Tassi, QE e carry trade

Draghi prevede sostenuto aumento inflazione
Gli sviluppi della situazione, ha spiegato il numero uno della Bce, porteranno a un «sostenuto aumento dell'inflazione». Le «nostre misure di politica monetaria», aggiunge Draghi, «aiuteranno l’inflazione a salire vicino ma al di sotto del 2%».
«Sulla base delle informazioni disponibili - aggiunge Draghi - e dei futuri prezzi del petrolio, l’inflazione resterà molto bassa o ancora negativa nei prossimi mesi. Aiutata dal favorevole impatto della politica monetaria sulla domanda aggregata, dall'indebolimento dell’euro e dall’aumento preventivato dei prezzi del petrolio nei prossimi anni. I tassi di inflazione sono previsti invece in rialzo alla fine del 2015 e ulteriormente in aumento nel 2016 e 2017».


Draghi aggredito da una manifestante di «Blockupy» - Il Sole 24 ORE
 
EUR USD: Enrico Gei fa il punto della situazione!


Enrico Gei | Articolo pubblicato il 17/04/2015 11:00:15
La più “desiderata” delle coppie è sempre lei: eurodollaro e quindi, a grande richiesta, torniamo a fare il punto della situazione.


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La più “desiderata” delle coppie è sempre lei: eurodollaro e quindi, a grande richiesta, torniamo a fare il punto della situazione.
Come nostra abitudine, partiamo dal lungo periodo per capire “dove siamo”: resta in atto il trend ribassista generatosi dalla rottura del triangolo di lungo periodo, rottura che ha successivamente portato i prezzi in un netto canale ribassista, canale che sembrerebbe avere il suo naturale epilogo in area 1.



Attualmente i prezzi sono in una fase di congestione e stazionano sotto la resistenza posta in area 1,09/1,10. Scendendo nel dettaglio, cerchiamo come sempre uno spunto operativo: nel secondo grafico vediamo come sia terminato un ciclo mensile e ne sia partito un altro, con la sua normale spinta rialzista di inizio ciclo; monitoriamo il movimento per cogliere il top dell’attuale ciclo: se il tempo coinciderà col top dei prezzi alla resistenza posta a 1,10 allora potremo aprire una posizione short, con ottimo risk/reward e sempre a favore del trend primario.



Si noti che le medie macd indicano che siamo ancora dentro al trend ribassista.

Buon trading a tutti !

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SP500: COME RIMANERE APPESI PER QUASI IN UN ANNO IN PROSSIMITA' DEI MASSIMI STORICI!!!!

Pubblicato il 06/05/2015 18:42 da salvatore.rovito


GRAFICO SP500 LUNGO PERIODO
Partiamo da una semplice considerazione, facilmente constatabile da chiunque, dando uno sguardo al grafico dell'ultimo anno di sp500:

SP500 ULTIMI 12 MESI
Pensate che già a luglio 2014 il principe degli indici internazionali era già arrivato in area 1985-2020, su cui di fatto ha lavorato fino a settembre, dando poi il via al ribasso fake a V che tutti conosciamo fatto ad ottobre, con il test di area 1820-1840 (primissimo supporto weekly), da cui è ripartito con estrema direzionalità grazie ai colpi del rafforzamento del Qe in salsa giapponese prima e cinese poi.
Tra novembre e dicembre 2014 abbiamo migliorato marginalmente i massimi, arrivando a lavorare tra 2075-2095.
E dopo una fase di nervosi zigzag privi di direzione, negli ultimi 3 mesi abbiamo lavorato in area 2110-2125.
Non ci vuole un genio per capire quel che sta accadendo un pò su tutti gli indici americani (giorni fa ho postato l'articolo sui distribution box sul nasdaq).
Ne vi sono dubbi su come alla fine si verrà fuori da questa condizione tecnica.
Il problema è solamente quando, perchè su questi mercati completamente anestetizzati e assueffati dall'immensa liquidità pompata nel sistema dalle banche centrali, in assenza di valide alternativa (bruciate una ad una dalla manipolazione delle stesse banche centrali), la liquidità non sa proprio dove altro andare. E siccome nel sistema ne viene pompata ancora tanta - nonostante la Fed, almeno per ora, abbia smesso da un pò - alla fine ogni piccola correzioncina viene puntualmente usata per comprare.
Il problema è che chi compra sa bene che non vi è grande spazio per andare molto più su, vuoi perchè il corporate america non sconta assolutamente il forte rafforzamento del dollaro contro tutte le valute, vuoi perchè lo spauracchio rialzo tassi tiene banco nonostante le rassicurazione della Fed che per ora non se ne parli (che poi è il motivo per cui euro/usd è in deciso recupero nelle ultime settimane dopo una caduta del 30% in 7 mesi), vuoi perchè gli indici americani sono gli unici finora a non aver fatto un vero movimento secondario correttiva ribasista, sebbene sempre inserito in un primario rialzisto che è e resterà tale fino a quando 1600-1650 faranno da supporto. E infatti, ad ogni marginale massimo, puntuale arriva lo sgonfiamento.
Basta vedere i grafici di lungo di questo rialzo che parte dai 666 del marzo 2009 per capire che siamo appesi di fatto da oltre un anno in prossimità dei massimi storici, aspettando solo il momento ed il pretesto giusto per dare il via alle danze.
Tutte i grafici dal daily al mensile evidenziano in maniera uniforme sugli indici americani come si stiano sfidando le leggi della fisica e della statistica, con anomalie plateali confermate da tutti gli indicatori. Ma ragazzi, questi sono mercati del made in central banks world!!!
Le banche centrali, con il loro aggressivo e spregiudicato GRANDE ESPERIMENTO, iniziato dalla Fed e condotto in maniera sempre piu coordinata a livello globale dal 2008 in poi, che ha prodotto il massacro dei bilanci come mai si era visto prima, hanno portato a questa situazione in cui è difficile prevedere l'evoluzione, anche perchè tutti hanno una gran paura fottura anche solo di cominciare a vedere cosa può succedere se lasciano andare il giocattolo al loro destino (la Bns, e soprattutto tanti trader e broker che sono stati polverizzati dall'improvvisa cancellazione del floor a 1,2 su eur/chf, ha sperimentato sulla sua pelle cosa significhi).
Giusto per dare qualche numero: la Federal Reserve nel 2007, ossia prima dello scoppio della crisi dei subprime e del fallimento di Lehman Brothers (voluto senza ombra di dubbio...oramai in tutti gli ambiti, militare finanziario politico etc gli americani sanno che non posso far ingurgitare agli americani qualsiasi cosa se prima non provocano una PEARL HARBOUR che ne stimoli il consenso) aveva un bilancio di 869 miliardi; oggi, con tutto che ha smesso per ora di fare Qe, è attorno ai 4.500 miliardi. Nel frattempo il debito pubblico statunitense è andato sopra i 18000 mld. E, per chiudere, non c'è un parametro economico che sia migliore rispetto al 2007 (e per la cronaca, i food stamp sono piu che raddoppiati nel frattempo).
L'importante è dunque tenere a mente quanto detto sopra, rimanendo operativamente "sempre con un il sedere attaccato a un solido muro di cemento armato".
Siamo in territori completamente inesplorati, che, nel bene e soprattutto nel male, non sappiamo dove ci potranno condurre con esattezza.
L'unico cosa che sappiamo con certezza è che queste politiche monetarie, fatte di valanghe di denaro facile alle multinazionali e alla spregiudicata lobby di banchieri che tira le fila di tutti i politici a livello globale, e quindi solo a chi si trova nel sempre piu ristretto cerchio magico, ha prodotto ovunque una concentrazione spaventosa di ricchezza in un sempre piu ristretto numero di mani, aumentando a dismisura in maniera esponenziale le disuaglianze sociali e producendo distorsioni e squilibri abnormi, sopratutto sulle economie piu deboli.
E al di là di quel che i mercati vogliano mai dire, questa è l'unica verità assoluta che conta.


SP500 ZOOM
 
La grande immoderazione: come la FED ha piantato i semi della prossima recessione

Di Francesco Simoncelli , il 15 maggio 2015 2 Comment
di David Stockman

http://davidstockmanscontracorner.c...ion-how-the-fed-is-sowing-the-next-recession/
http://davidstockmanscontracorner.c...ion-how-the-fed-is-sowing-the-next-recession/
Nel febbraio 2004 Ben Bernanke dichiarò che il ciclo economico era stata domato e si inchinò davanti alla gestione monetaria illuminata, sostenendo che fosse la fonte principale di questo sviluppo benefico. Esattamente 55 mesi più tardi terrorizzò la leadership del Congresso e il Presidente con la sua spaventosa previsione: una Grande Depressione 2.0 era proprio dietro l’angolo.
Quanto al motivo per cui si sbagliasse, Bernanke non l’ha mai detto. Né ha spiegato perché l’economia statunitense, ormai “stabile”, fosse improvvisamente arrivata sul bordo di un abisso, nonostante la stampa di denaro energetica da parte della FED; il suo bilancio era cresciuto di $150 miliardi all’anno, o quasi il 4.5%, tra il febbraio 2004 e il fallimento della Lehman Brothers.
Infatti sei anni e mezzo dopo la crisi finanziaria — evento che ha sminuito la Grande Moderazione — il politburo monetario e i suoi accoliti a Wall Street non hanno offerto alcuna spiegazione coerente sul perché si profilasse l’Armageddon e il peggior ciclo economico sin dagli anni ’30. Ovviamente la loro blanda scusa recitava che “la regolamentazione prudenziale” aveva fallito.

Infatti qua sotto viene raffigurata la crescita impressionante del debito delle famiglie nell’economia degli Stati Uniti tra i due eventi finanziari più importanti di questo secolo — il bust delle dotcom e la crisi Lehman. Le famiglie si sono letteralmente strafogate di prestiti durante tale periodo, tirando fuori $3 miliardi dai MEW (mortgage equity withdrawal) sui loro bancomat, ovvero, l’equity delle case. Ma affermare che questa orgia di prestiti sia stata causata da un’insufficiente vigilanza bancaria è un insulto all’intelligenza. Si potrebbe dire allo stesso modo che il “contagio finanziario” che ha alimentato la crisi, è stato causato da una misteriosa cometa proveniente dallo spazio profondo!
In realtà, i $7,000 miliardi di nuovi prestiti alle famiglie durante tal periodo — o più di tutto il debito delle famiglie alla fine del secolo scorso — sono il risultato della politica della banca centrale. Sono stati i tassi della FED all’1% e gli azzardi nel mercato azionario che hanno innescato la frenesia nel mercato immobiliare e in quello dei mutui, nonostante nel febbraio 2004 Bernanke si pavoneggiasse decantando la sua abilità di gestione.


Non avendo mai spiegato le cause della grande crisi finanziaria (GCF), o ammesso la sua complicità, la FED ha comunque raddoppiato energicamente le stesse tossine monetarie che hanno causato l’ultima crisi.

Infatti, tra il crollo del settembre 2008 che Bernanke sosteneva non potesse accadere

e il crollo in agguato ancora oggi,
il bilancio della FED è salito del 4.5X, o ad un CAGR del 27%, per quasi sette anni consecutivi.


Così è stata pienamente gonfiata la terza bolla finanziaria più grande di questo secolo. E ci sono molteplici segni che quello che abbiamo qui è una Grande Immoderazione — uno sviluppo funesto, e non benefico, per cui può essere indubbiamente incolpata la banca centrale.
In particolare, i dati di ieri sull’impennata del rapporto tra vendite all’ingrosso/inventari (I/S ratio) non solo rappresentano un pugno allo stomaco della “velocità di fuga” per il quinto anno consecutivo; ci offrono informazioni cruciali su un problema di cui la FED non ama parlare. Vale a dire, la questione della trasmissione della politica monetaria — o la via attraverso la quale le manipolazioni del tasso d’interesse, le espansioni di bilancio e l’orientamento verbale della FED raggiungono il sistema finanziario più ampio e la macroeconomia.
Il canale della trasmissione della politica monetaria è morto stecchito, perché l’economia degli Stati Uniti ha raggiunto una condizione di picco del debito. Ma dal momento che il drappello di keynesiani presso l’Eccles Building si rifiuta di riconoscere questo fatto e persiste nel voler perseguire un massiccio stimolo monetario, è stato scavato un nuovo canale di trasmissione da quello che una volta era un sistema finanziario sano.

Chiamatelo pure “canale privilegiato dei top manager per il mercato toro”.

Il fatto evidente, ma mai riconosciuto nel nostro mondo dominato dalle banche centrali, è che i top manager non gestiscono più le organizzazioni e le operazioni delle loro aziende; la maggior parte di loro gestisce i prezzi azionari delle corporazioni e i propri programmi d’incentivazione.
Se volete qualche prova, vi basta guardare alla situazione degli utili netti per le società nell’S&P 500. Fino al terzo trimestre 2014 hanno generato $945 miliardi di utili netti e hanno scaraventato il 95% di questa cifra, circa $895 miliardi, nel casinò di Wall Street sotto forma di riacquisti di azioni e dividendi.
Alla luce di questi numeri mozzafiato, non credete che gli amministratori delegati abbiano in mente solo i prezzi delle azioni e i valori delle opzioni?
E’ ovvio che sia così, altrimenti non si spiegherebbe il numero successivo. Entro la fine dell’attuale trimestre, gli amministratori delegati e i consigli d’amministrazione avranno scaraventato la somma impressionante di $4,000 miliardi in dividendi e riacquisti di azioni, o l’85% degli utili delle 500 società più grandi con sede in America sin dal marzo 2009.


La verità è che il nuovo canale di trasmissione della politica monetaria in quest’epoca di folle stampa di denaro, è stato scavato nel casinò di Wall Street. E dopo le giganti bolle finanziarie e i bust di questo secolo — è evidente che questo nuovo canale di trasmissione sia decisamente pro-ciclico. Cioè, non attutisce il ciclo economico — lo amplifica e soprattutto ne incrementa le oscillazioni.
Come mostrato qui sotto, durante il periodo che ha preceduto la grande crisi finanziaria, è salita la quantità di denaro contante finita nel mercato azionario; e questo aumento riflette un’ampiezza di guadagno di gran lunga superiore al tasso di crescita degli utili in suddetto periodo. Ma subito dopo che l’indice S&P 500 raggiunse il picco a circa 1570 nell’ottobre del 2007, cominciò a scendere il livello dei riacquisti e dei dividendi — e poi crollarono durante la crisi finanziaria e la grande recessione del 2008-2009. Nell’ultimo trimestre del 2009 la quantità di denaro che veniva pompata nel mercato azionario era di soli $85 miliardi a trimestre, o solo un terzo rispetto al suo precedente picco.
Inutile dire che oggi la storia si sta ripetendo e il motivo non è difficile da intuire.
Nel terzo trimestre del 2009, quando l’economia avrebbe iniziato a rimbalzare, le società nell’S&P 500 distribuirono solo il 63% dei loro utili netti tra dividendi e riacquisti. Per contro, cinque anni più tardi, dopo un aumento del 200% dell’indice azionario, le società nell’S&P 500 hanno distribuito $234 miliardi rispetto ai $244 miliardi di utile netto.


Proprio così.
Lo scorso autunno i top manager erano preda di un sentimento rialzista tale che hanno distribuito il 96% dei guadagni agli avventori del casinò. A quanto pare i dirigenti aziendali americani risescono a pensare solo ai prezzi delle azioni e ai bonus.

Inutile dire che quando evaporeranno le “offerte d’acquisto” sostenute dal nuovo canale della trasmissione monetaria, insieme ad esse evaporeranno anche i guadagni nel mercato azionario.

E, soprattutto, i punti del grafico utilizzati dai robo-trader e dai compratori durante i ribassi sono risultati inutili — causando il tipo di tonfo che si è verificato nel NASDAQ durante il marzo-aprile 2000 e quello dal crash della Lehman fino al marzo 2009.


Sfortunatamente questa storia non finisce qui.
Dopo ogni bust la FED ha reflazionato il mercato finanziario mediante il finanziamento dei carry trade e le massicce iniezioni di liquidità nei canyon di Wall Street, di conseguenza l’aumento incessante delle azioni non solo ha incentivato le ondate di riacquisto di azioni e il pagamento di dividendi spropositati sopra indicati, ma ha anche causato una secondo comportamento pro-ciclico (e altrettanto controproducente).
Vale a dire, poiché i dirigenti aziendali ossessionati dalla borsa sono diventati sempre più fiduciosi nei confronti del ciclo finanziario, si sono convinti che “questa volta le cose andranno diversamente” e tale mentalità ha infettato l’intero casinò. Di conseguenza i top manager hanno allentato progressivamente i cordoni della borsa aziendale e hanno permesso l’accumulo di lavoro e produzione in eccesso con l’aspettativa che l’economia reale avrebbe presto seguito il mercato azionario.

Ad un certo punto, però, la realtà ha fatto il suo ingresso. Quando infine non si materializza il tanto aspettato boom di vendite, le aziende si ritrovano capacità in eccesso per quanto riguarda manodopera e prodotti — e vulnerabili a qualche evento sconvolgente, come il fallimento della Lehman, che innesca una forte liquidazione di questi eccessi.


Questo è in sostanza quello che sta emergendo negli attuali rapporti I/S. Come ha sottolineato Wolf Richter, all’improvviso abbiamo visto salire il rapporto I/S al livello dell’ottobre 2008.
La Grande Recessione ha rappresentato in realtà una breve ma enorme liquidazione degli inventari che avevano raggiunto un picco di saturazione alla fine del 2007. Contrariamente a quanto diceva Bernanke, il tonfo del settembre 2008 non aveva nulla a che fare con una ricaduta verso la Grande Depressione e una spirale inarrestabile in un abisso economico.
Invece, spogliati dei loro entusiasmi rialzisti grazie al crollo dei loro prezzi azionari, i dirigenti aziendali hanno liquidato gli eccessi che si erano accumulati durante la corsa dei tori Greenspan/Bernanke.



Utilizzando i dati degli inventari all’ingrosso come proxy, il grafico in basso mostra che negli 80 mesi dopo il fondo dell’aprile 2002, le scorte degli inventari sono aumentate di $165 miliardi, o quasi il 60%.
Ma nei 12 mesi dopo l’agosto del 2008 era stata liquidata quasi la metà di quanto accumulato fino a quel momento.

Poi si è avviato il lento processo di ricostruzione.

Inoltre, il rimbalzo del novembre 2009 non aveva praticamente nulla a che fare con la stampa il denaro della FED. Alla fine del 2009, quando si era conclusa la liquidazione delle scorte degli inventari, il credito a imprese e famiglie si stava ancora contraendo — l’unica cosa che la ZIRP poteva influenzare direttamente.


Detto in altro modo, dopo aver sperimentato una paura terrificante, i top manager avevano smaltito la sbornia e la ripresa era dovuta alla capacità rigenerativa del capitalismo, non alla velocità della stampante della banca centrale.



I dati riguardo i lavori in eccesso sono quasi identici anche durante questo ciclo.

Tra il settembre 2008 e il settembre 2009, i top manager spaventati hanno liquidato in fretta e furia i lavori. In quei mesi, l’indagine del BLS — sebbene di dubbia natura — stimava una riduzione media di circa 600,000 posti di lavoro al mese. Eppure negli ultimi tre mesi del 2009 era già tutto finito: il tasso di perdita dei posti di lavoro era calato a 100,000 al mese, fino a quando la manodopera in eccesso non era stata pienamente liquidata all’inizio del 2010.

Anche in questo caso la stampa di denaro non ha avuto nulla a che fare con il processo di pulizia e inversione.
A quel punto, infatti, il capitalismo americano avrebbe potuto guarire sé stesso e iniziare una lunga marcia verso una crescita sostenibile e guadagni reali di ricchezza, ma il politburo monetario non voleva niente di tutto ciò.


Il resto è storia — che si ripete. La FED e le altre banche centrali di tutto il mondo hanno fomentato una nuova e ancor più virulenta bolla finanziaria. I top manager sono andati ancora una volta su di giri e ancora una volta hanno permesso l’accumularsi di scorte in eccesso tra beni e lavori. Ecco perché il BLS continua a riportare creazioni di lavori ogni mese.
Ma tali lavori non sono la prova di una velocità di fuga, di una ripresa sostenibile o il nirvana keynesiano della piena occupazione permanente.
No, è solamente l’ennesimo scoppio della Grande Immoderazione. E sappiamo già che cosa accadrà dopo.

[*]
traduzione di Francesco Simoncelli: Francesco Simoncelli's Freedonia
 
L’America rallenta. E il Matrix giapponese è ormai realtà

Di Mauro Bottarelli , il 15 maggio 2015 8 Comment
L'America rallenta. E il Matrix giapponese è ormai realtà - Rischio Calcolato



Prosegue senza sosta la striscia di risultati negativi dell’economia statunitense, quasi una conferma quotidiana di ciò che su Rischiocalcolato si dice da tempo: ovvero, gli Usa sono in recessione. Questo grafico,

ci mostra come il dato della produzione industriale ad aprile abbia segnato un -0,3% contro le attese per un rimbalzo a -0,03% dal -0,64 di marzo (dato rivisto oltretutto al rialzo). Si tratta del quinto calo mensile consecutivo, la serie più lunga dalla recessione post-Lehman. Inoltre, il dato sulla “Capacity Utilization” è sceso ai minimi dal gennaio 2014 e al livello più basso dal dicembre 2009, se la lettura viene riferita su base annuale. Ma c’è di più, perché come ci dice questo grafico,

l’indice Empire Manufacturing a maggio si è fermato a 3.09, contro attese di un rimbalzo a 5.00 dopo lo sconfortante -1.19 di aprile. Il quarto calo mensile di fila e lo stesso livello a cui si scese nel gennaio 2008, dato appesantito da alcune criticità nei sotto-indici: la aspettative per spese tecnologiche sono scese ai minimi da 15 mesi, il calo mensile più grande dal novembre 2008, mentre il dato sulla fiducia vede il 27% degli interpellati ritenere che la situazione economica generale su base mensile sia peggiorata. Ma se l’America piange, di certo non può ridere il Giappone. Come ci mostra questo grafico,

sono infatti apparse le prime – ancorché timide – posizioni ribassiste sull’indice Nikkei, un qualcosa che non si vedeva dall’inizio dell’Abenomics a metà 2012. Il perché è presto detto: dopo aver devastato il mercato obbligazionario sovrano, la Bank of Japan è riuscita nell’impresa non da tutti di replicarsi con quello azionario, stando a quanto dichiarato dagli stessi responsabili dell’indice di Tokyo. Vi ho già parlato del fatto che la BoJ in un anno e mezzo circa sia intervenuta direttamente sul mercato 143 volte, acquistando ETF ogniqualvolta il Nikkei apriva in ribasso troppo accentuato: peccato che per quanto a livello teorico Kuroda possa stampare tutto il denaro del mondo, a livello pratico gli ETF acquistabili sono limitati e avanti di questo passo la BoJ potrebbe ritrovarsi a detenere l’intero mercato. Ed ecco l’accusa del Nikkei: “Gli acquisti massicci di ETF da parte della Bank of Japan, come parte del suo programma di allentamento monetario, potrebbero contribuire a scostamenti netti del prezzo dei titoli drenando liquidità dal mercato. Gli stessi market players stanno sottolineando gli effetti collaterali di questa politica, la quale attraverso l’acquisto di RTF ha alterato il bilancio riducendo l’offerta”. Ma quanto ha comprato la BoJ? Solo nel 2015 ha acquistato ETF 32 volte, uno ogni 2,7 giorni contro l’uno ogni 4,3 giorni del 2013 e l’uno ogni 11,3 giorni del 2012 e lo stesso ammontare medio dell’acquisto è quasi raddoppiato a circa 35 miliardi di yen quest’anno contro i soli 17 miliardi del 2014. Ogni tre giorni! L’esempio ci è dato da quanto accaduto martedì, quando il Nikkei ha chiuso positivo le contrattazioni dopo un’apertura in ribasso e un lento ritracciamento verso il verde nel pomeriggio. E cosa è accaduto? E’ bastato che l’indice calasse di oltre 150 punti sotto quota 19.500 per dare certezza ai market players che la Bank of Japan sarebbe entrata in gioco e quindi hanno cominciato ad acquistare. A fine giornata, la BoJ confermava di aver acquistato 36,1 miliardi di yen in ETF: insomma, il mercato azionario giapponese è sempre più dipendente dalla Banca centrale. Il problema è che più grande diventa il tuo portafoglio, più i tuoi acquisti dovranno essere sufficientemente ampi da prevenire che i titoli calino, visto che non è possibile designare il portafoglio equity di una Banca centrale come “held to maturity”. Almeno finora, nel mondo che verrà del QE perenne non si sa mai.
 
Le Borse sono scollegate dalla realtà? Un indice dimostra che non è così

di Vittorio Carlini14 maggio 2015Commenti (5)

Le Borse sono scollegate dalla realtà? Un indice dimostra che non è così - Il Sole 24 ORE



Il 29 aprile scorso c’è stata la pubblicazione del dato sul Pil Usa. Il Prodotto interno lordo a stelle e strisce è risultato, nel primo trimestre del 2015, in crescita solo dello 0,2%. Un valore al di sotto delle attese che ha messo di malumore i mercati. La reazione di Wall Street è stata negativa. Poco più di due settimane dopo è arrivato il turno dell’Europa. I dati del Prodotto interno lordo dei singoli Stati, come sempre accade, sono risultati differenti. Quello dell’Italia, però, ha stupito in positivo. L’economia cresce dello 0,3%. Per carità, poca cosa. E, tuttavia, gli esperti si attendevano un incremento dello 0,2%. Grazie a questa situazione Piazza Affari, seppure contrastata, ieri ha archiviato la giornata positiva.

Due risultati differenti che però hanno prodotti i loro effetti sui listini. L’indicazione, insomma, è che il market mover dell’economia reale mostra di produrre i suoi effetti sulle Borse di carta. Al che il signor Rossi trae la sua conclusione: sia negli Stati Uniti che in Italia, e nella stessa Europa, il Pil influenza il mondo azionario. In maniera simile.

La considerazione, corretta nell’immediato, non è però cosi valida se si amplia lo spazio temporale considerato. La prova? Arriva da un calcolo sulle correlazioni tra il Prodotto interno lordo e le Borse che Mps Capital services ha realizzato per il Sole24ore.com. Una premessa è d’obbligo: l’analisi è ovviamente insufficiente a spiegare compiutamente i trend di mercato. Molte altre sono le variabili (dai tassi d'interesse ai flussi di capitali fino agli utili aziendali) che influenzano l’andamento di un indice. Ciò detto, però, valutare l’esistenza di un qualche meccanismo di sincronia tra quest’ultimo e il Pil è interessante. Offre una suggestione per meglio comprendere il contesto in cui ci si muove.

Ebbene, ciò che salta fuori è che negli ultimi 10 anni la correlazione tra il Pil Usa e l’S&P500 è stata in media dello 0,7. Si tratta di un valore che indica un buon legame tra le due grandezze. Come è noto, infatti, la correlazione varia nell’intervallo tra -1 e +1. Al livello più basso della forchetta (-1) c’è la cosiddetta completa correlazione inversa. Cioè, quando una grandezza va in una direzione l’altra prende la strada opposta. Il valore (+1) più alto, invece, indica la completa sincronizzazione positiva. Entrambi gli asset si muovo nella stessa direzione. Nel valore intermedio (0) infine i due asset non sono correlati. Vale a dire, l’uno è indipendente dall’altro. Ebbene, il valore di 0,7, per l’appunto, segnala che Wall Street va molto a braccetto con l’economia. La situazione, tuttavia, cambia se si accorcia l’arco di tempo considerato. Negli ultimi 5 anni, infatti, il valore della correlazione scende allo 0,33. Sempre positivo, per carità. E, però, non può negarsi che il legame si allenta. Cioè, il collegamento tra la dinamica di Wall Street e il Pil non è più così forte.

Fin qui gli Stati Uniti: ma quale la situazione in Europa? È presto detto. Nel Vecchio continente, considerando il Pil dell’Eurozona e l’indice EuroStoxx 50, la correlazione, negli ultimi 10 anni, è lo 0,79. Vale a dire il legame è forte. Più che negli Usa. E la differenza, guardando solo l’ultimo quinquennio, cresce ancora di più. Il valore di correlazione, infatti, rimane allo 0,53. Insomma, la Borsa europea va molto più a braccetto con il Pil di quella statunitense. Certo, lo si ripete, molte altre sono le variabili in gioco. E tuttavia l’indicazione di fondo rimane. Nel Vecchio continente il mondo dell’economia, della realtà ha un legame più forte con l’azionario rispetto agli Stati Uniti.

Al che il signor Rossi domanda: quali le motivazioni di questa situazione? A ben vedere molteplici. Tra le altre si possono citare le più evidenti. In primis, è il maggiore dinamismo della Federal reserve americana. Il fatto che la correlazione negli Stati Uniti scenda quando sia accorcia il tempo considerato è anche, e soprattutto, conseguenza delle grandi manovre espansive realizzate dalla Fed. L’enorme quantità di liquidità immessa sul mercato ha certamente «allentato» l’impatto dell’economia sull’azionario. Gli investitori hanno dato minore peso alle dinamiche del mondo reale, a scapito di variabili quali, ad esempio, le aspettative sul rialzo dei tassi.

Oltre a ciò hanno poi avuto più rilevanza dinamiche di carattere finaziario. Ad esempio, gli investitori si sono messi a stimare il possibile apprezzamento di un titolo in seguito ai buyback. A Wall Street, infatti, molte società hanno accumulato ingenti quantità di cassa. Denari non investiti nella crescita, bensì in mega operazioni di ri-aacquisto dei propri titoli. Così, di nuovo, i cari e vecchi fondamentali economici sono finiti in un angolo.

Tutto questo, a ben vedere, non è accaduto (finora) in Europa. Solo di recente la Bce ha preso in mano il testimone della Politica monetaria espansiva. Con il che, da un parte, nel quinquennio la correlazione tra Pil e Eurostoxx 50 è rimasta più elevata; ma, dall’altra, non dovrebbe stupire che (proseguendo il Qe) il loro andare a braccetto potrebbe perdere qualche colpo.
 
penso che fra un po anche i numeri andranno in sciopero

meglio se fanno un videogioco e lo chiamano "dow jones index" con qualche mostro di livello superiore come BCE FED BOJ BOE
 
Tassi Fed, il rialzo è più vicino dopo il dato sul pil USA?


Giuseppe Timpone
Aggiornato il 29 Maggio 2015, ore 16:12
Dopo il dato negativo sul pil USA nel primo trimestre, la Fed come reagirà a proposito del rialzo dei tassi?


Economia Usa Leggi gli altri articoli
Il Dipartimento del Commercio USA ha rivisto al ribasso le stime preliminari sulpil nel primo trimestre, che suggerivano una crescita annua dello 0,2%, mentre adesso sappiamo che si è avuta una contrazione dello 0,7%. Per quanto si tratti di un dato negativo, esso era ampiamente previsto, anzi, gli analisti si aspettavano mediamente un calo dello 0,9%.
Tra i fattori che hanno determinato la contrazione ci sono un inverno dalle condizioni climatiche avverse, che hanno fermato la produzione di molti impianti, così come un anno fa, oltre a un super-dollaro, che alla fine di marzo risultava apprezzatosi ai massimi dal 2003 contro le principali valute. I consumi - colonna portante dell'economia americana, rappresentando i due terzi del pil - sono cresciuti dell'1,8%, meno dell'1,9% inizialmente stimato e del 2% previsto dagli analisti.
...
...
la Fed potrà concentrarsi al prossimo board di metà giugno sui 2 indicatori più salienti: l'inflazione e la disoccupazione. Entrambi si mostrano vicinissimi ai rispettivi target.


Tassi Fed, il rialzo è più vicino dopo il dato sul pil USA? - Economia - Investireoggi.it
 

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