Tassi, QE e carry trade (2 lettori)

tontolina

Forumer storico
Dopo anni di insicurezza, di rendimenti a zero o persino negativi, i creditori dei governi stanno inviando i primo segnale di rivolta.
I mercati emergenti, colti dalla crisi, si stano sbarazzando in questi mesi di trilioni di dollari di titoli, compresi quelli più sicuri come i bund tedeschi, facendo aumentare rendimenti e costo del denaro.

i mercati azionari che scendono danno solo la scusa per comprare titoli obbligazionari...alla ricerca del safe heaven.

Non si tratta di correzione episodica, ma di un trend: l’incipiente preferenza del mercato per la liquidità a causa di un ambiente fortemente instabile. Il mercato ora richiede “contante” e non più promesse di pagamento.
Il motivo è questo:
il valore totale dei titoli sovrani è pari a 100 trilioni di dollari mentre il Pil globale è di 73 trilioni di dollari. La situazione mondiale non è altro che la rappresentazione macroscopica della situazione greca e in tutto il mercato è in corso una rivalutazione del rischio finanziario. Dovrebbe essere chiaro che sarà impossibile pagare un debito di tale entità perché l’economia mondiale, come quella greca, non è in grado di generare reddito per estinguerlo. Il denaro che le banche centrali hanno creato non è servito a finanziare mezzi di produzione, industrie, tecnologie, innovazione per generare reddito diffuso e uniforme nell’economia; è servito solo a evitare la combustione della madre di tutte le bolle, il debito di 100 trilioni di dollari, a cui seguirebbe un panico incontrollabile.

Come si è arrivati a questa situazione?

Da più di trent’anni gli stati sovrani, in particolare quelli occidentali, hanno comprato voti offrendo in cambio promesse e programmi di welfare in tutte le salse: sicurezza sociale, pensioni, assistenza sanitaria, indennità di disoccupazione, ecc. e poiché l’elettorato si è sempre cullato nell’idea che si spendano i soldi degli altri, ha acconsentito alla spesa fuori controllo, avallando le cambiali in bianco dei governi senza preoccuparsi di come sarebbero state onorate. Al momento di pagare il conto i governi si sono accorti che il prelievo fiscale corrente non era sufficiente a coprire le promesse e hanno cominciato a emettere titoli di debito o bond ad libitum per colmare la differenza.
Al sistema bancario, che aveva il monopolio della gestione dei bond, tutto questo stava bene perché poteva usare questi titoli come senior assets (attività finanziarie prive di rischio in quanto garantite dal prelievo fiscale) per collateralizzare i prestiti interbancari e garantire l’emissione di derivati. I bond diventavano la crème de la crème del mercato finanziario.

Nel 2008 scoppiava la Grande Recessione causata proprio dall’implosione dei derivati, i credit default swap (cds). All’epoca il mercato dei cds si aggirava intorno ai 50/60 trilioni di dollari. Oggi questo mercato è diventato di 555 trilioni di dollari, dieci volte superiore! Dall’inizio della crisi l’economia globale non ha fatto altro che peggiorare e il rischio mercato si è decuplicato, la propaganda, oggi, ha un bel coraggio a parlare di ripresa economica.

In una prima fase (2009-2010) i vari Quantitative easing delle principali banche centrali hanno avuto l’obiettivo di evitare il collasso.
Nella seconda fase (2010-2012), queste politiche espansive hanno mirato, invece, a stimolare la crescita. Tuttavia ci si è accorti che gli stimoli monetari non avevano alcun impatto nell’economia perché la liquidità affluiva nel mercato finanziario inflazionandolo mentre la maggior parte dei paesi occidentali sprofondava sempre più nei debiti. Si arrivava cosi alla crisi dei debiti sovrani. La parola d’ordine in questa fase è stata: “whatever it takes”, il cui vero significato oggi è diventato chiaro: mantenere lo status quo a costo di milioni di vittime sacrificali: imprese, famiglie, risparmiatori, fondi pensione.
Nella terza fase (2012-2014) le banche centrali, la Fed negli Stati Uniti, la Boj in Giappone e la Bce in Europa hanno continuato a inondare di liquidità i mercati portando i tassi reali di interesse a quota zero: l’entità del debito globale, infatti, non può sopportarne di più alti. È significativo che in questa fase i banchieri rimuovano dal loro vocabolario la parola “sviluppo” sostituendola con “inflazione”. Infatti l’obiettivo principale diventa quello di alleggerire il servizio del debito ai governi e scongiurare la deflazione che farebbe aumentare il costo reale del loro debito.
Allo stesso tempo la liquidità emessa continua a distorcere i mercati, gonfiare i prezzi di borsa mentre sgonfia tutti gli altri redditi nell’economia reale. Il fatto è che la liquidità irrorata non è capitale reale ma fittizio: i trilioni emessi rappresentano i debiti improduttivi dei governi che sottraggono ricchezza al sistema invece di aumentarla.
Più liquidità, dunque, più deflazione: l’esatto contrario di quello che le banche vogliono ottenere. A riprova: se il totale della liquidità creata in queste tre fasi è stata di 12 trilioni di dollari (grosso modo pari al Pil dell’eurozona) e il valore dei Pil reali è retrocesso a quello di 15 anni fa, a cosa è servita tutta questa liquidità? È servita appunto a creare nuovo debito: per pagare i creditori e evitare la bancarotta, i governi sono costretti ad emettere sempre più debito.

Nel 2015 si entra nella quarta fase: la Bce lancia il suo Quantitative easing in grande stile e introduce interessi nominali negativi: le ultime disperate manovre per tentare di mantenere la solvibilità di stati insolventi. Ma provoca immediatamente instabilità finanziaria e volatilità sia nel mercato dei bond che in quello valutario (vedi il minicataclisma provocato dallo sganciamento del franco svizzero dall’euro). Il mercato comincia a percepire i bond come patate bollenti. È il preludio all’iperdeflazione, il fenomeno di liquidazione globale ossia di trasformazione dei bond in liquidità immediata.
 

tontolina

Forumer storico
il governo interverrà sicuramente, non lascerà che il Paese sprofondi nella recessio

L’economia Usa scoppia di salute. Anzi, sta proprio scoppiando. E se Cina e Glencore…

Di Mauro Bottarelli , il 29 settembre 2015 8 Comment



Dunque, Janet Yellen giovedì scorso ha ribadito che la Fed alzerà i tassi di interesse verso la fine dell’anno se i dati macro provenienti dall’economia reale lo consentiranno. Perfetto, se davvero questa è la narrativa, potremmo esserci visto che in contemporanea con le parole del numero uno delle Fed sono state riviste al rialzo le stime sull’economia statunitense relative al secondo trimestre, con la crescita del Pil pari al 3,9% rispetto al +3,7% stimato in precedenza grazie un irrobustimento della spesa per i consumi. Sarà ma stando ai miei di misuratori, non se ne parla prima del 2017. Almeno così sembra dirci questo grafico,

dal quale desumiamo che il rimbalzo del gatto morto del comparto dei servizi Usa è già terminato, visto che a settembre si sono raggiunti i minimi da tre mesi e la fiducia nel settore è vicina alla peggior lettura degli ultimi tre anni. E con i prezzi in calo per il secondo mese di fila, Markit fa notare che “varie luci di avvertimento ora stanno pulsando in maniera più chiara, sintomo che la crescita potrebbe continuare a indebolirsi nei mesi a venire”.
E che dire di quest’altro grafico,

dal quale desumiamo che dopo una modesta lettura preliminare, l’indice UMich sul sentiment dei consumatori a settembre ha segnato 87.2, il dato più basso dall’ottobre 2014 e il calo a otto mesi più ampio dal 2011. Giù sia le aspettative inflazionistiche che la voce “hope”, quest’ultima ai minimi da settembre scorso, mentre quest’altro grafico

ci dice che anche la speranza riguardo la crescita salariale sta svanendo negli americani, ai minimi da 13 mesi. Insomma, l’esuberanza è finita con il QE3.
E uno stipendio un po’ più alto farebbe comodo, visto che come ci mostra questo grafico

venerdì al CME di Chicago il prezzo del burro ha toccato il record storico di 3,10 dollari per libbra, conseguenza diretta delle aspettative un po’ troppo ottimistiche riguardo la produzione a seguito della fine, lo scorso marzo, del sistema delle quote latte in Europa.
Ma non basta, perché dopo che tutti gli indici regionali della Fed (Dallas, Richmond, New York, Philly, Chicago e Kansas City) ad agosto anno confermato tendenze di recessione, ecco arrivare i primi dati di settembre. Et voilà,

l’indice Dallas Fed ha mostrato una lettura di -9.5, negativo per il nono mese di fila, con tutte le componenti in negativo, dai salari all’occupazione fino a questo,

ovvero il peggior collasso del dato riguardante il CapEx da cinque anni a questa parte.
Ancora più interessante quanto ci dice una delle materie prime industriali più legate all’economia reale e al Pil, ovvero il legname da costruzione. Bene, questo grafico

ci dice che i prezzi sono collassati ai minimi da 4 anni, visto che un calo del 33% su base annua non si vedeva dalla crisi finanziaria ed è un chiaro segnale recessivo. Quest’altro grafico

invece ci dice che se la correlazione storica tra prezzo del legname e indici azionari si rivelerà ancora una volta esatta, qualcuno a Wall Street potrebbe farsi male, mentre questo grafico

ci dimostra come il calo del prezzo del lumber non dica nulla di buono per il futuro del comparto manifatturiero.
Ma tira brutta aria anche per il settore che maggiormente ha guidato la speranza di rispesa degli Usa durante gli anni del QE, ovvero il comparto dello shale oil. Bene, questo grafico

ci dice che il rischio di credito per le aziende del settore energetico è esploso, mentre quest’altro

spiega qualcosa di ancora peggiore. Ovvero, che il mercato obbligazionario è chiuso per le aziende shale, soprattutto le più piccole e le banche non sono più disposte a garantire linee di credito generose come quelle viste negli anni scorsi.
Le emissioni di bond legate al business petrolifero sono calate a 6,7 miliardi di dollari quest’anno e le aziende stanno disperatamente cercando nuovi investitori e nuove strategie di finanziamento, dopo che anche gli hedge funds sono diventati riluttanti nell’investire nel settore. Insomma, ottenere liquidità è sempre più difficile in questo mercato e per molte compagnie una ristrutturazione finanziaria appare sempre più inevitabile.


Ma tranquilli, il governo interverrà sicuramente, non lascerà che il Paese sprofondi nella recessione un’altra volta. Certo, il governo farà qualcosa. Per adesso, però, pare che si sia limitato a prendere ed elargire mazzette, visto che questo grafico

a corredo dell’ultimo sondaggio Gallup ci dice che il 75% degli americani percepisce la corruzione come un male sempre più dilagante nel governo. Nel 2007 la percentuale era del 67% e nel 2009 del 66%: grande Obama, un altro record frantumato!


Ma ironia a parte, sono due le notizie giunte nel fine settimana che mi fanno davvero preoccupare. Wal-Mart, la principale catena della grande distribuzione Usa, ha cominciato a chiedere sconti a tutti i suoi fornitori che abbiano rapporti con la Cina, al fine di raggiungere una sorta di fair value rispetto alla svalutazione dello yuan.
E, ancora peggio, il fatto che il gigante minerario del carbone cinese, la Heilongjiang Longmay Mining Holding Group, abbia annunciato attraverso il suo sito che taglierà 100mila dei suoi 240mila dipendenti, un taglio dell forza lavoro del 40%. Hard landing alle porte?

Sicuramente c’è questo già alle porte,

ovvero il fatto che a fronte della vendite di debito Usa a breve termine proprio da parte della Cina, le detenzioni dei primary dealers di Treasuries sono salite e con esse i tassi repo, visto che i “piazzisti” di debito statunitense hanno bisogno di più liquidità per finanziare queste posizioni. Il meraviglioso mondo delle interconnessioni tra Banche centrali al suo meglio.

Attenzione, perché potrebbero essere in tanti ad andare a fare compagnia a Glencore, il gigante minerario i cui titoli erano un’opzione call sulla crescita cinese e che ora si stanno letteralmente schiantando al suolo insieme al ciclo delle commodities.

Questo grafico

ci mostra come a quota 875 punti base (+300 punti base intraday solo ieri), il credit default swap di Glencore non solo sia ai livelli massimi dal 2009 ma parli la lingua di un 54% di possibilità di default, mentre quest’altro

ci dice che il rischio di credito per le banche Usa sta replicando proprio il pattern di Glencore. Come mai? Forse per questo,

ovvero i 19 miliardi di dollari di Glencore su liabilities da derivati. Insomma, il rischio di controparte è decisamente altino. Quindi, se Glencore va a zampe all’aria, quelle liabilities lorde diventano nette. Boom! Auguroni e buon rialzo dei tassi.
Sono Mauro Bottarelli, Seguimi su Twitter! Follow @maurobottarelli
 

tontolina

Forumer storico
I grandi successi del QE: disoccupazione al 12%, 9 milioni di poveri in più e il caso Illinois
Uno dei grandi misteri insoluti della ripresa economica americana è la netta discrepanza tra un tasso di disoccupazione molto basso - 5,1% ad agosto, ai minimi dall'aprile 2008 - e il tasso di...
Leggi il resto su Rischio Calcolato
I grandi successi del QE: disoccupazione al 12%, 9 milioni di poveri in più e il caso Illinois - Rischio Calcolato




I grandi successi del QE: disoccupazione al 12%, 9 milioni di poveri in più e il caso Illinois

Rischio Calcolato
 

tontolina

Forumer storico
Da Monsanto e Glencore,


passando per lo short interest,


Deutsche Bank e la Cina.


E’ 2008 reloaded?



Come mi è capitato di ripetere più volte, i buybacks azionari delle grandi corporations Usa sono stati il vero e proprio motore dei rallies vissuti da Wall Street fino allo scorso giugno, come ci dimostrano questi due grafici.


Lo schema era semplice:

con i tassi a zero e la liquidità in cui annegare grazie alla Fed, si emetteva debito come se non ci fosse un domani e con gli introiti si finanziava il ri-acquisto di propri titoli
al fine di

abbassare il flottante,
mantenere alte le valutazioni,
sostenere i corsi

ma soprattutto staccare dividendi e pagare ricchi bonus ai manager.



Questo grafico

ci mostra come il prossimo mese di novembre sarà il più importante dell’anno, visto che è concentrato il 13% della spesa totale per buybacks per il 2015, la percentuale più alta.


A volte, però, chi di troppo buyback ferisce, di buyback poi patisce. E’ il caso di Monsanto, il gigante agricolo (e degli Ogm) e nemico giurato di tutti i no-global del mondo, il quale ieri ha presentato dei conti non esattamente brillanti, visto che la revenue per il quarto trimestre è fissata a 2,36 miliardi di dollari contro un consensus di 2,79 miliardi, in calo del 10% su base annua. Ma anche l’utile per azione non è di quelli per cui festeggiare, visto che è in perdita di 0,19 centesimi contro le attese di un +0,03. EBIT per il quarto trimestre a -773 milioni, mentre per l’intero anno a giù del 15% a 2,2 milioni di dollari.
Ma attenzione: nel 2015 Monsanto ha prodotto cash-flow per 3,1 miliardi di dollari dalle sue operazioni, lo stesso dell’anno fiscale 2014, mentre il free cash-flow è stato fonte di 2,1 miliardi di dollari nell’anno fiscale in corso, contro i 959 milioni dello scorso. Insomma, una nota positiva, l’azienda genera solido cash-flow. Insomma, mica tanto, perché questo grafico

ci mostra come nel 2014 Monsanto abbia operato buybacks per 7,1 miliardi di dollari, mentre nel 2015 è a quota 835 milioni. Insomma, negli ultimi due anni l’azienda ha speso in buybacks più di quanto generato.

Ma non basta, perché questo altro grafico

ci mostra come nel 2014 Monsanto abbia speso 7,1 miliardi in buybacks a un prezzo medio per azione di circa 115 dollari, mentre oggi il titolo vale 84 dollari per azione e tutti i CFO sanno che questo è un ottimo metodo per generare un return on cash del -25%.
Eppure, alla Monsanto non pare abbiano imparato la lezione, visto che il management ha pianificato un nuovo programma di riacquisto titoli accelerato per 3 miliardi di dollari da completare entro i prossimi sei mesi. Accidenti, ci credono! Allora bisogna prendere a prestito ancora un po’ di denaro a costo Fed (ovvero zero) per finanziare quei buybacks. Questo grafico,

però, pare dirci che non sia aria in questo momento… In compenso, a fronte di un utile per azione per il 2016 previsto tra 5,10 e 5,60 dollari (peccato che la stima del consensus fosse di 6,22 dollari), Monsanto è stata lieta di annunciare un bel taglio occupazionale da 2600 posti nei prossimi 18-24 mesi. Quando si dice un’azienda ben governata!


Ma occhio, perché questo grafico

ci mostra come lo short interest alla Borsa di New York il 15 settembre scorso sia salito di altri 1,4 miliardi, raggiungendo quota 18,4 miliardi di titoli, lo stesso livello del 31 luglio 2008.
E cosa ci dice questo dato. Due ipotesi, contrapposte.
La prima è un segnale contrarian, ovvero l’intervento di una Banca centrale o un grosso evento di acquisto forzato farà partire la madre di tutti gli squeeze e manderà l’S&P’s 500 ai massimi storici.
La seconda, invece, dà fiducia al precedente del luglio 2008 e ci segnala che un altro storico collasso del mercato è dietro l’angolo.

Quale delle due?

Lo sapremo nelle prossime settimane o mesi.


Ma attenzione a un’altra dinamica, parlando di corsi di mercato e opportunità di buybacks. Dal 2013, le azioni sono andate in rally mentre le pressioni disinflazionarie erano rinforzate da dollaro forte, bassi prezzi delle commodities e calo della domanda mondiale. Ma se la correlazione pre-2013 tra queste componenti viene prese come metro, basandoci sui breakevens attuali di prezzo dei titoli, allora dovrebbe tradare di un 1,5% più ampio. In parole povere, con i beakevens inflazionistici sopra il target, la Fed dovrebbe alzare i tassi. Oppure, in alternativa, dato il livello attuale dell’inflazione, lo Standard&Poor’s 500 dovrebbe tradare a metà del suo valore, come ci mostra questo grafico.




Esatto, stando a questa correlazione metrica l’S&P’s 500 dovrebbe essere a 900 punti o meno.

Insomma, la domanda è una: le aspettative inflazionistiche saliranno o le equities si schianteranno, rendendo reale il precedente del 2008 rispetto allo short interest?

Anche perché in una riedizione 2.0 di quell’anno disgraziato, ecco che sembra pronta la nuova Lehman Borthers, visto che come ci mostra questo grafico






stando a stime di Bank of America, l’esposizione del sistema finanziario al debito di Glencore sarebbe superiore ai 100 miliardi di dollari, con i bond che pesano per circa 36 miliardi e le banche che detengono i restanti 64 miliardi (tra revolver, lettere di credito, credito assicurato), ammesso che non detengano esse stesse obbligazioni.
Ma c’è di più, come ci mostra questo altro grafico

dal quale desumiamo l’evoluzione dei credit default swaps di alcuni altri traders di commodities come Trafigura, Vitol e Gunvor, il cui debito potrebbe anch’esso figurare nei bilanci delle banche Usa come quello di Glencore. Insomma, una potenziale bomba da 400 miliardi di dollari grava sul sistema finanziario, vista l’alta esposizione a leva sul settore commodities. E come ci mostrava il grafico, la domanda di protezione da default sta crescendo.
Insomma, boom o bust?

La risposta potrà darcela solo la Fed, anche se in cuor suo immagino che Janet Yellen sappia che anche un minimo segnale al mercato sul fatto che il trade QE-inflazione convergerà con un crash azionario invece che con un aumento dell’inflazione potrebbe far evaporare una decina di trilioni di dollari di capitalizzazione in una notte.



E tanto per voler caricare di paralleli con il 2008 e di preoccupazioni la situazione, poche ore fa Deutsche Bank ha preannunciato perdite nette per 6,2 miliardi di euro nel terzo trimestre, raccomandando il taglio o l’eliminazione del dividendo: il titolo è subito crollato del -6% nell’after-hours. Chissà, forse è giunta l’ora del QE4 o di tassi di interesse negativi. Soprattutto se un altro precedente storico di trend dovesse ripresentarsi, come ci mostra quest’ultimo grafico

dal quale si evince che lo scorso anno, dopo la chiusura di una settimana della Borsa cinese per festività nazionale come ogni inizio ottobre, i mercati andarono talmente a piombo che il buon James B. Bullard della Fed di St. Louis dovette mettere in campo la cosiddetta “Bullard call”, ovvero l’ipotesi di QE4 se necessario, per evitare che la correzione peggiorasse. In questo caso c’è meno da attendere: la Borsa cinese riapre oggi.
Sono Mauro Bottarelli, Seguimi su Twitter! Follow @maurobottarelli
 

tontolina

Forumer storico
”Il Crack che verrà”, secondo l'FMI
(Teleborsa) - “La prossima crisi finanziaria sta arrivando, è una solo una questione di tempo”.
E' questo è il messaggio, sintetico quanto preoccupante, scritto nell'ultimo rapporto del Fondo Monetario Internazionale, la cui lettura farà sicuramente riflettere i ministri delle finanze e i banchieri centrali riuniti a Lima, in Perù, per la riunione annuale. Il massiccio stimolo monetario ha riacceso la crescita nelle economie sviluppate a partire dalla profonda recessione seguita al crollo di Lehman Brothers nel 2008, ma ciò che il FMI chiama il “passaggio di consegne” per una ripresa più sostenibile senza il puntello dei bassi tassi di interesse, finora non si è concretizzata. Nel frattempo, il costo del denaro tenuto forzatamente basso per salvare le economie sviluppate, ha inondato i mercati emergenti, gonfiando grosse bolle speculative e incoraggiando le imprese e i governi ad approfittare degli oneri finanziari insolitamente bassi per caricare ulteriore debito. L'intento di rattoppare il sistema finanziario internazionale dopo la crisi del 2008, è fallito, dato che le banche dei mercati emergenti detengono cospicui capitali vincolati da prestiti rischiosi. Ciò significa che un nuovo shock, che coinvolga alcune primarie banche, potrebbe innescare un altro panico globale. ”I mercati del risparmio globale potrebbero essere devastati da forti perturbazioni causate da un'improvvisa crisi di liquidità su molte classi di attività finanziarie”, afferma il Fondo Monetario Internazionale, avvertendo che alcuni mercati sembrano essere parecchio “fragili”.
 

tontolina

Forumer storico
LE ASPETTATIVE SULLE BANCHE CENTRALI E GLI EFFETTI SULLE VALUTE E SUI PAESI EMERGENTI


Dicevamo, qualche giorno fa, a proposito del fatto che i mercati sembrano attendersi altre misure di allentamento monetario in Europa e in Giappone (ma anche in Cina) e un differimento (o sospensione) della stretta sui tassi Usa.

Giovedì sera sono state pubblicate le minute della riunione della Federal Reserve dello scorso 16/17 settembre dalle quali sono emersi timori, da parte di parecchi delegati del Fomc, in merito all'impatto del rallentamento della crescita economica in Cina sugli Usa, al rafforzamento del dollaro, e al calo dell'inflazione che viene prevista sotto il 2% almeno fino al 2018.


Il tenore delle preoccupazioni espresse nei documenti della Fed ha irrobustito l'idea del differimento dell'intervento sui tassi: cosa che, come vedremo a breve, sta avendo un notevole impatto nei paesi emergenti.


Per quanto riguarda la zona euro, venerdì scorso, da Lima -dove si è tenuto il meeting del fondo monetario internazionale- ha parlato Mario Draghi che ha affermato:
Alla luce di rinnovati rischi che sono emersi sul retro dei recenti sviluppi a livello mondiale e dei mercati finanziari e delle materie prime, stiamo monitorando attentamente tutte le informazioni in entrata pertinenti e siamo pronti a utilizzare tutti gli strumenti disponibili all'interno del nostro mandato di agire, se giustificato, in particolare modificando le dimensioni, la composizione e la durata del programma di acquisto di asset.
Quindi, le prospettive di un estensione (o ampliamento) del Qe appaiono assai concrete. E lo sono ancora di più se si considerano i brutti dati economici che stanno giungendo dalla Germani e di cui abbiamo detto QUI.

Per il momento, le politiche di stimolo monetario adottate dalla BCE stanno fallendo nel loro intento di stimolare l'inflazione, che viene spinta al ribasso dalle pressioni sui prezzi delle materie prime e sul petrolio che, tuttavia, nelle ultime settimane è rimbalzato a 50 dollari al barile dopo i minimi toccati qualche settimana fa a 38 Usd.

Il grafico che segue mostra l'espansione che sta avendo il bilancio della BCE (per via del QE) confrontandolo con le aspettative sull'inflazione che, invece, si stanno deteriorando.

La Fed che differisce (o sospende il rialzo dei tassi) contribuisce ad indebolire il dollaro, infatti l'euro guadagna forza nei confronti di tutte le valute, che si svalutano nei confronti della moneta unica. La "forza" dell'euro, quindi, contribuisce al miglioramento del sentiment in altre economie (come la Cina, ad esempio) per via del fatto che possono avvantaggiarsi irrobustendo le esportazioni, evitando quindi una brusca frenata.
Inoltre, nelle economie emergenti, il mancato rialzo dei tassi Usa (che indebolisce il dollaro) contribuisce ad allontanare i timori di default di molte emissioni obbligazionarie denominate in dollari.

Le condizioni sopra accennate contribuiscono ad alimentare l'idea di una situazione economica globale meno negativa, spingendo in alto il prezzo del petrolio, influenzato anche dalla guerra in Siria e dal fatto che i paesi Opec potrebbero decidere di tagliare la produzione, facendo aumentare i prezzi.
Tutte queste condizioni rafforzano le valute emergenti. Infatti, in questa fase di rialzo dei mercati, i veri protagonisti sono proprio i paesi emergenti e le rispettive valute, come ci suggeriscono i grafici riportati.


I




Contatti e consulenze: [email protected]
 

tontolina

Forumer storico
Chissà forse un giorno anche Mario Draghi arriverà a comprendere che il quantitative easing è essenzialmente deflazionistico, in quanto favorisce l’accumulo di capitale piuttosto che il suo investimento, distorce la giusta allocazione del capitale stesso favorendo la speculazione, restringe i margini di interesse della banche, e tiene in vita aziende fallite che a loro volta falsano la concorrenza.
da AMERICA: NEGATIVE RATES IN NEXT CRISIS | icebergfinanza
 

tontolina

Forumer storico
Ballando sul Ponte del Titanic: La Festa dei Mercati mentre la Fuori Tutto Collassa
Non esiste più un singolo straccio di indicatore macroeconomico, che sia quantitativo o che sia qualitativo che non indichi nella migliore delle ipotesi un rallentamento di ogni singola economia...
Leggi il resto su Rischio Calcolato
Ballando sul Ponte del Titanic: La Festa dei Mercati mentre la Fuori Tutto Collassa - Rischio Calcolato




Ballando sul Ponte del Titanic: La Festa dei Mercati mentre la Fuori Tutto Collassa

Rischio Calcolato
 

tontolina

Forumer storico
Una settimana complessa, difficile e soprattutto volatile. I mercati non hanno certo le idee chiare sulla strada da prendere. Poche le certezze, due in particolare… [Weekly Rewind]

Un dicembre diverso da quanto si era abituati a vedere. E’ il mese del rally della borsa, il famoso rally di Natale o di fine anno. Ma questo 2015 non è un anno come tanti. La politica monetaria ha dominato per mesi in lungo ed in largo. E proprio nel mese di dicembre alcuni nodi sono venuti al pettine e sono successi dei fatti che…hanno realmente cambiato il quadro di fondo.
Dopo l’intervento espansivo ma con moderazione della BCE, ecco la decisione restrittiva della FED.
In entrambi i casi abbiamo assistito a forward guidance positiva e propositiva.

Ma c’è poco da dire: alla fine i mercati non ci hanno più creduto.

O forse, sentendo mancare quella benzina monetaria della FED, ritrovandosi con utili aziendale in calo, un’inflazione un forte frenata, un’economia globale in evidente rallentamento, un quadro dei paesi emergenti non certo positivo e…in tutto questo contesto con un aumento del tasso FED (anche se non ceto sconvolgente)…beh, magari a qualcuno sta venendo il dubbio se ci sono i presupposti per il famoso rally.
Ok my friends, ieri sera era un giorno particolare. Terzo venerdì del mese di dicenbre, giornata di scadenze tecniche.
Ma questa non deve essere una scusante.

La verità è solo una: il quadro è perfetto per confermare la nostra aspettativa.
Quale?

Che le borse andassero male o che il dollaro raggiungesse quota 1.10?
No, queste cose alla fine sono quasi diventate imponderabili, troppo legate a fattori esogeni e avolte casuale.


Solo una cosa era vista in forte aumento, e non ci siamo sbagliati

Sto parlando della volatilità. E vedendo la schizofrenia assoluta di certe piazze, credo sarete d’accordo con me che certe logiche e certi trend quasi scolastici sono terminati.
Per le prossimi giornate, come vi ho scritto ieri, si navigherà a vista. E per l’anno prossimo, ben presto cercheremo di tracciare un outlook. Intanto però già lo sapete. Una cosa sarà sicuramente a livelli maggiori rispetto al 2015. E questa cosa è proprio la volatilità. E tenete conto, questo ragionamento vale per un mondo “perfetto” ovvero non condizionato da ulteriori fattori.



Vedi ISIS, petrolio o eventi similari. Oppure…i derivati.
Ve li ricordate i derivati? Beh, il mondo cari amici non è cambiato. Siamo sempre seduti su una polveriera. Ma se viene a mancare il sostegno della FED, e se ci sarà un ulteriore deleveraging del sistema, come reagirà il mercato?
Tanto per rendervi un’idea…cliccate qui sopra per capire cosa rappresentano i derivati OGGI. Una massa incalcolabile: ormai ci si affida alle stime, si parla di circa 1.2 milioni di miliardi di USD. molti sono derivati di copertura e molti altri si compensano l’un l’altro.

Ma immaginate che cosa potrebbe succedere se il mercato diventasse illiquido o inesigibile?
Leggete QUI per approfondire…
Chart of the day: affogati nei derivati

UNICA CERTEZZA: boom della volatilità con incognita derivati | IntermarketAndMore
 

big_boom

Forumer storico
ti diro' tontolina il danno che stanno facendo qui in asia con la guerra sul petrolio e' incalcolabile per l'inquinamento e l'economia: i prezzi del petrolio sono talmente bassi che e' ormai impossibile circolare in auto!
un fiume di auto che si muovono interrottamente notte e giorno, una apocalisse di pazzi al volante indottrinati dal capitalismo made in USA
 

Users who are viewing this thread

Alto