra magistratura (vedasi sentenze pilotate nei Tar, Consigli di Stato e tribunali vari) e governo:
affermazione gravissima, e lo scrivente se ne assume tutte le responsabilità.



Ne deriva che il Paese è totalmente bloccato, che l’amministrazione non muove passo se non su impulso di quel nugolo di soggetti esterni al sistema democratico.

Questa situazione, sconveniente per la maggior parte degli italiani, dà i suoi benefici al governo Conte.

Infatti, la poltrona del premier è stabile per via del fatto che, al momento, Usa e Cina lo considerano loro arbitro.

Ma anche perché a nessun partito politico italiano pare oggi convenga andare ad elezioni, rischiando di vincere e poi caricarsi sulle spalle una nazione fallita,
i cui patrimoni sono ormai nella lista della spesa consegnata a Vittorio Colao dai grandi investitori tedeschi e olandesi.

Non conviene a Silvio Berlusconi che Conte vada a casa, e perché deve ancora perfezionare (e come lui altri ultimi grandi imprenditori) la fuga delle sue aziende in Europa,
sotto l’egida d’una legislazione probabilmente olandese, seguendo il sentiero tracciato anni fa dalla Fiat.

Ne deriva che Conte oggi ha dalla sua l’intero Palazzo, Matteo Renzi lo supporta internamente e Berlusconi esternamente,
mentre Lega e Fratelli d’Italia fanno solo rumore per fingersi opposizione.

Berlusconi è di fatto l’ago della bilancia d’una opposizione consensuale, anche detta “responsabile”.

Questo perché è stato rinnovato tra Forza Italia e Pd il “patto del Nazareno”,
e sappiamo bene quanto quest’architettura sia tenuta in piedi da Gianni Letta e Goffredo Bettini.


Questo stato di stallo economico-amministrativo conviene al potere (sia esterno che interno al palazzo)
e potrà mutare solo in funzione degli equilibri internazionali: per esempio, se dovesse essere confermato Donald Trump alla Casa Bianca
verrebbe ridotta l’influenza cinese e Conte dovrebbe cambiare strategia.


Diversamente, se le elezioni Usa venissero vinte da Joe Biden, la linea Conte verrebbe protetta sino al 2023, e con eventuale proroga:
in questo secondo caso verrebbe anche accelerata la cessione d’ingenti patrimoni italiani ai gruppi tedeschi e olandesi,
nonché l’entrata della proprietà cinese in cinque porti italiani (il porto di Genova è già cinesizzato) e nel sistema autostradale
.

E i problemi del popolo, della gente comune?

Sfatiamo la leggenda che in Parlamento si preoccupino dei soliti problemi di chi ha perso il lavoro o di chi chiude l’attività.

Di fatto chi ha responsabilità di governo spera in un lockdown che duri almeno un decennio, se non per sempre.


L’Italia bloccata conviene a chi deve organizzare la grande svendita (governo ed alta dirigenza).

Del resto il Paese era già economicamente bloccato anche prima dell’arrivo del Coronavirus: era bloccato l’ascensore sociale, bloccato il credito,
bloccati permessi e autorizzazioni varie, erano bloccati gli appalti, erano bloccate le assunzioni nel pubblico e nel privato.

Il Covid-19 ha solo aperto gli occhi ai più, facendo emergere come questa situazione di blocco preconizzi la morte d’una società, d’una civiltà.

Ed è naturale che Conte debba mantenere il punto, confermando lo stato d’emergenza (col suo carico di decreti e leggi speciali) sino a fine 2020.
Anzi è presumibile che stato d’emergenza e lockdown vengano applicati anche nel 2021 ed oltre.


E perché il premier è stato allertato dai servizi di sicurezza circa l’intolleranza di circa dieci milioni d’italiani al blocco delle attività economiche ed amministrative.

Rammentiamo che lo Smart working degli uffici pubblici ha bloccato più del settanta per cento degli atti amministrativi,
congelando tra illegalità ed abusivismo la metà delle attività artigianali, agricole, commerciali ed ambulanti in attesa di rinnovi ed autorizzazioni.


In pratica milioni di lavoratori che vorrebbero mettersi in regola, ma sono costretti a vivere abusivamente per colpa degli uffici chiusi
e degli iter burocratici computerizzati (tipici dello Smart working).

Di questo loro stato d’illegalità ne approfittano le ormai potentissime “polizie locali” (gli ex vigili urbani)
che quotidianamente verbalizzano per milioni d’euro e denunciano, in qualche caso anche arrestano:
così diventano pregiudicati gran parte di artigiani, commercianti, contadini, allevatori.

Una situazione che non interessa granché a Conte, che anzi deve scongiurare che l’Italia riprenda a produrre.


Perché l’aumento del prodotto interno lordo significherebbe ricchezza disponibile, certezza che vengano liquidati i mille miliardi di debiti che l’Italia ha con gli investitori esteri.

Invece il blocco economico garantisce che il sistema Italia non riesca a far fronte alle pressioni dei creditori esteri
che, ob torto collo, si vedranno costretti ad accettare in pagamento beni come asset di grandi aziende pubbliche e patrimoni immobiliari ed artistici.


Quindi abbiamo capito come al potere convenga il lockdown, e che Conte è la migliore garanzia per mantenere in stallo l’Italia.

Ovviamente quei dieci milioni d’italiani che non ci stanno potrebbero insorgere, mobilitarsi,
a loro ha risposto una settimana fa il prefetto Luciana Lamorgese (ministra dell’Interno)
affermando che le forze di polizia sarebbero già pronte ad affrontare il popolo nelle piazze.


Particolare non secondario è che oggi la situazione politica è diversa dal G8 genovese del 2001:

se venti anni fa il sistema condannava le violenze in danno dei no-global,
oggi per eventuali rivoltosi uccisi nelle piazze dalla polizia non si leverebbe alcuna solidarietà da parte della politica.

Lo ha ammesso la capogruppo di Forza Italia Mariastella Gelmini che, dando solidarietà alla Lamorgese,
ha chiarito che Fi è col Palazzo e non col popolo in rivolta.


E se i beni pubblici verranno ceduti in pagamento dei debiti,
per i privati dal 2021 scatterà la cessione dei crediti (contenzioso Agenzia delle entrate) al sistema europeo:

i pignoramenti europei saranno inesorabilmente eseguiti in osservanza ad Eurojust e con gli apparati di guardia di finanza di Europol.

Necessita non avere debiti, ridurre ogni esposizione, avere la forza e le scorte per superare un lunghissimo inverno.

Saranno tante le razzie prima che si ristabilizzi la pace finanziaria, e che Usa e Cina ridisegnino i propri confini, anche iniziando un lungo periodo di “Guerra fredda”.
 
Tutto parte dal Rapporto Cecchini , nato negli anni 80 , che potete leggere per intero a questo link,
nel quale la Commissione Delors fece preparare un rapporto, il “Rapporto Cecchini” appunto,
nel quale si quantificavano i costi della mancata unione degli stati.

All’epoca di Delors però i presupposti politici non c’erano ancora, ma sorsero con l’unificazione della Germania.

La sua unione fu accettata dalla Francia solo in ambio della rinuncia da parte di Bonn al Marco.

Tutto questo fu fatto con il famoso Trattato di Maastricht.

A quel punto il Rapporto Cecchini venne messo in atto.


Ora sta accadendo lo stesso: il “Recovery fund” per l’Europa “Verde” e “Digitale”;
tutta fuffa senza una base economica o fattuale, era già pronto.

Non si tratta altro che i soliti fondi europei, molto indirizzati, che in passato non hanno cambiato proprio nulla per l’Italia.

Chi ne decanta i “Vantaggi” non sa cosa dice.

Lo stesso si può dire per il MES, il cui risparmio è puramente teorico e basato su speculazione sull’andamento dei tassi futuri.
 
In pochi sono a conoscenza che il supporto scientifico su cui si basò la “convenienza” o meno
di creare un mercato comune a presupposto di una moneta unica, secondo l’assioma “one market, one money ”,
verteva su uno studio a tutt’oggi semisconosciuto: il “Rapporto Cecchini”.


Alla fine degli anni ‘80 era opinione comune in Europa che l’integrazione avrebbe fatto ciò che non si era riusciti a fare in modo autonomo
e la “svolta” di forte aggregazione sarebbe stata la miglior scelta possibile per raggiungere l’obiettivo.

In quel periodo la Commissione Europea era guidata da Jacques Delors, un fedelissimo del Presidente francese
da sempre nelle file del partito socialista e presente in diversi ruoli di primo piano nei governi nazionali precedenti guidati dallo stesso Mitterrand,
consentendogli di svolgere un ruolo chiave in questo contesto storico che aveva affidato allo strumento dell’integrazione europea
il mezzo per “disinnescare” il pericolo della riunificazione tedesca.


Delors, Presidente della Commissione per ben tre volte dall’85 al ’95, fu incaricato subito di rendere attuabile e realizzabile questa grandissima ambizione:
un comitato creato ad hoc avrebbe dovuto delineare un progetto concreto e fattibile per facilitare il raggiungimento dell’obiettivo di integrazione.


Il “Rapporto Delors”, così come passerà alla storia, redatto a conclusione dei lavori del
“Comitato per lo studio dell’unione economica e monetaria delle Comunità europee”, con relatori Gunter D. Baer e Tommaso Padoa-Schioppa,
si prefiggeva, su indicazione del Consiglio europeo di Hannover del 27-28 giugno del 1988, di elaborare un progetto concreto per la realizzazione dell’Unione economica e monetaria.

Il Rapporto fu presentato ufficialmente al Consiglio dei ministri dell’economia e delle finanze svoltosi a Madrid il 28 e 29 giugno del 1989,
individuando in tre fasi la tabella di marcia per la realizzazione dell’Unione.



A svolgere un ruolo cruciale e determinante nel rullino di marcia in tutta la vicenda che ci ha portato alla moneta unica,
fu chiamato un italiano ai più sconosciuto, un economista perugino “emigrato” a Bruxelles molti anni prima, Paolo Cecchini, approdato alla Commissione Europea nella “quota” italiana.

Cecchini era stato assunto direttamente dalla Commissione come economista riuscendo, per le sue indubbie capacità,
a fare una brillante carriera fino a raggiungere, nell’anno delle sue dimissioni avvenute nel 1986, la carica di direttore aggiunto per il mercato interno e gli affari industriali.


L’economista italiano ebbe mandato proprio nell’86, in qualità ormai di consulente, direttamente dal Presidente della Commissione Europea Jacques Delors,
di redigere un dettagliato rapporto tecnico finalizzato all’individuazione dei costi che i paesi erano costretti a sopportare ancora per la non integrazione con gli altri stati europei.

Ne scaturì, dopo quasi due anni di lavoro, un rapporto dal nome “1992: La sfida Europea”, più comunemente chiamato “Rapporto Cecchini”,
sui vantaggi del mercato unico europeo e inserito a supporto scientifico nel citato “Rapporto Delors”.


La Commissione aveva affidato, al gruppo di lavoro guidato da Cecchini, uno studio comparato sui vantaggi che si sarebbero ottenuti
a seguito della liberalizzazione dei mercati e sui benefici persi dalla “non-Europa” a causa del persistere delle barriere alla libera circolazione intracomunitaria dei fattori produttivi.

Essenzialmente il rapporto dimostrò che la costruzione di un mercato unico europeo, ponendosi il limite temporale il 1992,
avrebbe consentito un aumento medio del prodotto interno lordo del 4,5%, una diminuzione dei prezzi del 6% e la creazione di due milioni di nuovi posti di lavoro.



Questi vantaggi sarebbero stati ulteriormente incrementati se si fossero adottate misure di politica economica
in grado di sfruttare pienamente il nuovo potenziale di sviluppo offerto dal mercato unico europeo;
in questo caso il prodotto interno lordo sarebbe potuto aumentare fino al 7% e l’occupazione crescere fino a cinque milioni di nuovi posti di lavoro
(ricordiamo che allora l’area europea era più circoscritta dell’attuale e essenzialmente comprendeva 12 degli attuali 27 paesi).


Il rapporto evidenziava anche come la non realizzazione del mercato unico sarebbe continuata a costare centinaia di migliaia di miliardi di lire ai cittadini europei
sotto forma di spese superflue e di occasioni mancate.

Inoltre individuava anche costi elevati sopportati a causa dei controlli doganali che frammentavano l’economia europea in dodici mercati nazionali
e se rimossi avrebbero prodotto un maggiore sviluppo economico, creazione di nuovi posti di lavoro,
possibilità per le imprese di migliorare la produttività e la redditività, maggiore mobilità dei fattori produttivi,
stabilità dei prezzi e una maggiore libertà di scelta per il consumatore.


Cecchini non mancava di entrare in particolari, come ad esempio il costo diretto delle formalità doganali ed i costi amministrativi da essi derivanti,
per il settore pubblico e privato, valutato in circa l’1,8% del valore dei beni commercializzati nella Comunità a cui si dovevano aggiungere
quelli sopportati dall’industria per effetto di altre barriere, come quella per la non armonizzazione delle regolamentazioni tecniche
valutabili nell’ordine del 2% dei costi industriali complessivi.

In totale questi costi, che segmentavano il mercato europeo, erano pari a circa il 3,5% del valore aggiunto industriale comunitario.


Ancora più evidenti sarebbero stati i vantaggi per i cittadini garantiti dall’unificazione del mercato europeo
come per le imprese nel settore dei servizi sottoposte a regolamentazioni, che ne limitavano il raggio d’azione alla dimensione nazionale.

Queste avrebbero potuto beneficiare di maggiori riduzioni percentuali dei costi e dei prezzi, come nel caso
delle imprese operanti per soddisfare la domanda pubblica nella produzione dell’energia elettrica, nei trasporti, nel settore dei servizi, ecc.
senza dimenticare le imprese finanziarie, che si sarebbero avvantaggiate finalmente di dimensioni più ampie per l’accesso facilitato a mercati e capitali internazionali
con ricadute positive in termini di competitività.

Per tutte le imprese pertanto la creazione del mercato unico avrebbe consentito riduzioni di costi medi pari almeno al 10-12%
e in alcuni settori specifici anche con percentuali più ampie, dispensando sicuri vantaggi per tutta la comunità.


Il rapporto voleva dimostrare, almeno nelle intenzioni del suo ideatore, come le economie nazionali celassero delle enormi potenzialità inespresse
e non ancora sfruttate a causa dalle barriere che incontravano per non appartenere ancora a un mercato unico europeo
e che invece avrebbe consentito benefici in termini di concentrazioni, razionalizzazioni produttive,
maggiori livelli d’efficienza e specializzazioni con una più avanzata qualificazione del lavoro.


La stima fatta dal rapporto evidenziava che circa un terzo delle imprese europee avrebbe potuto ottenere migliori economie di scala
e quindi sostanziali riduzioni dei costi di produzione quantificabili fra l’1 e il 7% e questa opportunità avrebbe nel suo insieme
consentito al sistema economico europeo un aumento fra il 4 e il 7% del prodotto lordo interno.

L’impatto della creazione del mercato unico europeo avrebbe ulteriormente innalzato queste stime
in quanto erano difficilmente valutabili nel medio-lungo periodo alcuni vantaggi che l’unificazione sarebbe stata destinata a produrre nel tempo,
per la diffusione dell’innovazione, lo sviluppo della concorrenza, la diffusione fra le imprese di strategie di internazionalizzazione,
la nascita di società europee, l’integrazione del sistema finanziario rendendolo più solido ecc.


Ma il rapporto non finiva qui e Cecchini giungeva all’individuazione del costo della “non-Europa” che avrebbe gravato
per il controvalore di circa 2 milioni di lire pro capite annuo per ogni cittadino europeo e che i benefici apportati dalla costruzione del mercato unico,
sarebbero stati in grado di contribuire in modo decisivo alla soluzione dei maggiori problemi dell’economia europea, primo fra tutti quello della disoccupazione.


Condizione essenziale per produrre questi effetti benefici, era l’indispensabilità di garantire all’interno del mercato comune stabilità
attraverso la costruzione di una vera unione monetaria per mezzo con il contributo di una banca centrale europea
per superare i limiti dell’ormai obsoleto Sistema Monetario Europeo (SME).


Tutto questo avrebbe prodotto un clima diffuso di fiducia condiviso fra tutti gli operatori, imprenditori e cittadini europei,
i quali scommettevano da tempo sulla validità del progetto di integrazione europea che si sarebbe realizzata con la creazione dell’Unione europea,
da cui dipendeva l’inizio di un nuovo ciclo di lungo periodo per lo sviluppo dell’economia e della società civile.


Il 1992, sempre nelle intensioni di Cecchini, doveva segnare una tappa miliare nel processo di integrazione in Europa
per rompere la stagnazione in cui era precipitata l’Europa fin dall’inizio degli anni ’70 e da cui non era riuscita totalmente a risollevarsi.

I benefici si sarebbero presto manifestati se si fosse accelerato sempre più il trasferimento dei poteri nazionali verso quelli europei.


Lo studio concludeva con la stima che gli Stati componenti la CEE pagavano un costo complessivo di non-Europa pari a 200 miliardi di ECU
(Unità di Conto Europea, valuta virtuale considerata il papà dell’attuale euro il quale prese il suo posto nel 1999).

Crediamo obiettivamente che, dopo una attenta lettura della sintesi a cui giungeva il Rapporto Cecchini sugli enormi vantaggi se si fosse proceduto all’integrazione europea,
molti si siano domandati se le conclusioni portate a supporto della validità del progetto (Cecchini non ce ne voglia), fossero basate su fattori al di fuori della realtà.


La metodologia adottata e applicata per giungere a predette considerazioni aveva previsto interviste a circa 10.000 testimoni qualificati,
quali imprese (divise fra grandi e piccole e di diversi settori merceologici) e le associazioni sindacali delle imprese stesse e dei lavoratori.

In queste interviste si chiedevano essenzialmente le aspettative riguardo al processo d’integrazione
e i benefici attesi in ragione delle maggiori opportunità che si sarebbero sicuramente create.


Inoltre il rapporto si basava su analisi economico-industriale sugli effetti del mercato unico nei singoli settori produttivi
per stimare i minori costi produttivi favoriti dall’integrazione economica, non tralasciando di valutare quale impatto avrebbe avuto
l’economia di ciascun paese in modo da stimare i benefici della partecipazione a un mercato unico.


In ogni caso non vi erano indicazioni sulla distribuzione dei costi e benefici a livello territoriale e a livello di beneficiari fra imprese e cittadini
e le previsioni quantitative erano molto aleatorie ed opinabili, così come valutato dall’economista Loukas Tsoukalis dell’Università di Atene,
il quale ha recentemente sostenuto che il Rapporto “1992:Il costo della non Europa”, aveva un margine d’errore superiore al 30%.


Nella realtà, le valutazioni a cui giunse il rapporto dovette fare i conti con alcune condizioni economiche difficilmente misurabili
e che inevitabilmente hanno inficiato il risultato finale, come la mancanza di certe condizioni che hanno fortemente sovrastimato le valutazioni economiche a cui giunse Cecchini,
in relazione all’esistenza, non considerata sufficientemente, di una forte mobilità dei fattori produttivi, in particolar modo del lavoro.


Infatti, la maggior concorrenza che si sarebbe creata da un mercato unico avrebbe comportato vantaggi e svantaggi a carico delle imprese
permettendo che per le imprese più efficienti ed innovative vi sarebbero stati aumenti in termini di produzione e occupazione,
mentre sicuramente disagi, cioè riduzione della produzione e eventualmente fallimento, per quelle inefficienti.


I costi di aggiustamento emersi in questo processo si sarebbero ridotti, e quindi resi accettabili dal punto di vista sociale,
solo nel caso in cui le risorse produttive si riallocavano liberamente all’interno della grande nuova area economica,
praticamente solo se i lavoratori rimasti senza lavoro fossero riusciti con facilità e velocità a essere riassorbiti da un’altra impresa
e non necessariamente nella stessa regione o nello stesso comparto produttivo.


La mancanza di mobilità e flessibilità del fattore lavoro, che come abbiamo visto rappresenta il tallone d’Achille di tutte le aree monetarie non ottimali,
non ha compensato la mobilità del fattore capitale determinato e favorito dalla liberalizzazione del mercato finanziario.


Ma il vero punto debole, evidenziato dallo stesso Cecchini, era che la realizzazione del mercato unico doveva essere accompagnata
da un ciclo espansivo particolarmente vigoroso dell’economia, poiché solo con questo presupposto i vantaggi del mercato
sarebbero stati elevati riuscendo a assorbire gli shock asimmetrici determinati dall’integrazione fra diversi livelli di efficienza produttiva.


Inoltre Cecchini ignorava quali sarebbero stati i parametri presi a fondamento della convergenza monetaria, poi definiti da Maastricht,
e non poteva pertanto supporre gli ulteriori effetti perversi negativi che si sarebbero ulteriormente innescati a discapito delle economie in caso di stagnazione e di recessione.


Non poteva sapere che il meccanismo di Maastricht sarebbe stato concepito in modo tale che, anche nel corso di cicli economici negativi,
i parametri macroeconomici previsti sarebbero dovuti essere comunque e in ogni caso soddisfatti, senza la possibilità di moratorie previste e codificate
per evitare che non si riversassero gli oneri derivanti essenzialmente sul ricorso fiscale essendo ormai preclusa ogni forma di monetizzazione anche parziale del debito.



Inoltre il rapporto non considerava che la creazione di una enorme area economica con la condivisione di una stessa moneta,
avrebbe attirato investitori esteri in zone con migliori infrastrutture e efficienza amministrativa e fiscale a discapito delle periferiche
e che questo avrebbe ulteriormente creato zone più ricche e zone più povere in mancanza di una effettiva politica di ridistribuzione e trasferimento di risorse.


Infine, il rapporto Cecchini non è riuscito a intercettare i fattori dell’evoluzione delle economie nei paesi dell’Est europeo,
riunificazione della Germania compresa, che si sono invece rapidamente aggregate al mercato comune
modificando sensibilmente i rapporti di forza precedentemente presi in considerazione.


In ultima analisi possiamo tranquillamente affermare che sarebbe stato praticamente impossibile quantificare il costo effettivo della cosiddetta “non-Europa”,
cioè i costi sostenuti per non aver ancora compiuto il mercato unico con la condivisione di una stessa moneta e quel valore indicato in 200 Mld di ECU
è da ritenersi solamente un numero aleatorio non rappresentativo, essendo il Rapporto Cecchini
da inquadrarsi nella prassi consolidata di commissionare lavori di consulenza esterna per dimostrare quel che si vuole dimostrare dall’interno.


Questo rapporto, comunque inserito dalla Commissione Delors come base scientifica a dimostrazione della convenienza
della creazione di una grande area economica, ha determinato come colonna portante tutta la costruzione della moneta unica!


Il costo sostenuto dalla non-Europa, valutata in 200 Mld di ECU, presa a riferimento per i vantaggi dell’integrazione,
sarebbe una cifra oggi risibile anche se si procedesse a una sua attualizzazione rispetto agli enormi svantaggi e costi
che tutti i paesi europei hanno dovuto sostenere, e che dovranno inevitabilmente sostenere,
invece per permanere in questa “gabbia” valutaria che non consente più autonome iniziative di politica economica.


Se oggi dovesse essere redatto un analogo rapporto al fine di verificare invece i costi sostenuti dai paesi dell’Europa per l’appartenenza all’area valutaria comune,
inserendo non solo numeri riconducibili esclusivamente all’economia e alla finanza, si giungerebbe senza ombra di dubbio alcuno,
a conclusioni diametralmente opposte a quelle redatte da Cecchini.


Ci riferiamo ai pesantissimi costi che quasi tutte le popolazioni del Continente europeo
hanno dovuto subire sulla propria pelle in termini sociali e mortificazioni in termine di crescita,
non minimamente previsti e contemplati da chi ci ha legato a questo nuovo ordine,
nato per innalzare il livello del modello fino allora raggiunto e non per peggiorarlo sensibilmente.


Pensiamo a quei 200Mld di Ecu/Euro, letteralmente invece bruciati ogni anno, non dall’Europa ma dal solo “sistema Italia”,
costretta ormai a boccheggiare perché non più supportata da nessun accesso al credito e a condizioni che non la mettono più in situazioni di competitività,
per l’esserci affidati a questo tipo di modello di aggregazione.


Così ci era stata magnificamente prospettata l’integrazione Europea e non per costruire un sistema che avrebbe finito
per non garantire assistenza e ausilio se non esclusivamente alle banche e alle istituzioni finanziarie a totale danno dei singoli cittadini europei
e del settore produttivo e che avrebbe estraniato progressivamente le popolazioni dai propri diritti costituzionali al fine di per rendere sostenibile la moneta unica.


Lo stesso povero e in buona fede Cecchini non avrebbe mai minimamente pensato che il suo lavoro invece
avrebbe contribuito in modo determinante a realizzare questo disegno e siamo sicuri che se l’avesse intuito preventivamente avrebbe certamente rimesso il mandato!
 
Next Generation EU, l’insieme di Fondi contro il cambiamento climatico e per la digitalizzazione
che, con il bilancio pluriennale, verrebbe a muovere 2 miliardi di euro in 7 anni.

Cira 300 miliardi all’anno per tutta la UE.

Una cifra molto grande, ma non assoluta e soprattutto, come sottolineano tutti quelli che conoscono il problema e lo affrontano in modo serio,
strettamente vincolata a certe specifiche finalità



Ecco le principali posizioni che si affronteranno in questo Consiglio dell’Unione:


  • i grandi paesi, Germania e Francia in testa, che lo vogliono con la finalità di riconvertire le proprie economie e sistemi energetici .

  • Al loro fianco la Polonia, che così eliminerebbe il carbone e farebbe dei forti investimenti industriali;

  • gli “Illusi”, Italia, Spagna, Portogallo e Grecia, che sperano di riuscire a finanziarci i propri deficit
  • per rilanciare le proprie economia utilizzando questo tipo di fondi.
  • Illusi perchè i fondi, qualsiasi siano, sono fortemente finalizzati ed alcune economie come quella italiana, difficilmente avranno dei vantaggi;

  • i “Rapaci”, cioè i paesi dell’est, dai Baltici all’Ungheria e tutto il blocco di Visegrad,
  • che vedono nel fondo l’ennesimo strumento per fare spesa pubblica alle spese degli altri;

  • gli “Austeri” cioè i Paesi nordici l’Austria, ma anche una parte dell’opinione pubblica tedesca,
  • che vede nel Recovery fund l’ennesima distribuzione di soldi alle spese dei propri cittadini.

Ora mettetevi nei panni di un politico olandese come Rutte:

il suo paese è il maggior contributore pro capite,
avete le elezioni il prossimo marzo con due forti partiti identitari in crescita e con buone possibilità di crescere ulteriormente.
Il vostro teorico maggior alleato, la Germania, ha deciso un fondo che per voi è poco comprensibile
e di cui non vi potrete approvvigionare molto, almeno nella prima fase, dato che solo il 12% delle vostre fonti energetihe dipende dal carbone.
Dovete convincere i vostri concittadini a dare più soldi ad altri di cui non si fidano, come noi non ci fidiamo di loro, dopo i trucchetti fiscali.

Come vi comportereste voi ?



Ecco perchè l’inutile Recovery Fund, fatto ad uso e consumo franco- germanico, scontenterà tutti
e rischia di portare ad una rottura epocale e forse finale nell’Unione:

se la decisione fosse presa a maggioranza (15 paesi su 27) potete capire quale spinta le forze identitarie dei paesi contrari verrebbero a ricevere.

Nexit ed Austrexit tornerebbero al’ordine del giorno.

Però che interessa del popolo alla UE ?
 
Discorsi di verità

Specialmente quando si parla di economia, parecchi commentatori amano atteggiarsi a “saggi e responsabili”
e non trovano quindi di meglio che affermare e ribadire che occorre “fare un discorso di verità agli italiani”.


Le “verità” sarebbero, naturalmente, le solite fandonie:

dalla crisi si esce solo con i sacrifici, abbiamo vissuto al di sopra dei nostri mezzi, servono le riforme specialmente se impopolari, eccetera.


Questi commentatori sono ignoranti, o in malafede, o una combinazione delle due cose.


I discorsi di verità vanno fatti, certo: ma sono altri.


Il “vincolo esterno” ha portato il paese al disastro.


I vincoli dell’eurosistema sono catastrofici.


L’Italia, finché non se ne libera, è condannata a una progressiva ma irreversibile erosione del tessuto economico e sociale.


La via in cui incamminarsi è solo una: riappropriarsi della facoltà di emissione monetaria.



Chi parla di “discorsi di verità” che non siano questi ultimi, non fa altro che disinformare, e portare il suo contributo alla devastazione dell’economia nazionale.

Il non-aggiustamento strutturale

Tra le tante idiozie che si leggono sui giornaloni paludati – in particolare il quartetto Corsera / Repubblica / Stampa / Sole –
una delle più irritanti è che il maggior debito pubblico contratto dall’Italia
per fronteggiare l’impatto economico del Covid renderà inevitabile, successivamente, un “aggiustamento strutturale”.




Di aggiustamento si potrebbe parlare se il risultato fosse di ridurre il maggior livello del rapporto debito / PIL, riportandolo ai livelli pre-Covid – o qualcosa di simile.


Se l’Italia nel prossimo futuro riprenderà il percorso “tasse & tagli” che abbiamo sperimentato nel 2011-2013,
l’aggiustamento, al contrario, non aggiusterà proprio nulla.

Come allora, decine di migliaia di altre aziende falliranno, milioni di altre persone saranno gettate in povertà,
il PIL avrà un’ulteriore caduta e il rapporto debito pubblico / PIL salirà ulteriormente.



Per quale motivo una parte così significativa dell’establishment politico-economico-mediatico italiano
sia caratterizzato da questo cupio dissolvi non lo so con certezza.

Ignoranza, servilismo, opportunismo, incompetenza ? un micidiale cocktail di tutto questo ?


La favola dell’”aggiustamento strutturale” va tra l’altro di pari passo con un’altra fandonia:

il Covid avrebbe dimostrato l’assoluta necessità di ridurre il rapporto debito pubblico / PIL perché chi l’aveva più basso,
vedi la solita Germania, ha potuto (al contrario di noi) effettuare interventi tempestivi e massicci.


Un commento di questo genere ignora le enormi risorse immesse nell’economia da paesi quali USA, UK e Giappone:
caratterizzati da rapporti debito pubblico / PIL più alti rispetto alla media dell’Eurozona (addirittura del 260% nel caso giapponese) ma espressi nella propria moneta.


Per fronteggiare un’emergenza, non c’è bisogno di avere un debito pubblico basso: c’è bisogno della capacità di emettere la propria moneta nazionale.


A meno, aggiungo per completezza, che non si utilizzi, com’è il caso di paesi nord-eurozonici, una moneta sottovalutata rispetto ai propri fondamentali.


La rottura dell’eurozona non è un rischio per l’acquirente di titoli di Stato tedeschi
perché al massimo si ritroverebbe con titoli in marchi, destinati a salire di valore rispetto al livello attuale dell’euro.


L’Italia è ovviamente nella situazione opposta: da qui nasce lo spread, nascono i vincoli all’indebitamento
e nasce la tragica situazione in cui si trovava già prima del Covid (e oggi ovviamente è peggio) la nostra economia.



Ridurre il debito pubblico da rimborsare in euro senza passare tramite la rottura dell’Eurozona è possibile, ma per una strada completamente diversa:
emettere Moneta Fiscale e rilanciare PIL, produzione e occupazione.


Ma questo, naturalmente, sui giornaloni paludati non lo leggete.
 
Dopodomani dovrebbe scadere il termine per i versamenti delle imposte delle partite IVA e delle aziende,
rinviati per soli 20 giorni dal “Generoso” governo Conte.

Quindi sarà possibile un ulteriore rinvio al 20 agosto, ma pagando una sanzione dello 0,4%, dopo di che non si sa.

Provenendo da un periodo che, per moltissime aziende e professionisti, non è di vacche magre, ma letteralmente morte,
queste scadenze, che si incrociano con quelle IVA e con centinaia di altre facenti parte del caos fiscale italiano,
sarà la pietra tombale finale, anche perchè, non essendo cambiato nulla, si chiederà non solo il saldo 2019, ma perfino l’acconto 2020.

Se avete avuto la fortuna di avere un buon incasso lo scorso anno, ma non averlo più nell’anno corrente, potete portare i libri direttamente in tribunale.


Nonostante perfino la ragioneria di stato si sia pronunciata a favore, nonostante la copertura con l 'emissione di BOT costi praticamente zero
(l’ultima emissione è stata eccezionalmente a tasso positivo, si, ma lo 0,0072% su base annua),
Gualtieri ed i suoi bravi, perchè chi al MEF non spiega quello che sta succedendo non è un dirigente,
ma un cieco yesman, continuano a non voler concedere alcun rinvio.


Anzi danno segnali molto inquietanti, per una ripresa in grande stile dell’attività di repressione ed accertamento.

In una situazione in cui il PIL annuo è previsto in calo del 11%, tra l’altro una riduzione più accentata nel primo semestre, questa scelta è:


  • politicamente irresponsabile, perchè mostra l’assoluta insensibilità del governo e della maggioranza rosso gialla
  • alle necessità degli imprenditori e dei lavoratori autonomi italiani.
  • Maria Antonietta, che almeno lanciava brioches, era al confronto una statista, perchè Gualtieri lancia sampietrini;
  • economicamente ignorante, perchè una manovra fiscalmente restrittiva in questa fase moltiplicherà gli effetti negativi,
  • proprio nello stato che meno ha dato ai suoi cittadini per aiutarli alla ripresa.

Aggiungiamo che il viceministro Misiani, in modo altrettanto irresponsabile, parla di una stretta patrimoniale
con la revisione degli estimi catastali e riduzione del forfait per l’imposta patrimoniale , da un milione a 500 mila euro.


Un’ulteriore stretta, ideologicamente motivata, che avrà l’ennesimo effetto stupidamente restrittivo.

Sembra che al governo ci sia un gruppo di persone che abbia come obiettivo l’impoverimento collettivo prima e la rivolta sociale dopo.

A settembre ci saranno le elezioni in diverse regioni e sarebbe molto utile che i cittadini fornissero qualche indicazione a Gualtieri circa la qualità della sua opera.
 
Probabilmente è l’effetto dell’abuso delle conferenze stampa fra le quali spiccano due o tre
come quella riguardante la vicenda Benetton che, a ben vedere, si può tranquillamente qualificare nel contesto di una “ideologia” assistenzialista,
ai vecchi tempi denominata, più correttamente, statalista.


Di quel gruppo di avventurieri incapaci e giustizieri del Movimento 5 Stelle che di tale cascame ideologico si nutrono,
vista la loro irrecuperabile ignoranza e incultura politica.


Riempite, non a caso, di invocazioni criptorivoluzionarie, di messaggi populisti, di propositi giustizialisti, di propaganda demagogica.

Il punto è che come Presidente del Consiglio dovrebbe reggere ben dritto il timone non solo per evitare le secche
ma per temperare, moderare, mediare e poi decidere negando innanzitutto il vizio grave e assurdo della demagogia che, in realtà, coincide col ripudio del riformismo.


Ed è tanto più colpevole il silenzio del Partito Democratico di fronte alla ideologia economica pentastellata
quanto più vocazioni e invocazioni al metodo delle riforme erano risuonate sotto le volte congressuali (quando c’erano)
di postcomunisti spergiuranti sull’approdo irreversibile nel sistema liberale.


Se osserviamo i casi di Autostrade, Alitalia ed ex Ilva, parlare di assistenzialismo è fuorviante e riduttivo
perché le operazioni rientrano di buon diritto nel ritorno, più vivo e operante (e costoso) di prima, di quell’Iri con le su mani stataliste sull’economia
anche se, cambiando i tempi, cambiano anche i nomi: da Iri a Cassa depositi e prestiti, ma i soldi sono sempre pubblici e, nel caso, dei risparmiatori postali.


In tal modo i partiti rientrano in settori vitali del Paese dai quali avevano giurato, a cominciare dal Pd, di starsene alla larga
in nome della trasparenza e della lotta alla corruzione, col M5S le cui trombe e trombette predicavano la imminente fine della morsa della Casta su questi ambiti.


Rivoluzionari da strapazzo, i grillini sono tuttavia riusciti a mettere in fuga ciò che restava nel Pd di riformista,
a tal punto che la loro presenza nel Governo Conte sembra in un certo senso irrilevante.


Cosicché al Governo la strada fino ed oltre l’autunno parrebbe senza troppi problemi e dovremo attenderci altri

“rigurgiti massimalisti dal Pd – come ricorda Giorgio Mulé (Forza Italia) – il cui passato non passa.
Il Pd sta vivendo un rigurgito di un massimalismo sconfitto dalla storia.
È il ritorno alla caverna, la prova che il Pd non sa sfidare la modernità”.
 
Dementi. Contributi ai monopattini che non hanno regole........


Si tratta del primo incidente grave in monopattino accaduto a Milano.
Una donna di 31 anni è ricoverata in gravi condizioni all’ospedale Niguarda, dopo essersi scontrata con un autocarro.
Secondo le prime ricostruzioni la donna non avrebbe rispettato la precedenza, ma la dinamica dei ancora non è chiara,
dato che la polizia locale è ancora sul posto per i rilievi.

E’ possibile che abbia sbattuto contro la fiancata del furgone, sbattendo poi la testa in terra.

Non indossava il caschetto protettivo (che sopra i 18 anni non è obbligatorio).


Come detto si tratta del primo grave incidente che vede il coinvolgimento di un monopattino nel capoluogo lombardo.

Un fatto che aumenterà le polemiche relative alla sicurezza dei monopattini.

Poco più di un mese fa a Budrio, in provincia di Bologna, c’è stato il primo morto causato da un incidente in monopattino:
un uomo di sessant’anni è rimasto ucciso dopo essersi scontrato con un’auto.
 
Le intenzioni di voto di questa settimana, che riprendiamo dalla Supermedia Youtrend per Agi
la quale stila la classifica sulla base delle medie ponderate dei sondaggi nazionali,
pongono al primo posto la Lega di Matteo Salvini, che in perdita di 4 decimi scivola al 25,4%.


A dividere il Carroccio dal Partito Democratico, che stazione al 20,4% con una perdita di solo 0,1%, ci sarebbero esattamente 5 punti.

La formazione di Giorgia Meloni acquista un +0,5% e sfonda la soglia del 15% posizionandosi a meno di un decimo

dal Movimento 5 Stelle al 16%. Mai prima di adesso la distanza tra i due partiti era stata così ristretta.


Per quanto riguarda le informazioni sotto il 10% troviamo Forza Italia di Berlusconi che si attesta il 7,2%,

Italia Viva al 2,9%, che continua a perdere consensi, questa settimana -0,3%.

Youtrend inoltre riferisce che sommando le preferenze di voto dei partiti che compongono l’attuale maggioranza di governo,
si raggiungerebbe il valore di 42,2 punti percentuali, esattamente 6 punti e mezzo in meno rispetto all’opposizione di centrodestra (48,7%).
 
Il metodo socratico rappresenta un elemento portante nello sviluppo epistemologico,
cui si ispireranno sia l’età dell’Umanesimo che quella dell’Illuminismo,
dove l’interesse per la scienza troverà massima espressione, elevandosi a ideale contro l’oscurantismo, l’intolleranza e ogni forma di assolutismo.

L’approccio odierno alla scienza la allontana notevolmente dal suo fine massimo di raggiungimento del sapere
quale emancipazione dell’essere umano, attraverso il percorso arduo e incessante della ricerca della conoscenza.

Al contrario, lo scientismo attuale costringe l’individuo dentro una gabbia ristretta di norme e dogmi che appaiono imperscrutabili al comune intelletto,
divenendo roccaforte di un gruppo di eletti, forti del prestigio conferito loro dall’appartenenza a enti rappresentativi del sapere in quello specifico settore.


Rinnegando la strada percorsa dai grandi scienziati del passato che pagarono con la propria vita l’aver messo in dubbio le credenze contemporanee,
gli attuali preferiscono muoversi nel solco del conformismo e dell’omologazione.

Non c’è spazio per il dubbio, elemento fondamentale della ricerca della sapienza, ma solo per l’assertività,
la dogmaticità inconfutabile e autoreferenziale delle proprie affermazioni.


Uno scientismo imperante e anti-dialogico sta contaminando tutti gli ambiti della conoscenza, con una smania positivista che ha pervaso persino le scienze umane.


Così nell'economia, la cui radice etimologica –oikos nomia, legge della casa, della sua amministrazione – non lascerebbe dubbi circa la natura sociale di questa scienza.

Eppure, a partire dal liberismo ottocentesco prima e dalla sua cristallizzazione attraverso il neoliberismo attuale,
tra gli economisti è invalsa la credenza categorica di trattare l'economia alla stregua di una scienza esatta, come la fisica o le scienze naturali.


In un saggio dal titolo “Il Negazionismo economico” due economisti francesi (Pierre Cahuc e André Zylberberg, ripresi poi dal mondo accademico),
dichiarano che siamo giunti a un punto in cui l'economia avrebbe acquisito il rango delle scienze sperimentali, come la medicina e la biologia,
per cui molte questioni potrebbero essere trattate da un gruppo di esperti nello stesso modo in cui si testa un medicinale.

Questa conquista sarebbe però oggi messa in discussione da una frangia di individui che, con un certo disprezzo, vengono definiti “esperti autoproclamati”,
i quali oserebbero negare con metodi non scientifici la verità contenuta nelle riviste del settore.

Essi si presenterebbero all’opinione pubblica come difensori del bene comune, ma in realtà sarebbero una sorta di ciarlatani, che agiscono secondo la strategia del negazionismo.


Questa disposizione all’ostracizzazione e al disprezzo manifesto verso chiunque metta in discussione una teoria accreditata
e prevalente negli ambienti accademici e istituzionali è diffusa ormai in tutte le branche del sapere.


Durante l’emergenza legata al coronavirus, ma già prima, alcuni autorevoli virologi hanno fatto massiccio ricorso a tale atteggiamento
nei confronti di chiunque mettesse in dubbio la natura e la letalità del nuovo virus, di cui peraltro essi stessi hanno dimostrato una scarsa conoscenza,
costretti a smentire più volte le proprie tesi, proclamate con grande convincimento.

Il concetto di competenza, utilizzato come fortezza per difendersi dalle incursioni dei dissidenti,
viene sganciato da ogni riferimento alla misurazione dei risultati raggiunti e all’attendibilità delle previsioni dichiarate.

L’unico parametro di valutazione diventa la legittimità degli attori, il prestigio che viene loro tributato dall’appartenenza a enti e istituzioni riconosciuti.

Secondo un meccanismo autoreferenziale e capace di riprodursi senza interruzione, nell’ambito della ricerca scientifica
vengono privilegiati e incentivati coloro che sono in grado di portare prove a sostegno di un modello già universalmente riconosciuto.

Si giunge al paradosso per cui a essere premiato e legittimato è proprio chi adotta un metodo anti-scientifico,
parlando in termini socratici, con il risultato che l’adesione a una teoria preesistente prevale sul senso critico e sulla ricerca della verità.



La tendenza attuale è quella di sostituire la pratica del dubbio sulla conoscenza con l’accettazione e la divulgazione secondo un registro fideistico,
che non lasciano spazio allo spirito innovativo e all’approccio sperimentale.

In questa cornice è accaduto che nel XXI secolo un virus di tipo parainfluenzale, molto contagioso e piuttosto letale rispetto alla sua famiglia,
ma che non ha nulla a che vedere con le grandi pestilenze del passato, sia stato combattuto con l’isolamento forzato,
un metodo che risale al Medioevo se non all’Antico Testamento, che non si riscontrava nei paesi dell' Europa occidentale da secoli.


Metodi di dubbia efficacia, che riportano più a una questione di pensiero magico che di razionalità scientifica, hanno fatto leva sulla paura della popolazione.

Ai politici e ai cittadini è stato chiesto di adeguarsi alla verità promulgata dalla nuova scienza, quale dottrina del mondo contemporaneo,
totalitarista e reazionaria ma capace di fare larga presa sulla popolazione.

Una massa che, come ce la descrive Freud, è «fondamentalmente conservatrice in senso assoluto,
ha una profonda ripugnanza per tutte le novità e tutti i progressi e un rispetto illimitato per la tradizione».


Attraverso una comunicazione sensazionalistica, basata su immagini forti e cariche di dolore,
l’individuo ha subito un lavaggio del cervello, si è trovato di colpo a convivere con il pensiero
e l’immagine incombenti della morte, che aveva sempre rifuggito attraverso l’iperattivismo lavorativo e sociale.

L’immaginario collettivo è stato subissato di testimonianze provenienti dai reparti ospedalieri di pazienti morenti,
familiari straziati, medici martiri ed eroi, fino a culminare con la rappresentazione ultima del trapasso, le bare,
trasportate addirittura da convogli militari, simbolo dell’ordine precostituito che subentra al caos.

Armi che da sempre vengono utilizzate per far presa sulla massa che, in quanto tale
«può venir eccitata solo da stimoli eccessivi. Chi desidera agire su essa non ha bisogno di coerenza logica tra i propri argomenti;
deve dipingere nei colori più violenti, esagerare e ripetere sempre la stessa cosa»
(Freud, “Il disagio della civiltà e altri saggi”).


L’effetto suggestione è stato potente, un panico collettivo si è impossessato dell’intera popolazione che,
senza distinzione di età e di condizioni fisiche, sebbene la pericolosità del virus fosse sensibile a tali parametri,
si è abbandonata totalmente al verbo dei virologi della vulgata dominante, quella accreditata e amplificata dai media.


Adottando una forma di superstizione per placare la propria angoscia, i cittadini hanno aderito alle disposizioni imposte
e hanno rispettato pedissequamente la reclusione domiciliare forzata, mettendo da parte persino le preoccupazioni economiche legate all’impossibilità di lavorare.

A chi osava dissentire dalle imposizioni prescritte per il bene comune è stato riservato un trattamento punitivo severo ed esemplare,
finalizzato a dissuadere la popolazione dalla ribellione all’autorevolezza dello scientismo scambiato per scienza.

L’atteggiamento totalizzante di obbedienza ha ingenerato la nascita spontanea di delatori tra la popolazione
e la piena adesione al nuovo culto sanitario, oggettivato attraverso il feticcio della mascherina, utilizzata da alcuni persino in luoghi all’aperto e isolati.



Se i sociologi denunciano oggigiorno un crescente allontanamento dalla Chiesa come fenomeno diffuso in tutto l’Occidente e un aumento del laicismo,
permane nell’individuo il bisogno ineludibile di una guida autorevole, che gli indichi cosa è giusto e cosa sbagliato, dove sta il male e come tenerlo lontano.

Nella visione freudiana religione e scienza sono in conflitto tra loro, in quanto entrambe assolverebbero alla funzione di soddisfare la sete umana di conoscenza
e di placare l’angoscia degli uomini di fronte ai pericoli e alle alterne vicende della vita.

Ma l’aspetto principale in cui esse si distinguerebbe in modo sostanziale consiste nel fatto che,
mentre la religione indica precetti ed emana divieti e limitazioni, la scienza si limita a indagare e rilevare.

Dunque entrambe mirano agli stessi obiettivi ma con mezzi profondamente differenti, che vedono la scienza avulsa dall’utilizzo dell’azione coercitiva.

Possiamo affermare che oggi tale disputa è superata: la nascita di una nuova creatura, la religione scientista, ha surclassato entrambe le istanze,
adottando – in modo tendenzioso e tale da non dare adito al dubbio – la metodologia scientifica per finalità proprie di una religione.



Questa nuova entità metafisica è in grado di rispondere ai bisogni di protezione da parte del soggetto che fa parte della massa,
alla sua volontà di de-responsabilizzarsi e all’esigenza di attenersi a rigidi divieti imposti da un’autorità alla collettività intera,
in modo da sentirsi tutti uguali al cospetto del padre primigenio.

Le affermazioni degli scienziati vengono accolte come dei dogmi indiscussi e le loro prescrizioni come dei culti da rispettare.

Riproducendo il sistema di premi d’amore e di punizione del bambino, la fede scientista consente all’uomo di permanere in uno stato di minorità
e di soddisfare i desideri e i bisogni dell’infanzia, che si sono protratti fino all’età adulta.

La veste scientifica rende la nuova religione più adatta di quelle tradizionali allo spirito dei tempi,
in cui la paura della morte e il rifiuto di accettare la caducità della vita umana hanno preso il sopravvento sull’amore per la vita stessa e la ricerca di un senso etico:

per paura di morire l’uomo sceglie di non vivere. A essere appagata è la pulsione di morte, che trova così espressione nella rinuncia alla vita reale.
 

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