Sp mib e titoli quando sarà il momento giusto (2 lettori)

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accidenti HSBC

HSBC perde cd con dati di 370.000 clienti

LONDRA, 7 aprile (Reuters) - Il gruppo bancario HSBC <HSBA><0005> ha detto oggi di
aver smarrito un cd contenente i dati di circa 400.000 clienti.
Il disco contiene i nomi, le date di nascita e le coperture assicurative di 370.000 persone

titolari di assicurazioni sulla vita presso la banca.
Secondo HSBC, non contiene indirizzi né dati sui conti correnti.
"Il cd smarrito da HSBC non contiene indirizzi né dettagli sui conti bancari di nessun cliente e
sarebbe perciò di limitata
utilità ai criminali, sempre che potesse essergli utile", recita una
dichiarazione della banca nella quale si spiega anche che i dati sono protetti da password.
Il disco è andato perso dopo essere stato spedito tramite corriere Royal Mail dagli
uffici del
gruppo a Southampton al riassicuratore Swiss Re a inizio febbraio.
Non è chiaro a che punto del viaggio fosse quando è stato smarrito.
"E' stato perso tra la partenza e l'arrivo", ha detto il portavoce HSBC James Thorpe.
HSBC ha
detto che Swiss Re sta effettuando ricerche approfondite e di aver informato il
Financial Services Authority (FSA), che potrebbe svolgere un'indagine e, se trovasse la banca
colpevole di mancanza di sicurezza, comminarle una multa.
 

ariete22

Forumer storico
attese su wally per oggi

Wall Street - Stocks to watch del 7 aprile

NEW YORK, 7 aprile (Reuters) - I futures sugli indici
dell'azionario Usa sono in forte rialzo, facendo presagire un
avvio di seduta molto positivo a Wall Street.
L'attenzione degli investitori è focalizzata sui risultati
del produttore di
alluminio Alcoa <AA> e sui dati del credito
al consumo a febbraio.
Alle 13,25 il futures sul Nasdaq 100 <NDM8> sale dello
0,84%, quello sul Dow Jones <DJM8> dello 0,53%, quello sullo
Standard & Poor's 500 <SPM8> dello 0,77%.
I dati sul
credito al consumo sono attesi alle 21,00
italiane. Gli analisti stimano una crescita dei prestiti di 5,5
miliardi di dollari, secondo le stime Reuters da +6,9 miliardi
nel mese precedente, registrando quindi una contrazione delle
spese che fa pensare
all'avvio della recessione negli Stati
Uniti.
Alcuni analisti sostengono che l'attesa del dato potrebbe
creare della volatilità sul mercato, anche se la fase attuale
sui mercati azionari è positiva, soprattutto in Europa.
"Molto della forza
che abbiamo visto arriva dai mercati
europei. L'unica cosa che può creare volatilità oggi è il dato
sul credito al comsumo", osserva un broker.
Alcoa annuncerà i risultati subito dopo l'avvio del mercato.
Le stime sugli utili del primo
trimestre delle società Usa
sono scese parecchio a causa delle attese di una recessione nel
Paese.
Per le società dello S&P 500 si prevede un calo dell'11,8%
degli utili, rispetto a una proiezione fatta all'inizio del
trimestre di una crescita
del 4,7%, secondo le stime Reuters.
 

Franco52

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Crisi, la fase più acuta è prossima alla fine




DI ANTONIO CESARANO*




Le parole conclusive del recente discorso di Bernanke davanti al Congresso sono esemplificative del giudizio sullo stato dell’economia Usa. Il capo della Fed ha infatti ammesso che la prima economia al mondo si trova a fronteggiare un "periodo molto difficile", pur rimanendo allo stesso tempo fiducioso sulle prospettive nel lungo termine. Nel discorso di Bernanke si fa riferimento alla possibilità che in questo periodo l’economia possa crescere prossima allo zero o registrare una lieve contrazione. Il capo della Fed ha poi precisato che il trimestre più a rischio in termini di crescita negativa è proprio quello in corso, dal momento che la spesa per costruzioni ad uso residenziale potrebbe ancora calare, accompagnata da un rialzo del tasso di disoccupazione. Parallelamente sono arrivate le prime anticipazioni sulle possibili revisioni delle previsioni del Fondo Monetario Internazionale. Per gli Usa il giudizio sarebbe molto severo: la crescita stimata è pari allo 0,5% quest’anno e 0,6% il prossimo. In questo contesto il mercato azionario Usa ha registrato un inizio di secondo trimestre all’insegna di un rialzo giornaliero tra i più elevati nel corso degli ultimi 70 anni. Come spiegare questa apparente contraddizione? La psicologia degli operatori, come noto, tende ad essere spesso orientata ad un atteggiamento anticipatore degli eventi. Dal mese di maggio in poi dovrebbero essere più evidenti gli effetti della recente manovra espansiva del governo Bush da 160 miliardi di dollari, che si tradurrà in rimborsi fiscali alle famiglie. Inoltre la fase più acuta della crisi finanziaria appare agli operatori prossima alla fine, dal momento che le diverse istituzioni coinvolte sembrano più inclini a dichiarare importi elevati di svalutazioni di bilancio. Di fondo rimane la fiducia nel fatto che in casi estremi la Fed o anche il governo impediranno che la situazione precipiti. I prossimi mesi potrebbero ancora essere accompagnati da indicazioni deludenti sul fronte macro Usa, a fronte di mercati che potrebbero mantenere un elevato livello di volatilità. Nel breve potremmo assistere a qualche segnale di recupero ma nel complesso la posizione più prudente appare essere di neutralità in termini di asset a più elevato grado di rischio.
*Responsabile Market Strategy MPS Capital Services
 

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sp mib aggiornamento

siamo sempre in laterale nevrotizzante ma in laterale ne range di 70 punti, non ci si schioda, il future nas viaggia a + 0,72
 

Franco52

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Prove tecniche di Super-Bce


Dopo il caso Bear Stearns Paulson e Bernanke parlano di SuperFed. E la Banca centrale europea può diventare il controllore unico? "Ora non ci sono le condizioni dice Lorenzo Bini Smaghi ma urge rimuovere gli ostacoli legislativi alla cooperazione tra le autorità"



MASSIMO GIANNINI




Tra le macerie dello tsunami dei subprime ingrassa il temibile virus della sfiducia e cresce l’inevitabile conta delle «vittime». L’America prova a correre ai ripari, l’Europa sta alla finestra. È scienza o incoscienza? A Washington si discute di SuperFed, a Francoforte c’è qualcuno che ragiona di SuperBce? Se provate a girare la domanda ai banchieri centrali al lavoro nel grattacielo dell’Eurotower, la risposta che arriva sembra rassicurante: «Il piano Paulson e la parziale "autoriforma" della Federal Reserve dice Lorenzo Bini Smaghi, membro italiano del board vanno nella direzione che la Banca centrale europea va auspicando da tempo». Accentramento e rafforzamento delle funzioni di vigilanza, allargamento dei controlli sui soggetti bancari e finanziari, armonizzazione delle regole sui ratios e sugli standard patrimoniali. «Di più, in questo momento, non si può fare».
Il ragionamento di Bini Smaghi parte da una premessa. Il cuore della crisi dei mercati, stavolta, è al di là dell’Atlantico. E sono gli Stati Uniti a dover cambiare strada, prima ancora che l’Europa. Lo ha capito il segretario al Tesoro Paulson: il suo documento di 200 pagine sulla riforma della vigilanza americana, anche se arriva tardi e non sarà mai approvato dal Congresso prima delle elezioni di novembre, segna una radicale riscrittura della filosofia che in questi ultimi trent’anni ha ispirato la politica mercatistica americana. Lo ha capito Ben Bernanke: la trasformazione di Jp Morgan nella ciambella di salvataggio della Bear Stearns, poiché pubblicizza una perdita privata accollandone il costo ai contribuenti, segna la fine del pensiero unico darwiniano che per quasi un secolo ha regolato il boom finanziario americano. «Con le mosse annunciate in questi ultimi giorni aggiunge Bini Smaghi l’America prova a riaccendere il faro della vigilanza anche sulle banche d’affari. Così colmerebbe una sua lacuna...».
I banchieri centrali europei sono giustamente convinti che l’epicentro di questo terremoto planetario nasca dalle cartolarizzazioni. Dai titolisalsiccia nei quali le banche americane «insaccano» i crediti ad alto rischio sui mutui, li ricollocano sul mercato o li parcheggiano fuori bilancio, lontani dagli occhi «indiscreti» della vigilanza bancaria. Da quelli che George Soros definisce «strumenti finanziari esoterici», come i «Credit default swap», che secondo lo stesso Soros ammontano a qualcosa come 45 mila miliardi di dollari. E anche se nessuno lo dice, i banchieri centrali europei pensano che questo Far West di prodotti finanziari sia l’effetto di una strategia da «todos caballeros» che la Federal Reserve ha seguito in tutti questi anni. All’Eurotower tutti ricordano le modifiche al «Glass Steagall Act», volute a tutti i costi da Alan Greenspan negli anni ’80. Con quella riforma del 1933, subito dopo la Grande Depressione, si fissò il principio della separazione tra le banche commerciali, le banche di investimento e le assicurazioni. Cinquant’anni dopo, fu proprio Greenspan a picconare quelle norme, in un’audizione al Congresso del 6 ottobre 1987: «Le nostre banche sono bloccate da una legge di 50 anni fa, e i loro prodotti sono sempre meno competitivi...». Cominciò così un’offensiva che dieci anni dopo, l’11 febbraio 1999, lo indusse a ripetere all’House Committee on Banking and Financial Services: «Noi siamo favorevoli da molti anni ad eliminare le barriere che impediscono l’integrazione delle attività bancarie, finanziarie e assicurative...». Eliminare le barriere, secondo il pugnace Alan, significava ridurre i controlli, soprattutto su quelle che lui stesso definiva «le affiliate delle banche». Il Congresso americano, di lì a poco, cedette alle pressioni. Le barriere dello Steagall Act crollarono. Così è cominciato tutto. Lì si è aperta la faglia, che ci ha portato al terremoto di oggi. I conflitti di interesse, le cartolarizzazioni, i titolisalsiccia, i subprime, le insolvenze immobiliari, quelle delle carte di credito, quelle sui crediti al consumo. E poca o nessuna vigilanza.
La graduale trasformazione della Banca centrale americana in un formidabile «booster» per la crescita, attraverso una gestione sempre troppo prociclica dei tassi di interesse, ha fatto il resto. E nel panico di oggi, per evitare un Big Crash mondiale, Bernanke è costretto a trasformare la Fed in una Gepi, salvando una banca d’affari con i soldi dello Stato. Una forma di neoassistenzialismo che rischia di imprimere un’ulteriore deformazione al sistema. Nell’ottica europea, se in questo turmoil c’è un peccato originale, lo ha commesso la Fed. E tocca agli americani espiarlo per primi. La Banca centrale europea ha seguito e segue una filosofia diversa, come lo stesso Bini Smaghi ripete attingendo al suo intervento di venerdì scorso alla Harvard Law School di New York: «Come possono le banche centrali gestire al meglio la politica monetaria in una fase di turbolenza finanziaria? Il primo target che dovrebbero fissare, tra le loro priorità, è quello della stabilità dei prezzi. Avendo un obiettivo principale, si evita la confusione e la sovrapposizione con obiettivi secondari, e si lanciano messaggi più chiari ai mercati. La credibilità della Bce nell’impegno contro l’inflazione è la migliore garanzia per mantenere i tassi di interesse sul livelli bassi nel medio periodo, per sostenere la crescita e l’occupazione e per rassicurare i mercati».
Non solo. Secondo Bini Smaghi, tenere salda la barra del timone sulla lotta all’inflazione serve anche a non snaturare il ruolo della Bce. «Il rischio maggiore per una banca centrale, in una fase di turbolenza, è che essa sia sottoposta a pressioni indebite per assumere responsabilità che non le competono, e in particolare per risolvere problemi di solvibilità degli operatori. Al contrario, una banca centrale dovrebbe avere la sola responsabilità di garantire un adeguato funzionamento del mercato monetario e di stabilire i propri target attraverso precise chiavi operative. Questo è quello che la Bce ha fatto finora, intervenendo con operazioni di rifinanziamento con un occhio sulla stabilizzazione del tasso overnight. Le banche commerciali non lo hanno compreso fino in fondo. Ma questo è quello che la Bce continuerà a fare...». Come dire: non aspettatevi che Francoforte intervenga per salvare una banca, se anche nell’Eurozona si verificasse un caso Bear Stearns o un caso Northern Rock. «Questo alla Banca centrale europea non potete proprio chiederlo: non è il suo mestiere e non deve diventarlo».
Ma di qui a pensare che l’inferno dei reprobi sia solo l’America e l’Europa viva nel paradiso dei giusti ce ne corre. «Certo osserva ancora Bini Smaghi anche noi dobbiamo stringere le maglie della vigilanza, rendere più approfonditi e stringenti i controlli, e migliorare il grado di armonizzazione normativa tra le diverse autorità nazionali». E questo, per l’Europa, è un problema altrettanto grande di quanto non lo sia quello dei derivati per l’America. La Bce ha poteri assoluti sulla politica monetaria, ma non ne ha affatto sulla politica bancaria. Il rapporto del Financial Stability Forum presieduto da Mario Draghi ha indicato a febbraio qualche linea guida: più trasparenza nei bilanci, più scambio di informazioni tra i regolatori, più poteri ispettivi per le autorità. Ma questi, di fronte alla complessità del meltdown finanziario in corso, sono pannicelli caldi. Il ministro del Tesoro uscente, Tommaso PadoaSchioppa, ha un’idea più ambiziosa: «Servirebbe un unico organismo di vigilanza a livello europeo». E questa è stata la proposta italiana all’Ecofin di Brdo di venerdì scorso, per aggirare un problema che ci rende diversi (e stavolta in negativo) dagli Stati Uniti: abbiamo un’unica moneta, un solo sistema di pagamenti, un solo organismo che ha in mano la leva dei tassi di interesse, ma non abbiamo una banca centrale deputata al controllo centralizzato delle attività creditizie e al coordinamento della vigilanza con gli altri regolatori di mercato. I 27 Paesi Ue contano 52 autorità, ciascuna delle quali ha regole diverse e spesso non dialoga con le altre, mentre negli Usa se ne contano oltre 100, e la Fed ne ha appena assunto un implicito coordinamento.
Torna la domanda di partenza: può nascere in Europa una SuperBce? «Allo stato attuale non ci sono le condizioni», è la risposta che arriva da Francoforte. Manca il consenso politico, come dimostra il blando appello agli istituti di credito a pubblicare l’esposizione ai rischi e le perdite lanciato dall’Ecofin in Slovenia tre giorni fa. E mancano anche le condizioni «tecniche», come dimostrano le <n>resistenze di alcune singole ban<n><x><r0>che centrali a rinunciare alla pro<n>pria sovranità nazionale in materia <n>di vigilanza sul credito. «Quello <n>che invece possiamo e dobbiamo <n>fare <\-> chiarisce Bini Smaghi <\-> è <n>uniformare almeno i criteri della <n>vigilanza, fissando regole uguali <n>per tutte le singole banche centra<n>li. È quello che in gergo chiamia<n>mo il "rule<\->book": almeno <n>su questo c’è un buon gra<n>do di consenso...». Se la <n>SuperBce non è ancora al<n>l’ordine del giorno, questo <n>non significa che Trichet e <n>la sua squadra facciano i <n>cinesi, aspettando la pros<n>sima crisi sdraiati sulla ri<n>va del fiume: «Nel conte<n>sto europeo <\-> secondo Bini <n>Smaghi <\-> la chiave per ri<n>creare un clima di fiducia <n>tra gli operatori e tra i mer<n>cati passa attraverso il <n>rafforzamento della coo<n>perazione tra i supervisori. <n>Soprattutto quei Paesi in <n>cui ci sono ancora ostacoli <n>legislativi per i supervisori nel for<n>nire informazioni alla Bce su sin<n>gole banche o specifiche istituzio<n>ni finanziarie dovrebbero rimuo<n>verli al più presto».
Oggi più che mai, insomma, la <n>crisi chiama in causa non solo i <n>banchieri centrali, ma anche i lea<n>der politici. Come dice ancora <n>George Soros, «abbiamo bisogno <n>di un Pensiero Nuovo, non solo di <n>una riorganizzazione delle auto<n>rità». All’Europa non bastano va<n>ghe road map regolatorie, soprat<n>tutto se «non vincolanti» per gli <n>stati nazionali. Il mercato se possi<n>bile, il governo se necessario. È <n>una bella sfida, liberale ma non liberista.
 

ariete22

Forumer storico
I prossimi mesi potrebbero ancora essere accompagnati da indicazioni deludenti sul fronte macro Usa, a fronte di mercati che potrebbero mantenere un elevato livello di volatilità. Nel breve potremmo assistere a qualche segnale di recupero ma nel complesso la posizione più prudente appare essere di neutralità in termini di asset a più elevato grado di rischio.*Responsabile Market Strategy MPS Capital Services[/quote]
questa è una delle conferme a ciò che mi aspetto, ecco perchè il vero minimo da cui partire non è stato anocra messo a segno!!
 

ariete22

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Re: sp mib aggiornamento

ariete22 ha scritto:
siamo sempre in laterale nevrotizzante ma in laterale ne range di 70 punti, non ci si schioda, il future nas viaggia a + 0,72
siamo arrivati ad un range di 80 punti
 

Franco52

Banned
ai junkbond l’America dopo la crisi non ama più il rischio


Crollano nel primo trimestre le emissioni dei titoli "ad alto rendimento" è l’ultimo anello della paralisi finanziaria cominciata con i mutui subprime



EUGENIO OCCORSIO




Un dato negativo era nell’aria, ma quand’è arrivato, è stato ancora peggio del previsto. Alla fine della settimana scorsa, l’agenzia Bloomberg ha reso noto che nel primo trimestre di quest’anno le offerte di junkbond sono state il 75% in meno dello stesso periodo del 2007. Un crollo molto più vistoso ed è un elemento significativo del 28% di declino delle emissioni societarie di ogni tipo, numero che è già il peggiore degli ultimi nove anni. Insomma, prende corpo il timore di molti economisti: dopo i subprime, le obbligazioni strutturate, i titoli bancari e gli hedgefund, saranno i junkbond le prossime vittime della crisi finanziaria americana. Per la verità, visto il nome che portano e tutta la volatilità e l’insicurezza impliciti in questa definizione, avrebbero dovuto in teoria essere travolti per primi dalla bufera che sta spazzando i mercati da mesi.
Invece, a sorpresa, tutto era rimasto tranquillo su quel fronte. Anzi, i junkbond hanno registrato nel 2007 il miglior anno dalla loro nascita nel 1985: il tasso di fallimenti fra le emissioni highyield, "ad alto rendimento" come si chiamano istituzionalmente (dotate di un rating inferiore al Baa3 di Moody’s o al BBB di Standard & Poor’s), non è stato superiore allo 0,7% in media per tutto l’anno. Un livello straordinariamente basso in assoluto, di molto migliore del 56% della media storica del comparto, ma soprattutto una posizione invidiabile in un periodo in cui decine di strumenti finanziari di ogni sorta sono stati polverizzati dalla crisi, e tanto per fare un esempio il titolo della Bear Stearns, quinta banca d’investimenti americana, è passato in dodici mesi da 170 a 1,7 dollari di valore. Ma per il 2008 è tutta un’altra musica. Di colpo, il miracolo dei junkbond si è spezzato. Quella che rischia di scoppiare è una nuova "bolla" di dimensioni gigantesche: nel 2007 è stata raggiunta la cifrarecord di 1.003 miliardi di dollari per le emissioni, un raddoppio rispetto a solo due anni prima (nel 2005 si erano raggiunti i 543 miliardi). A questi sono da aggiungere i 100 miliardi di euro emessi in Europa, dove i junkbond hanno fatto la loro comparsa appena due anni fa.
Come tutte le obbligazioni, i junkbond recano un valore nominale di 100 ma un valore di mercato oscillante di giorno in giorno, al quale corrisponde un tasso d’interesse variabile. Più alto è il valore, più basso è il tasso, e viceversa. E visto che per quasi tutto l’anno scorso il valore è stato vicino al massimo, il tasso è stato incredibilmente basso. In agosto lo spread con i buoni del Tesoro decennali sia americani che tedeschi, quelli usati come benchmark per i junkbond emessi sui due mercati, è sceso fino a 200 puntibase, cioè il 2%. Era il minimo storico: significa che in un momento in cui il Treasury Bond decennale americano era quotato circa il 4,5%, un junkbond rendeva il 6,5. E quando un Bund tedesco della stessa durata recava il 4% di interesse, un buono "ad alto rendimento" emesso nell’area dell’euro non superava il 6%. Un paradosso se si considera che in ogni caso il rating affibbiato a questi titoli reca l’infamante dizione di speculative grade. Insieme la causa e l’effetto del basso livello di fallimenti di cui si parlava. Nelle settimane successive, con il ribasso dei tassi americani e la discesa dei buoni del Tesoro al 3,5%, il rendimento è ulteriormente sceso.
Ma la situazione si sta capovolgendo in fretta. Lo spread è schizzato fra la fine dell’anno scorso e l’inizio del 2008 a 700 puntibase in Europa e 800 punti in America (fino a 865 il 17 marzo secondo Merrill Lynch, il massimo da cinque anni a questa parte). Nel frattempo le previsioni di fallimenti per l’anno in corso toccano secondo alcuni analisti il 78 e fino al 10%. Al punto che in molti temono il peggio: «Era l’ultima bolla speculativa che doveva scoppiare, e ora sta succedendo», sentenzia Martin Fridson, il guru del settore, editore della newsletter Leverage World, "il mondo del debito". Che ha una spiegazione razionale di quest’imprevista evoluzione: «Succede sempre che all’inizio di una recessione, qual è la situazione che abbiamo vissuto per i primi mesi di quest’anno, gli interessi sui titoli a più altro rischio s’impennano, mentre i prezzi crollano». Più preciso e anche più prudente si dice, al telefono da New York, Kenneth Emery, direttore della ricerca sul corporatedefault di Moody’s: «Noi monitoriamo mese per mese la situazione dei fallimenti. In dicembre era inferiore all’1%, in marzo è arrivata all’1,5 e ora prevediamo che per fine anno arriverà al 6%. In Europa invece resterà intorno al 3,94%»
Nel frattempo i junkbond sono stati un ottimo affare. Chi ha avuto il fegato di tenerli in portafoglio anche dopo lo scoppio della crisi, diciamo sino alla fine dell’anno scorso, avendoli comprati mettiamo all’inizio del 2003, «si è ritrovato fra capitale e cedole con un rendimento cumulato di circa il 60%», precisa Rocco Bove, responsabile High Yield di Monte Paschi Asset Management. «Certo, la situazione si sta deteriorando in fretta. Parlando di quotazioni a livello di settore, nel terzo trimestre del 2007 i junkbond hanno perso l’1 e mezzo per cento, nel quarto il 2, nel primo quarter di quest’anno il 6. E le prospettive sono quanto mai incerte da qui a fine anno. Insomma, ai livelli correnti di spread per l’investitore ci sono sicuramente occasioni interessanti purché risponda a due parole d’ordine: selettività e diversificazione».
Le difficoltà non sono solo per gli investitori ma anche per le aziende. Per quelle che non hanno strettissima necessità di indebitarsi e breve, è meglio evitare di avventurarsi su questo mercato, è il suggerimento della totalità degli analisti, e in tanti l’hanno già seguito come si diceva all’inizio. Sui dati raccolti da Bloomberg, la caduta verticale delle emissioni, c’è da fare un’altra osservazione: sono quasi sparite le piccole società, che evidentemente non possono affrontare il doppio rischio che propongono agli investitori, quello che deriva dal fatto stesso di essere vulnerabili in un momento di incertezza, e poi quello tecnicamente connesso con l’emissione highyield. A quest’ultimo proposito, le agenzie valutano «con criteri di massimo rigore in questo momento», come rammenta Emery di Moody’s, i parametri sociali (livelli di debito, rapporto con gli utili, patrimonializzazione, ecc.) senza basarsi sulle dimensioni dell’azienda, al momento di dare un rating "speculativo". Un destino che è toccato in passato anche alla General Motors. Il rating riguarda quella precisa emissione, le sue clausole e le condizioni delle società nel momento in cui arriva sul mercato. Così, la maggiore emissione di junkbond del periodo sono i 4 miliardi di dollari del colosso delle telecomunicazioni Verizon.
Di fatto, succede però che queste emissioni siano "protette" di fronte agli investitori dal provenire bene o male da un grosso gruppo, al di là delle technicality di solvibilità. Per chi è davvero "piccolo" e senza storia aziendale alle spalle, invece, il terreno si è fatto minato. E’ proprio per questo, come ricorda il decano degli economisti Allen Sinai, che la crisi dei junkbond minaccia alle radici il "sogno americano", perché priva alle radici di sostentamento chi ha il coraggio di rischiare. Rappresenta l’ultimo anello, e anche quello più delicato, della crisi dell’intera finanza Usa che non si sa quando passerà.
 
Stato
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