T-Bronx5Y-10Y-Bund .. la notte dei morti viventi (vm18)

gipa69 ha scritto:
I cinesi al momento non possono liberarsi dalla "Grande Simbiosi" (come dice Coxe) con gli USA.
Attualmente ci rimetterebbero di più loro.....

valessero ancora le regole economiche classiche la prossima crisi sistemica ( dopo le tigri asiatiche, russia, messico ) chiama Cina

ASIA MAJOR 1998

index


cap.I


PRESENTAZIONE
di Giorgio Borsa

Il volume dello scorso anno recava nel titolo un punto interrogativo. Quando esso fu licenziato per la stampa, c’erano i primi segni della crisi asiatica, ma non era chiaro se si trattasse di una crisi congiunturale o strutturale. Ancor oggi, a un anno di distanza, non è facile dare una risposta a questo interrogativo; ma le sue cause e la sua dinamica possono essere ricostruite con una relative certezza.

La crisi è iniziata come una crisi finanziaria. Il primo sintomo è stato un crollo repentino della borsa in Thailandia il 2 luglio 1997 e la successiva svalutazione del baht. A questa è seguita, nella prima metà di luglio, una analoga svalutazione della rupiah indonesiana, del peso filippino e del ringgit malese, con una brusca caduta delle rispettive borse. Questo processo è continuato fin verso il gennaio del 1998, quando la moneta indonesiana risultava svalutata, rispetto al dollaro, dell’80%, quella thailandese del 51%, quella malese del 44%, quella filippina del 38%. Le rispettive borse avevano perduto, a quella data, tra il 50% e il 25%. C’è stata quindi una lenta, diseguale ripresa fino al giugno 1998, quando le borse e le monete hanno ricominciato a dar segni di debolezza.

Nel novembre 1997 la crisi si è estesa all’Estremo oriente. Il 21 novembre crolla il won sudcoreano, che perde oltre il 50% rispetto al dollaro; tre giorni dopo cessa ogni attività la più importante società di brokering giapponese, la Yamaichi, e chiudono due istituti finanziari poco meno importanti: la Sanyo Securities e la Hokkaido Taku Shoku.

Nel gennaio 1998 sembra essere coinvolta anche Hong Kong, dove viene messa in liquidazione la più importante banca di affari di quella città autonoma, la Peregrine Investments Holding, con ripercussioni, oltreché sulla borsa di Hong Kong, che perde il 30%, su quella dei paesi dell’Asia sudorientale; ma il dollaro di Hong Kong resiste, grazie al Currency Board System, un meccanismo che prevede la copertura costante in dollari USA della masse monetaria in circolazione; e grazie all’appoggio della Repubblica popolare cinese che è pronta ad impegnare le sue ingenti riserve in dollari USA a difesa della moneta di Hong Kong.

Quali le cause della crisi? Riducendo ad una formula una realtà complessa la si potrebbe definire una crisi di “sovrainvestimento”. Il successo dello sviluppo nei decenni precedenti ha spinto gli istituti di credito di quei paesi a fornire i mezzi finanziari per gli investimenti senza seguire i normali criteri di prudenza nella convinzione che lo sviluppo fosse un processo inarrestabile. A parte questa generica mancanza di prudenza ha giocato un ruolo negativo l’assenza di una legislazione capace di imporre chiarezza nei bilanci societari. Ciò ha reso difficile distinguere gli investimenti buoni da quelli cattivi ed ha aperto la strada a una gestione clientelare e corrotta del credito. La forte liquidità mondiale ha d’altra parte favorito l’estensione del credito ai paesi dell’Asia sudorientale anche da parte delle banche occidentali.

Un altro fattore della crisi è stato la rigidità delle politiche monetarie. Per difendere l’ancoraggio al dollaro giudicato fattore di stabilità si è praticata una politica di alti tassi che ha reso conveniente indebitarsi in dollari per poi prestare a tassi più elevati nelle valute locali. Dopo le prime svalutazioni la corsa alla ricopertura ha provocato un effetto valanga cosicché le svalutazioni si sono autoalimentate. La precarietà stessa degli investimenti finanziari ha inoltre indotto a richiedere prevalentemente garanzie immobiliari. Ai primi segni di crisi le banche hanno richiamato i finanziamenti provocando un crollo del mercato immobiliare che ha trascinato con sé le borse.

Il risultato di tutto ciò è stato che nei paesi interessati al fenomeno gli istituti di credito si sono trovati sommersi da una massa crescente di sofferenze e di crediti inesigibili. L’assenza di norme a tutela della chiarezza dei bilanci ha indotto a mascherare le perdite rendendo impossibile qualsiasi azione di risanamento finché è intervenuto il Fondo Monetario Internazionale (FMI) che ha condizionato gli ingenti aiuti finanziari concessi (17,2 miliardi di dollari alla Thailandia, 38 miliardi all’Indonesia, 60 miliardi alla Corea del sud) ad una ristrutturazione del sistema finanziario. L’opera di risanamento è resa difficile dalle complicazioni e lungaggini delle procedure fallimentari che male tutelano il creditore. Anche le banche occidentali e giapponesi sono rimaste prese in questa trappola. Le sofferenze delle sole banche europee sono valutate tra i 17 e i 20 miliardi di dollari. Come era inevitabile la crisi finanziaria ha innescato una crisi economica. Il sistema finanziario è lo strumento attraverso il quale avviene l’allocazione del credito e quindi gli investimenti e quindi lo sviluppo. Se anziché valutare le proposte e i progetti imprenditoriali finanziando e aiutando a crescere quelli credibili gli erogatori del credito operano con criteri clientelari e metodi corrotti l’impiego delle risorse non si traduce in sviluppo ma in illeciti arricchimenti individuali.

I segni di una crisi economica nei paesi dell’Asia orientale ci sono tutti: rallentamento della crescita o addirittura come in Indonesia in Thailandia in Malaysia (e come vedremo in Giappone) contrazione del PIL; fallimenti a catena; diminuzione dei consumi interni e della produzione industriale; stagflazione; comparsa della disoccupazione che ha colpito per primi i lavoratori stranieri immigrati numerosi specialmente in Malaysia e a Singapore e ora rinviati ai paesi d’origine. Anche le esportazioni che negli ultimi vent’anni sono state il motore dello sviluppo non hanno beneficiato delle ripetute svalutazioni (che per altro si sono reciprocamente annullate) e in qualche caso sono addirittura diminuite. Le industrie dei paesi interessati alla crisi sono principalmente industrie di trasformazione: un notevole ridimensionamento delle importazioni (di materie prime e semilavorati) stimato intorno al 30% ha frenato la ripresa delle esportazioni. Il generale dissesto degli istituti finanziari è un altro ostacolo al commercio internazionale. Specialmente in Thailandia ed in Indonesia è diventato difficile anche ottenere lettere di credito attraverso le banche locali per la totale sfiducia in queste da parte del mercato internazionale.

L’Indonesia è certamente il paese che ha maggiormente sofferto della crisi. La rupiah ha perso più dell’80% rispetto al dollaro USA. L’inflazione ha raggiunto 1’85% il debito nel settore privato ammonta a 80 miliardi di dollari USA le sofferenze valgono 32 miliardi di dollari circa il 75% degli impieghi; 1’intero sistema creditizio è praticamente insolvente e la corruzione è tale che il patrimonio di Suharto, dei numerosi figli e parenti e parenti dei parenti, tutti alla testa di importanti gruppi finanziari ed industriali, è stato stimato di poco inferiore al 50% del PIL.

In queste condizioni la più che trentennale dittatura di Suharto non ha retto. Il 21 maggio 1998 egli è stato costretto a dimettersi dalla furia popolare. La protesta è iniziata ai primi di maggio con dimostrazioni degli studenti dell’Università privata di Trisakti e con saccheggi e incendi di magazzini e negozi (specialmente di proprietà della odiatissima minoranza cinese). Il governo ha ordinato una dura repressione, che ha causato numerose vittime: ma l’incendio si è esteso a Giakarta, dove gli studenti hanno occupato la sede dell’Assemblea legislativa. Pare che alcuni reparti dell’esercito abbiano fraternizzato con i rivoltosi; sta di fatto che il capo di S.M. della Difesa, il moderato generale Wiranto, è riuscito a fare trasferire il comandante dei reparti speciali, Prabowo Subianto, un falco, genero di Suharto e ha preso in mano la situazione. Un gruppo di una trentina di rappresentanti musulmani in seno al Parlamento (composto, per altro, in maggioranza di membri designati dall’esercito o dal presidente) si è pronunciato contro Suharto e cosi ha fatto il segretario del partito di governo, il GOLKAR. A questo punto Suharto è stato costretto a cedere, almeno formalmente, il potere al vicepresidente Bacharudin Yusuf Habibie, suo figlioccio. Nonostante i suoi legami con il vecchio generale, Habibie ha dovuto non si sa con quanta convinzione impegnarsi a riformare la Costituzione e a indire nuove elezioni per l’anno prossimo.

Si è cosi confermato quanto gli osservatori più attenti da tempo affermano, che cioè i regimi autoritari, depositari dei cosiddetti “valori asiatici” possono essere stati più funzionali delle democrazie nel promuovere il decollo dello sviluppo; ma lo sviluppo, quanto più progredisce, genera spinte democratiche e favorisce l’emergere di una società complessa e articolata, che non è più disposta ad accettare passivamente le decisioni del potere. Come già a piazza Tiananmen, gli studenti che si sono rivoltati contro Suharto sono i figli di quella nuova borghesia cresciuta ed arricchitasi in Indonesia all’ombra della dittatura che, di fronte alle minacce della crisi economica, rivendicano per sé spazi di libertà e meccanismi di partecipazione.

Restano da fare alcune brevi considerazioni sui due maggiori paesi dell’Asia orientale, Cina e Giappone. La Cina, per ora, non è stata seriamente colpita. Alcuni problemi, come la debolezza del sistema creditizio, si ritrovano anche in Cina ove però hanno la loro radice nella struttura dell’economia e in particolare nell’obbligo fatto alle banche di finanziare le industrie statali in perdita. Anche la Cina soffre delle rigidità economiche proprie dei paesi dell’Asia sudorientale; ma i fondamentali sono, nel complesso, in regola. La Cina vanta una bilancia estera di parte corrente in forte attivo e l’indebitamento con l’estero è minimo e, quel che più conta, è in yuan, non in dollari. Le riserve valutarie sono nell’ordine di 140 miliardi di dollari USA e nonostante la Cina incominci a soffrire la concorrenza dei paesi che hanno svalutato, il suo governo è deciso a non svalutare lo yuan, una eventualità da tutti temutissima. Solo un ulteriore, forte deprezzamento della moneta giapponese potrebbe indurlo a cambiare politica.

Di segno diverso, la situazione in Giappone, dove la crisi asiatica ha fatto esplodere contraddizioni già esistenti. Quello che è in crisi in Giappone è il sistema politico-economico che, in questo dopoguerra, ha fatto di quella giapponese la seconda economia del mondo. Tale modello di sviluppo è una singolare mescolanza di autoritarismo e di democrazia, di dirigismo e di mercato, di lenta e sapiente costruzione di intese tra banche e imprese sotto l’occhio vigile della burocrazia, di disciplina e di frugalità confuciane, di duro lavoro e di una sottile, diffusa corruzione. Le difficoltà dell’economia giapponese sono cominciate otto anni fa. L’abbattimento dei tassi e l’allargamento del credito, seguiti alla rivalutazione dello yen, concordata con gli americani per frenare l’aggressività delle esportazioni giapponesi, avevano contribuito ad un abnorme aumento dei valori immobiliari. Quando, per frenare questa sregolata euforia, furono introdotte misure restrittive del credito, la bolla speculativa scoppiò, provocando il crollo del mercato immobiliare e innescando una crisi economico-finanziaria.

Di fronte a tale crisi, la politica del governo Hashimoto è stata incerta e contraddittoria. Ai primi segnali di ripresa, rivelatisi poi ingannevoli, nel marzo-aprile 1997, ha aumentato dal 3% al 5% l’imposta sui consumi e ha varato una serie di misure di contenimento del deficit che aveva raggiunto il 5,9 del PIL e di riduzione del debito pubblico, salito al 104% del PIL. Quando fu chiaro che queste misure aggravavano la crisi e che l’intero sistema creditizio era minacciato di insolvenza, ha cambiato politica e si è impegnato a far passare una serie di pacchetti finanziari sotto forma di tagli fiscali, di lavori pubblici, di aiuti alle banche rivolti non solo a risarcire i risparmiatori rimasti coinvolti, ma a salvare le banche stesse, anche le più dissestate.

Queste iniezioni di liquidità sono state ritenute un errore. Secondo i critici, il sistema finanziario giapponese soffre non di mancanza, ma di un eccesso di liquidità. La forte propensione al risparmio non è mai venuta meno, ma il risparmio è allocato in modo inefficiente, non circola, perché le banche sono bloccate dalle sofferenze, perché la rimunerazione del denaro è bassa, perché la borsa è falsata dalle partecipazioni incrociate e dai limiti all’obbligo di presentare bilanci consolidati; ma soprattutto perché una generale sfiducia nel sistema, estesa oramai anche a quello che ne fu il pilastro portante, la burocrazia statale, induce i risparmiatori a tenere i loro risparmi sotto il materasso, in previsione di un futuro sempre più incerto.

Per la prima volta dopo decenni di costante crescita, il PIL è in flessione (meno 5,3% in marzo 1998 su base annua) e ha fatto la sue comparsa la disoccupazione. In tre anni lo yen ha perso il 75% del suo valore e ha continuato a indebolirsi finché è intervenuto Clinton annunciando misure di sostegno. In cambio egli ha chiesto una ristrutturazione del sistema finanziario, più deregulation e maggiore aperture del mercato interno giapponese al mercato internazionale. Il governo sembra intenzionato a seguire questa via, ma non è facile, occorre vincere resistenze consolidate e realizzare finalmente quello che i giapponesi chiamano Kinyun biggu bren il big bang finanziario.

Intanto un altro big bang, più sinistro, è rintronato in Asia, quello delle cinque esplosioni nucleari in India dell’11-13 maggio, a cui hanno fatto seguito i sei esperimenti nucleari in Pakistan il 28-30 maggio. L’evento ha suscitato sgomento nella comunità internazionale. A parte che i due paesi sono divisi, da cinquant’anni, da un aspro conflitto per il Kashmir che ha già provocato tre guerre, due considerazioni si impongono. L’ingresso dei nuovi membri nel Club nucleare ne cambia la natura e ne mette in pericolo le regole non scritte. Finché erano i cinque membri del Consiglio di sicurezza ad avere il dito sul bottone, la bomba aveva il carattere di un deterrente estremo e c’erano meccanismi affidabili per evitare atti precipitosi e tragici errori. Né l’India né il Pakistan danno grande affidamento in questo senso. Nei due paesi la bomba è il prodotto di un nazionalismo nato dall’esperienza coloniale e perciò fondato su di un complesso di inferiorità. Basti considerare la gioia selvaggia e liberatoria con cui è stata accolta dalle popolazioni. In India il BJP un partito nazionalista hindu governa con il precario appoggio di una coalizione comprendente una trentina di partitini e gruppuscoli e la tentazione di usare la bomba per rafforzarsi all’interno non può che essere forte. Il Pakistan poi è percorso da ogni sorta di antagonismi politici, confessionali, regionali ed è al limite della dissoluzione.

Il secondo pericolo sta nel fatto stesso della moltiplicazione dei detentori della bomba, che vanifica le prospettive già incerte di un trattato di non proliferazione. I paesi che, dove più dove meno, sono in grado di costruire la bomba, sono una decina in Asia e nell’America latina il che tra l’altro moltiplica il pericolo che della bomba si impadronisca una delle tante organizzazioni terroristiche, una qualche Spectre in grado di ricattare l’umanità. Si avvererà la provocazione dell’“Economist” [E 6 giugno 1 998, p. 15] che, con riferimento alle prospettive del prossimo millennio, titolava un suo articolo: “Un pollo in ogni pentola, due macchine in ogni garage e una bomba in ogni cortile di casa”?

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
E: “The Economist”, London.
 
maremma maial... oh il che fa', scende dell'uno per cento?

tanto per fare qualche bischerata ho chiuso un paio di posizioni a 600
rimango con uno piccino che conto da 41 e qualche centinaio.
lungo per finta s'intende :)
 
dan siamo fregati, hanno preso Ciubecca mentre cercava di portarti il carico a casa madre :( interrogato ha fatto subito il nome di tale avvocato cesare :(
(ps: i precedenti penali sono per atti osceni in luogo pubblico :D)


SEQUESTRATE 3500 MONETE DA DUE EURO FALSE NEL BARESE
(ANSA) - BARI, 24 NOV - Militari della Guardia di finanza di
Bari, del gruppo tutela mercato beni e servizi del nucleo di
polizia tributaria, hanno sequestrato 3.500 monete da 2 euro
falsificate e hanno per questo denunciato una persona.
A quanto si è saputo, le monete erano nascoste in un garage
in un comune della provincia barese, nelle disponibilità di un
uomo disoccupato e con precedenti di polizia. Un primo esame
delle monete sequestrate ha messo in rilievo che le monete sono
di buona fattura, simili nella dimensione, nel peso e nella
realizzazione delle due facce. L'unico segno distintivo tra la
moneta ufficiale e quelle false sequestrate è stato rilevato
sul bordo di queste ultime, che a differenza di quella legale,
non presenta la caratteristiche stellette intervallate dal
numero '2'.
Il sequestro ha permesso di individuare una partita destinata
ad essere immessa sul mercato di denaro falso che, per le
caratteristiche presentate, poteva facilmente trarre in inganno
chiunque ne fosse venuto in possesso. Inoltre, il peso e le
dimensioni avrebbero - secondo gli investigatori - ingannato i
congegni automatici di distribuzione di beni e/o servizi, quali
ad esempio, cambiavalute automatici, distributori di gettoni.
 
Fleursdumal ha scritto:
dan siamo fregati, hanno preso Ciubecca mentre cercava di portarti il carico a casa madre :( interrogato ha fatto subito il nome di tale avvocato cesare :(
(ps: i precedenti penali sono per atti osceni in luogo pubblico :D)


SEQUESTRATE 3500 MONETE DA DUE EURO FALSE NEL BARESE
(ANSA) - BARI, 24 NOV - Militari della Guardia di finanza di
Bari, del gruppo tutela mercato beni e servizi del nucleo di
polizia tributaria, hanno sequestrato 3.500 monete da 2 euro
falsificate e hanno per questo denunciato una persona.
A quanto si è saputo, le monete erano nascoste in un garage
in un comune della provincia barese, nelle disponibilità di un
uomo disoccupato e con precedenti di polizia. Un primo esame
delle monete sequestrate ha messo in rilievo che le monete sono
di buona fattura, simili nella dimensione, nel peso e nella
realizzazione delle due facce. L'unico segno distintivo tra la
moneta ufficiale e quelle false sequestrate è stato rilevato
sul bordo di queste ultime, che a differenza di quella legale,
non presenta la caratteristiche stellette intervallate dal
numero '2'.
Il sequestro ha permesso di individuare una partita destinata
ad essere immessa sul mercato di denaro falso che, per le
caratteristiche presentate, poteva facilmente trarre in inganno
chiunque ne fosse venuto in possesso. Inoltre, il peso e le
dimensioni avrebbero - secondo gli investigatori - ingannato i
congegni automatici di distribuzione di beni e/o servizi, quali
ad esempio, cambiavalute automatici, distributori di gettoni.

o porcaaa trota...mi servivano per prendere i carrelli alla coop....FANCCCULO CIUBE :lol:

se lo difende il Ns Cè....minimo gli danno l'inpiccagione :lol:
 
gengiskan ha scritto:
maremma maial... oh il che fa', scende dell'uno per cento?

tanto per fare qualche bischerata ho chiuso un paio di posizioni a 600
rimango con uno piccino che conto da 41 e qualche centinaio.
lungo per finta s'intende :)

è un'illusione ottica....chiuderà cmq con il segno + :up:
 
stiamo un pò trascurando il T-bronx , su chiusura sopra la quota totemica 113,5 si aprono vaste praterie al rialzo :mumble: i bonds 'nsomma si son accodati al valutario
 
Fleursdumal ha scritto:
stiamo un pò trascurando il T-bronx , su chiusura sopra la quota totemica 113,5 si aprono vaste praterie al rialzo :mumble: i bonds 'nsomma si son accodati al valutario

per te

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Fleursdumal ha scritto:
gipa69 ha scritto:
I cinesi al momento non possono liberarsi dalla "Grande Simbiosi" (come dice Coxe) con gli USA.
Attualmente ci rimetterebbero di più loro.....

valessero ancora le regole economiche classiche la prossima crisi sistemica ( dopo le tigri asiatiche, russia, messico ) chiama Cina

ASIA MAJOR 1998

index


cap.I


PRESENTAZIONE
di Giorgio Borsa

Il volume dello scorso anno recava nel titolo un punto interrogativo. Quando esso fu licenziato per la stampa, c’erano i primi segni della crisi asiatica, ma non era chiaro se si trattasse di una crisi congiunturale o strutturale. Ancor oggi, a un anno di distanza, non è facile dare una risposta a questo interrogativo; ma le sue cause e la sua dinamica possono essere ricostruite con una relative certezza.

La crisi è iniziata come una crisi finanziaria. Il primo sintomo è stato un crollo repentino della borsa in Thailandia il 2 luglio 1997 e la successiva svalutazione del baht. A questa è seguita, nella prima metà di luglio, una analoga svalutazione della rupiah indonesiana, del peso filippino e del ringgit malese, con una brusca caduta delle rispettive borse. Questo processo è continuato fin verso il gennaio del 1998, quando la moneta indonesiana risultava svalutata, rispetto al dollaro, dell’80%, quella thailandese del 51%, quella malese del 44%, quella filippina del 38%. Le rispettive borse avevano perduto, a quella data, tra il 50% e il 25%. C’è stata quindi una lenta, diseguale ripresa fino al giugno 1998, quando le borse e le monete hanno ricominciato a dar segni di debolezza.

Nel novembre 1997 la crisi si è estesa all’Estremo oriente. Il 21 novembre crolla il won sudcoreano, che perde oltre il 50% rispetto al dollaro; tre giorni dopo cessa ogni attività la più importante società di brokering giapponese, la Yamaichi, e chiudono due istituti finanziari poco meno importanti: la Sanyo Securities e la Hokkaido Taku Shoku.

Nel gennaio 1998 sembra essere coinvolta anche Hong Kong, dove viene messa in liquidazione la più importante banca di affari di quella città autonoma, la Peregrine Investments Holding, con ripercussioni, oltreché sulla borsa di Hong Kong, che perde il 30%, su quella dei paesi dell’Asia sudorientale; ma il dollaro di Hong Kong resiste, grazie al Currency Board System, un meccanismo che prevede la copertura costante in dollari USA della masse monetaria in circolazione; e grazie all’appoggio della Repubblica popolare cinese che è pronta ad impegnare le sue ingenti riserve in dollari USA a difesa della moneta di Hong Kong.

Quali le cause della crisi? Riducendo ad una formula una realtà complessa la si potrebbe definire una crisi di “sovrainvestimento”. Il successo dello sviluppo nei decenni precedenti ha spinto gli istituti di credito di quei paesi a fornire i mezzi finanziari per gli investimenti senza seguire i normali criteri di prudenza nella convinzione che lo sviluppo fosse un processo inarrestabile. A parte questa generica mancanza di prudenza ha giocato un ruolo negativo l’assenza di una legislazione capace di imporre chiarezza nei bilanci societari. Ciò ha reso difficile distinguere gli investimenti buoni da quelli cattivi ed ha aperto la strada a una gestione clientelare e corrotta del credito. La forte liquidità mondiale ha d’altra parte favorito l’estensione del credito ai paesi dell’Asia sudorientale anche da parte delle banche occidentali.

Un altro fattore della crisi è stato la rigidità delle politiche monetarie. Per difendere l’ancoraggio al dollaro giudicato fattore di stabilità si è praticata una politica di alti tassi che ha reso conveniente indebitarsi in dollari per poi prestare a tassi più elevati nelle valute locali. Dopo le prime svalutazioni la corsa alla ricopertura ha provocato un effetto valanga cosicché le svalutazioni si sono autoalimentate. La precarietà stessa degli investimenti finanziari ha inoltre indotto a richiedere prevalentemente garanzie immobiliari. Ai primi segni di crisi le banche hanno richiamato i finanziamenti provocando un crollo del mercato immobiliare che ha trascinato con sé le borse.

Il risultato di tutto ciò è stato che nei paesi interessati al fenomeno gli istituti di credito si sono trovati sommersi da una massa crescente di sofferenze e di crediti inesigibili. L’assenza di norme a tutela della chiarezza dei bilanci ha indotto a mascherare le perdite rendendo impossibile qualsiasi azione di risanamento finché è intervenuto il Fondo Monetario Internazionale (FMI) che ha condizionato gli ingenti aiuti finanziari concessi (17,2 miliardi di dollari alla Thailandia, 38 miliardi all’Indonesia, 60 miliardi alla Corea del sud) ad una ristrutturazione del sistema finanziario. L’opera di risanamento è resa difficile dalle complicazioni e lungaggini delle procedure fallimentari che male tutelano il creditore. Anche le banche occidentali e giapponesi sono rimaste prese in questa trappola. Le sofferenze delle sole banche europee sono valutate tra i 17 e i 20 miliardi di dollari. Come era inevitabile la crisi finanziaria ha innescato una crisi economica. Il sistema finanziario è lo strumento attraverso il quale avviene l’allocazione del credito e quindi gli investimenti e quindi lo sviluppo. Se anziché valutare le proposte e i progetti imprenditoriali finanziando e aiutando a crescere quelli credibili gli erogatori del credito operano con criteri clientelari e metodi corrotti l’impiego delle risorse non si traduce in sviluppo ma in illeciti arricchimenti individuali.

I segni di una crisi economica nei paesi dell’Asia orientale ci sono tutti: rallentamento della crescita o addirittura come in Indonesia in Thailandia in Malaysia (e come vedremo in Giappone) contrazione del PIL; fallimenti a catena; diminuzione dei consumi interni e della produzione industriale; stagflazione; comparsa della disoccupazione che ha colpito per primi i lavoratori stranieri immigrati numerosi specialmente in Malaysia e a Singapore e ora rinviati ai paesi d’origine. Anche le esportazioni che negli ultimi vent’anni sono state il motore dello sviluppo non hanno beneficiato delle ripetute svalutazioni (che per altro si sono reciprocamente annullate) e in qualche caso sono addirittura diminuite. Le industrie dei paesi interessati alla crisi sono principalmente industrie di trasformazione: un notevole ridimensionamento delle importazioni (di materie prime e semilavorati) stimato intorno al 30% ha frenato la ripresa delle esportazioni. Il generale dissesto degli istituti finanziari è un altro ostacolo al commercio internazionale. Specialmente in Thailandia ed in Indonesia è diventato difficile anche ottenere lettere di credito attraverso le banche locali per la totale sfiducia in queste da parte del mercato internazionale.

L’Indonesia è certamente il paese che ha maggiormente sofferto della crisi. La rupiah ha perso più dell’80% rispetto al dollaro USA. L’inflazione ha raggiunto 1’85% il debito nel settore privato ammonta a 80 miliardi di dollari USA le sofferenze valgono 32 miliardi di dollari circa il 75% degli impieghi; 1’intero sistema creditizio è praticamente insolvente e la corruzione è tale che il patrimonio di Suharto, dei numerosi figli e parenti e parenti dei parenti, tutti alla testa di importanti gruppi finanziari ed industriali, è stato stimato di poco inferiore al 50% del PIL.

In queste condizioni la più che trentennale dittatura di Suharto non ha retto. Il 21 maggio 1998 egli è stato costretto a dimettersi dalla furia popolare. La protesta è iniziata ai primi di maggio con dimostrazioni degli studenti dell’Università privata di Trisakti e con saccheggi e incendi di magazzini e negozi (specialmente di proprietà della odiatissima minoranza cinese). Il governo ha ordinato una dura repressione, che ha causato numerose vittime: ma l’incendio si è esteso a Giakarta, dove gli studenti hanno occupato la sede dell’Assemblea legislativa. Pare che alcuni reparti dell’esercito abbiano fraternizzato con i rivoltosi; sta di fatto che il capo di S.M. della Difesa, il moderato generale Wiranto, è riuscito a fare trasferire il comandante dei reparti speciali, Prabowo Subianto, un falco, genero di Suharto e ha preso in mano la situazione. Un gruppo di una trentina di rappresentanti musulmani in seno al Parlamento (composto, per altro, in maggioranza di membri designati dall’esercito o dal presidente) si è pronunciato contro Suharto e cosi ha fatto il segretario del partito di governo, il GOLKAR. A questo punto Suharto è stato costretto a cedere, almeno formalmente, il potere al vicepresidente Bacharudin Yusuf Habibie, suo figlioccio. Nonostante i suoi legami con il vecchio generale, Habibie ha dovuto non si sa con quanta convinzione impegnarsi a riformare la Costituzione e a indire nuove elezioni per l’anno prossimo.

Si è cosi confermato quanto gli osservatori più attenti da tempo affermano, che cioè i regimi autoritari, depositari dei cosiddetti “valori asiatici” possono essere stati più funzionali delle democrazie nel promuovere il decollo dello sviluppo; ma lo sviluppo, quanto più progredisce, genera spinte democratiche e favorisce l’emergere di una società complessa e articolata, che non è più disposta ad accettare passivamente le decisioni del potere. Come già a piazza Tiananmen, gli studenti che si sono rivoltati contro Suharto sono i figli di quella nuova borghesia cresciuta ed arricchitasi in Indonesia all’ombra della dittatura che, di fronte alle minacce della crisi economica, rivendicano per sé spazi di libertà e meccanismi di partecipazione.

Restano da fare alcune brevi considerazioni sui due maggiori paesi dell’Asia orientale, Cina e Giappone. La Cina, per ora, non è stata seriamente colpita. Alcuni problemi, come la debolezza del sistema creditizio, si ritrovano anche in Cina ove però hanno la loro radice nella struttura dell’economia e in particolare nell’obbligo fatto alle banche di finanziare le industrie statali in perdita. Anche la Cina soffre delle rigidità economiche proprie dei paesi dell’Asia sudorientale; ma i fondamentali sono, nel complesso, in regola. La Cina vanta una bilancia estera di parte corrente in forte attivo e l’indebitamento con l’estero è minimo e, quel che più conta, è in yuan, non in dollari. Le riserve valutarie sono nell’ordine di 140 miliardi di dollari USA e nonostante la Cina incominci a soffrire la concorrenza dei paesi che hanno svalutato, il suo governo è deciso a non svalutare lo yuan, una eventualità da tutti temutissima. Solo un ulteriore, forte deprezzamento della moneta giapponese potrebbe indurlo a cambiare politica.

Di segno diverso, la situazione in Giappone, dove la crisi asiatica ha fatto esplodere contraddizioni già esistenti. Quello che è in crisi in Giappone è il sistema politico-economico che, in questo dopoguerra, ha fatto di quella giapponese la seconda economia del mondo. Tale modello di sviluppo è una singolare mescolanza di autoritarismo e di democrazia, di dirigismo e di mercato, di lenta e sapiente costruzione di intese tra banche e imprese sotto l’occhio vigile della burocrazia, di disciplina e di frugalità confuciane, di duro lavoro e di una sottile, diffusa corruzione. Le difficoltà dell’economia giapponese sono cominciate otto anni fa. L’abbattimento dei tassi e l’allargamento del credito, seguiti alla rivalutazione dello yen, concordata con gli americani per frenare l’aggressività delle esportazioni giapponesi, avevano contribuito ad un abnorme aumento dei valori immobiliari. Quando, per frenare questa sregolata euforia, furono introdotte misure restrittive del credito, la bolla speculativa scoppiò, provocando il crollo del mercato immobiliare e innescando una crisi economico-finanziaria.

Di fronte a tale crisi, la politica del governo Hashimoto è stata incerta e contraddittoria. Ai primi segnali di ripresa, rivelatisi poi ingannevoli, nel marzo-aprile 1997, ha aumentato dal 3% al 5% l’imposta sui consumi e ha varato una serie di misure di contenimento del deficit che aveva raggiunto il 5,9 del PIL e di riduzione del debito pubblico, salito al 104% del PIL. Quando fu chiaro che queste misure aggravavano la crisi e che l’intero sistema creditizio era minacciato di insolvenza, ha cambiato politica e si è impegnato a far passare una serie di pacchetti finanziari sotto forma di tagli fiscali, di lavori pubblici, di aiuti alle banche rivolti non solo a risarcire i risparmiatori rimasti coinvolti, ma a salvare le banche stesse, anche le più dissestate.

Queste iniezioni di liquidità sono state ritenute un errore. Secondo i critici, il sistema finanziario giapponese soffre non di mancanza, ma di un eccesso di liquidità. La forte propensione al risparmio non è mai venuta meno, ma il risparmio è allocato in modo inefficiente, non circola, perché le banche sono bloccate dalle sofferenze, perché la rimunerazione del denaro è bassa, perché la borsa è falsata dalle partecipazioni incrociate e dai limiti all’obbligo di presentare bilanci consolidati; ma soprattutto perché una generale sfiducia nel sistema, estesa oramai anche a quello che ne fu il pilastro portante, la burocrazia statale, induce i risparmiatori a tenere i loro risparmi sotto il materasso, in previsione di un futuro sempre più incerto.

Per la prima volta dopo decenni di costante crescita, il PIL è in flessione (meno 5,3% in marzo 1998 su base annua) e ha fatto la sue comparsa la disoccupazione. In tre anni lo yen ha perso il 75% del suo valore e ha continuato a indebolirsi finché è intervenuto Clinton annunciando misure di sostegno. In cambio egli ha chiesto una ristrutturazione del sistema finanziario, più deregulation e maggiore aperture del mercato interno giapponese al mercato internazionale. Il governo sembra intenzionato a seguire questa via, ma non è facile, occorre vincere resistenze consolidate e realizzare finalmente quello che i giapponesi chiamano Kinyun biggu bren il big bang finanziario.

Intanto un altro big bang, più sinistro, è rintronato in Asia, quello delle cinque esplosioni nucleari in India dell’11-13 maggio, a cui hanno fatto seguito i sei esperimenti nucleari in Pakistan il 28-30 maggio. L’evento ha suscitato sgomento nella comunità internazionale. A parte che i due paesi sono divisi, da cinquant’anni, da un aspro conflitto per il Kashmir che ha già provocato tre guerre, due considerazioni si impongono. L’ingresso dei nuovi membri nel Club nucleare ne cambia la natura e ne mette in pericolo le regole non scritte. Finché erano i cinque membri del Consiglio di sicurezza ad avere il dito sul bottone, la bomba aveva il carattere di un deterrente estremo e c’erano meccanismi affidabili per evitare atti precipitosi e tragici errori. Né l’India né il Pakistan danno grande affidamento in questo senso. Nei due paesi la bomba è il prodotto di un nazionalismo nato dall’esperienza coloniale e perciò fondato su di un complesso di inferiorità. Basti considerare la gioia selvaggia e liberatoria con cui è stata accolta dalle popolazioni. In India il BJP un partito nazionalista hindu governa con il precario appoggio di una coalizione comprendente una trentina di partitini e gruppuscoli e la tentazione di usare la bomba per rafforzarsi all’interno non può che essere forte. Il Pakistan poi è percorso da ogni sorta di antagonismi politici, confessionali, regionali ed è al limite della dissoluzione.

Il secondo pericolo sta nel fatto stesso della moltiplicazione dei detentori della bomba, che vanifica le prospettive già incerte di un trattato di non proliferazione. I paesi che, dove più dove meno, sono in grado di costruire la bomba, sono una decina in Asia e nell’America latina il che tra l’altro moltiplica il pericolo che della bomba si impadronisca una delle tante organizzazioni terroristiche, una qualche Spectre in grado di ricattare l’umanità. Si avvererà la provocazione dell’“Economist” [E 6 giugno 1 998, p. 15] che, con riferimento alle prospettive del prossimo millennio, titolava un suo articolo: “Un pollo in ogni pentola, due macchine in ogni garage e una bomba in ogni cortile di casa”?

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
E: “The Economist”, London.

Secondo me una crisi Cinese è molto probabile...naturalmente è una opinione sempre rettificabile ma il sistema di gestione della propria economia è alquanto bizzarra.
Mentre l'India si mostra più trasparente nella sia crescita l'econmia Cines e è alquanto opaca e quindi può riservare sorprese impreviste.
 
gipa69 ha scritto:
Secondo me una crisi Cinese è molto probabile...naturalmente è una opinione sempre rettificabile ma il sistema di gestione della propria economia è alquanto bizzarra.
Mentre l'India si mostra più trasparente nella sia crescita l'econmia Cines e è alquanto opaca e quindi può riservare sorprese impreviste.

E giusta per aggiungere altra carne al fuoco di lungo periodo sarebbe interessante immaginarsi quale risposta potrebbero dare i Cinesi ad una loro crisi economica :rolleyes:
 

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