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Secondo gli organizzatori,
la presenza della giornalista avrebbe potuto compromettere la sicurezza dell’intera missione, attirando attenzioni indesiderate.

Secondo Del Vecchio, invece,
la vera ragione del suo allontanamento è un’altra: il suo racconto non era “allineato” all’immagine che la Flotilla voleva dare di sé.


La stessa giornalista in queste ore ha commentato:

“Per me è una sconfitta, non solo personale. È sempre stonato quando un giornalista diventa parte della storia, anziché narratore di esperienze altrui. Ma credo che la vicenda meriti di essere conosciuta per quanto ci dice sul ruolo del giornalismo e dei suoi compiti, sulla percezione della professione. Anche da parte di chi si definisce libertario”.
 
Fatto sta che la vicenda mette in luce un paradosso.

Una missione che si presenta come simbolo di trasparenza, non violenza, legittimità morale,
e che vorrebbe luci e voci sull’iniziativa,
nel momento in cui incontra lo sguardo e il taccuino di un cronista, per di più una donna,
reagisce con diffidenza e chiusura.



Definire “pericolosa” una giornalista significa trasformare un testimone potenzialmente utile,
nell’opportunità di una cassa di risonanza non indifferente, in un nemico da espellere.


È una scelta che non solo indebolisce la credibilità della Flotilla,
ma rischia di oscurarne le stesse finalità umanitarie.
 

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