Tbond Bund (VM69) 2014: 2014 il ritorno di Smaug

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Gooood morning bbbbanda
Euro debole e dax forte
Cmq è iniziata ls guerra tra grecia e cermania

Goooood morning bbbbanda

Primo round alla Grecia:
Weidmann ripete a pappagallo il suo mantra che sarà efficace per le sue truppe ma non ha mordente sul resto del mondo
Tsipras si allea alla estremadx pur di rafforzare la sua immagile antiausterity
I mercati mostrano grande calma
e Lagarde dice che lo FMI sosterrà la Grecia


Azzzzz.....
 
gipa, sole di oggi ...


Petrolio, in soccorso dello shale oil arrivano i big del private equity
Fondi freschi potrebbero rinviare la frenata delle estrazioni
 
;)

e qui non c'è scritto manco per ipotesi di mandare qualcuno fuori con votazione diciamo a maggioranza (assoluta? unanimità ??? cosa ? ))
Cosa dicono i trattati? E soprattutto, cosa non dicono?
Prima cosa da sapere: nei trattati europei è prevista la procedura di uscita di uno Stato dall’Unione Europea tout court ma non soltanto dall’euro. A naso, quindi, la risposta sarebbe: si può uscire dall’euro uscendo del tutto dall’Unione Europea. Ma le cose sono un po’ più complicate di così.
Il Trattato sull’Unione Europea, all’articolo 50, stabilisce che uno Stato che voglia uscire dall’UE possa notificare la sua decisione al Consiglio Europeo: si aprirebbe a quel punto una negoziazione dell’Unione sulle modalità del recesso, che dovrebbero essere approvate dal Parlamento Europeo; il Consiglio dovrebbe infine deliberare sull’accordo raggiunto a maggioranza qualificata e dall’entrata in vigore dell’accordo i Trattati smetterebbero di essere applicati nell’ordinamento dello Stato uscente. Nel caso in cui non si riuscisse a trovare un accordo, il recesso dall’UE si considererebbe comunque efficace due anni dopo la data della notifica al Consiglio Europeo (a meno che lo stato non cambi idea). Se un paese volesse uscire dall’Unione Europea per uscire dall’eurozona, dovrebbe mettere in conto quindi una fase di trattative piuttosto lunga, fino a due anni: e la totalità degli analisti – anche quelli favorevoli all’uscita dall’euro – concorda che una fase di negoziati così lunga avrebbe conseguenze disastrose sull’economia e sui mercati europei.
Sebbene la possibilità di abbandonare l’uso dell’euro senza uscire dall’UE non sia contemplata in modo esplicito dai trattati, né sia mai stata prevista una specifica procedura per metterla in pratica, non esiste nemmeno un ostacolo giuridico che impedisca a uno Stato di poterlo fare. La questione è piuttosto «complicata», ha spiegato nel 2011 il francese Jacques Attali, considerato uno dei fautori del Trattato di Maastricht: «Ci si è accuratamente dimenticati di scrivere l’articolo del trattato che permettesse l’uscita da Maastricht». Il punto è: se un paese dell’eurozona dovesse avere la volontà politica di uscire dall’euro, con una decisione presa in modo inequivocabile e definitivo, gli altri paesi non potrebbero impedirglielo. Non c’è una procedura? Andrebbe trovata in quel momento. Ci sono tre strade possibili, perché un paese dica formalmente di avere la volontà politica di uscire dall’euro:
– un referendum, nei paesi in cui si possono fare referendum su questo tema (non in Italia, nonostante la proposta del Movimento 5 Stelle per la generica introduzione dei referendum consultivi);
– una revisione unilaterale di una parte dei Trattati (possibilità prevista dai Trattati stessi), decisa dal governo e dal Parlamento;
– un recesso secondo il diritto internazionale (l’articolo 62 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati prevede per esempio la cosiddetta norma “rebus sic stantibus”, per cui un cambiamento sostanziale rispetto alle circostanze in cui si è sottoscritto un trattato può portare alla possibilità di recesso da quello stesso trattato), anche questo deciso e votato da governo e Parlamento.
La risposta alla domanda iniziale è quindi: uscire dall’euro è tecnicamente (e giuridicamente) possibile, ma al momento non è previsto in modo esplicito. E questo non facilita la costruzione di un’eventuale volontà politica di farlo.
Ci sono dei precedenti?
No, per quanto riguarda l’eurozona. Molti, invece, se parliamo del cambio di valuta o dell’uscita da una moneta prima comune. Proprio mentre i paesi dell’UE ratificavano Maastricht, per esempio, la Cecoslovacchia decise di dividersi in Repubblica Ceca e Slovacchia, e i due paesi adottarono due monete nazionali differenti: la corona ceca e la corona slovacca (sostituita a sua volta dall’euro nel 2009). Un altro esempio è il Bangladesh, che dopo la separazione dal Pakistan adottò nel 1972 il taka bengalese al posto della rupia. Ci sono anche casi in cui le monete nazionali sono state cambiate: il Brasile (che è una federazione di ventisei stati più uno) nel luglio del 1994 sostituì il cruzeiro con il real.
Concretamente, come dovrebbe avvenire?
Lo studioso francese François Heisbourg – europeista, sostenitore del progetto federalista di un’unione europea e presidente del prestigioso International Institute for Strategic Studies (IISS), ma favorevole alla fine della moneta unica – ha scritto nel suo ultimo libro che «il piano di uscita dall’euro non sarebbe traumatico perché potrebbe essere attuato tecnicamente in un lungo weekend, a mercati chiusi». Questa tesi è condivisa da tutti, sia i favorevoli che i contrari: per uscire dall’euro senza gravi conseguenze bisognerebbe farlo con estrema velocità. Ma si può uscire dall’euro con estrema velocità, considerata la necessità di arrivare a una volontà politica precisa e individuare una procedura che al momento non c’è? Probabilmente no.
Economisti e studiosi contrari alla fine dell’euro sostengono infatti che i problemi comincerebbero non al momento dell’effettivo ritorno alla moneta nazionale, ma già al momento dell’annuncio dell’abbandono dell’euro, se non addirittura al momento di un potenziale annuncio: basti pensare che i mercati europei in questi giorni sono stati agitati non dalla vittoria di Syriza (che appunto si dice pro-euro) alle elezioni in Grecia o dalla fine dell’euro ma dal solo annuncio che la Grecia andrà a elezioni anticipate. I rischi per cui anche chi vuole uscire dall’euro insiste che andrebbe tutto fatto molto in fretta – fughe di capitali, prelievi di massa, collasso delle banche, tensioni varie, ricadute sull’economia globale – non si concretizzerebbero nel momento dell’uscita dall’euro bensì al momento della vittoria elettorale di un partito che vuole uscire dall’euro, o al momento della vittoria dei Sì all’eventuale referendum, o al momento del voto parlamentare sul recesso dal trattato di Maastricht. Oppure, più probabilmente, ancora prima.
Affinché i governi abbiano il tempo di stampare la nuova moneta e approntare la transizione, dovrebbero quindi controllare i movimenti di capitale e i viaggi in paesi esteri. Bisognerebbe fissare un tasso di cambio e soprattutto intavolare una trattativa con gli altri paesi dell’eurozona: i conti correnti andrebbero congelati fino alla loro conversione, perché altrimenti le banche sarebbero con ogni probabilità invase da correntisti desiderosi di estinguere i loro conti. Per poter operare la conversione dei salari e dei redditi nella nuova valuta, i governi dovrebbero inoltre approvare delle leggi specifiche (e averne il tempo), così come andrebbero ridenominati immediatamente anche i debiti. L’ipotesi di un’uscita, insomma, dovrebbe fare i conti con una fase di passaggio molto più lunga di un weekend, e durante la quale sarebbe irrealistico pensare di congelare i conti in banca, impedire i prelievi, i trasferimenti di capitale e i movimenti dei cittadini.
Una strada possibile?
Nel 2013 il Wall Street Journal ha pubblicato un articolo che spiega una possibile soluzione ai problemi di cui sopra prendendo come esempio la Grecia, ma dicendo che potrebbe valere per qualsiasi altro paese. L’articolo è stato scritto da Ross H. McLeod, professore di economia dell’Australian National University. McLeod spiega che gli scenari catastrofici si basano su cose date per scontate, che hanno però delle alternative.
«Il punto centrale è fissare la quantità iniziale della nuova moneta da emettere, permettendo invece al mercato di stabilire il prezzo al quale viene cambiata. In questo contesto, la Banca centrale annuncia che è disposta ad acquistare euro dalle banche nazionali, dai cittadini greci o da chiunque altro, usando le dracme appena emesse. Tutte queste transazioni dovrebbero avvenire in uno specifico periodo di transizione e dovrebbero essere completamente volontarie. Non si dovrebbe insomma esercitare alcuna confisca.
Terminato il periodo di transizione, il governo greco dovrebbe usare solo dracme nelle sue transazioni finanziarie di tutti i giorni. Nessuno dovrà essere costretto a usare le dracme, ma coloro che vorranno fare transazioni con il governo ne avranno bisogno.
All’inizio del periodo di transizione, la Banca centrale annuncerà il tasso di cambio iniziale al quale le dracme verranno cambiate con gli euro, senza fare esplicitamente alcuna promessa su come il tasso di cambio evolverà in futuro. Il tasso iniziale può essere totalmente arbitrario, così come il nome della nuova moneta».
Questa ipotesi teorizza dunque la coesistenza temporanea di due monete, l’euro e la moneta nazionale. La Banca centrale greca offrirebbe a chi vuole di cambiare i propri euro in dracme, fissando però una quantità limite di dracme disponibili (McLeod ipotizza che possa corrispondere alla quantità di moneta circolante in Grecia per un periodo di tre anni). Le vendite per il primo giorno potrebbero essere molto probabilmente zero, ma pian piano il fatto che il governo paghi solo in dracme farebbe aumentare il prezzo di acquisto e porterebbe più persone a cambiare almeno parte dei loro euro. Durante la transizione il governo continuerebbe a pagare i suoi debiti in euro: sia quelli che ha contratto con la comunità internazionale e i mercati, sia quelli che ha con i suoi fornitori nel paese. Alla fine della fase di transizione il prezzo delle dracme risulterebbe fissato dal mercato: ci sarebbe anche una domanda significativa di nuove dracme e una quantità sufficiente di nuove dracme in circolazione. Conclude McLeod:
«Una volta che ci saranno sufficienti dracme in circolazione, accanto allo “sportello della dracma” creato dalla Banca Centrale si formerebbe un mercato per scambiare dracme in euro e nel corso del tempo le dracme prenderebbero il sopravvento sull’euro. A quel punto, nel bene e nel male, la Grecia si troverebbe di nuovo nella condizione di avere una politica monetaria nuovamente indipendente».
Il problema di questo scenario è che se il prezzo delle dracme fosse fissato dal mercato – lo scopo di chi vuole lasciare l’euro è proprio permettere alla moneta di svalutarsi, così da rafforzare le esportazioni – alla fine della fiera l’ammontare del debito da ripagare non cambierebbe in meglio: sarebbe solo convertito in una valuta più debole. Inoltre, si tratta comunque un po’ di una rinegoziazione del debito: i detentori dei titoli di stato greci hanno comprato quei titoli sulla base di una promessa (ottenere dopo un tot di anni la cifra prestata più gli interessi, in euro) e quei soldi gli sarebbero restituiti in un’altra moneta, violando parzialmente quella promessa. Infine questa ipotesi dovrebbe trovare il consenso dell’eurozona: servirebbe quindi non solo la volontà politica della Grecia ma anche quello della Banca Centrale Europea.
 
28 Ottobre 2014 ore 06:30




“Alla fine sarà Berlino a uscire dall’euro”. Un autorevole leak

Separazione consensuale, l’Italia resta nella moneta bis. Girotondo di analisti: Lombardi, Pilati e Zingales




L’euro come lo conosciamo oggi potrebbe non esserci più tra qualche mese o al massimo entro un paio d’anni. Non perché decideremo di uscirne noi italiani, sempre più indebitati e ancora alla ricerca di un sentiero di crescita sostenibile e duratura. Ma perché l’euro – così com’è oggi – non sarà più ritenuto sostenibile in Germania, cioè nel paese in cui tutto è sembrato girare finora per il verso giusto, anche grazie alla moneta unica. Sarà Berlino ad abbandonare questo euro, per ragioni politiche prim’ancora che economiche, trascinando con sé un manipolo di paesi nordici consenzienti. L’Italia, più che tornare alla lira o a un’altra valuta nazionale, farà parte di una sorta di “euro 2”, assieme ad altri paesi cosiddetti “periferici”, forse perfino la Francia. E non sarà necessariamente un dramma.


Tutti gli interpellati, però, riflettono pure su un macroscopico ostacolo politico di nome “Francia”. “E’ la grande debolezza di questa ipotesi – ammette Zingales – Parigi economicamente non potrebbe stare al passo dei paesi del ‘neuro’. Il suo costo del lavoro per unità di prodotto è già aumentato del 20 per cento rispetto a quello tedesco. Una competizione delle merci italiane, per di più, le sarebbe fatale. Ma politicamente Parigi non potrebbe accettare quello che vivrebbe comunque come un declassamento. Aggiungo: nemmeno Berlino lascerebbe andare la Francia, probabilmente. Altrimenti la Germania, da sola, sarebbe vista come la Prussia di un ipotetico Quarto Reich”. Pilati aggiunge, concludendo: “Va considerata la debolezza politica ed economica proprio di quei paesi che avrebbero più vantaggi da una suddivisione dell’euro di questo tipo. Francia e Italia oggi sarebbero in grado di spingere la Germania a questo passo?”. La risposta, sottintesa, è “no”. Eppure sempre più spesso, pure nei circoli che contano, si fantastica su un’élite tedesca che a un certo punto, “più prima che poi” per citare l’Economist, possa parafrasare in maniera beffarda la frase di Giulio Andreotti sulla riunificazione delle due Germanie nel 1990: “Amo talmente l’euro che ne preferirei due”.
 
Ma un Paese può uscire dall’euro?
L’opinione dominante è che senza una modifica dei Trattati l’uscita dall’euro non sia possibile. Gli scenari che si possono prospettare sono però più di uno. Innanzitutto va detto che la permanenza nella moneta unica è strettamente legata a quella in Europa. Significa che non si può decidere di abbandonare la valuta comunitaria restando però allo stesso tempo nell’Unione Europa. O tutte e due, o niente.

Chi stabilisce quest’obbligo?
È quanto è scritto nelle regole fondanti dell’Unione. Il Trattato di Maastricht firmato nel 1992 ed entrato in vigore nel 1993 prevede infatti l’obbligo di adottare l’euro per tutti i Paesi che abbiano raggiunto i requisiti stabiliti dai criteri di convergenza (Trattato di Roma 1957).

Ci sono delle eccezioni?
Sono quelle negoziate dalla Gran Bretagna che nell’ambito della sottoscrizione del Trattato di Maastricht ha ottenuto la possibilità di essere membro della Ue e di mantenere la sterlina. Anche la Danimarca e la Svezia rappresentano analoghe eccezioni.

È possibile invece abbandonare l’Unione Europea?
Questa possibilità esiste. È un paradosso formalizzato dal Trattato di Lisbona firmato nel 2007 ed entrato in vigore nel 2009. Noto anche come Trattato di riforma, ha modificato i dispositivi di funzionamento comunitari. Ha infatti apportato ampie modifiche al Trattato sull’Unione europea e al Trattato che istituisce la Comunità europea.

Qual’è la procedura?
Il testo non scende nei dettagli nè definisce il percorso da adottare e finora questa procedura non è mai stata tentata da nessun Paese. Nel testo sono solo indicati i criteri generali che regolerebbero una simile ipotesi come, per esempio, l’obbligo di tenere negoziati e soprattutto la necessità che sia il Paese interessato a chiedere di uscire. Nei mesi scorsi, in Gran Bretagna si è parlato della possibilità di staccarsi da Bruxelles proprio guardando a questo contesto.

È possibile che uno Stato in default sia espulso dall’euro?
Si tratta di un’ipotesi non realizzabile. L’espulsione di uno Stato non è infatti prevista in nessun caso dai Trattati europei, né per quanto riguarda l’appartenenza all’Unione né per quanto attiene l’adesione all’euro. Anzi. Tutta l’impalcatura europea è orientata a far sì che il Paese in questione rientri nell’alveo della legalità europea e non a un estromissione di questo dall’Europa.

Dove porterebbe un eventuale cambio dei Trattati?
Una modifica delle regole fondanti dell’Unione europa richiederebbe procedure complesse per tutti i Paesi dell’Unione con conferenze intergovernative, che i mercati non apprezzerebbero affatto in una fase così delicata. Le difficoltà di mettere d’accordo tutte le capitali è elevata. In più sarebbero necessarie poi anche le rispettive ratifiche referendarie che non farebbero altro che rendere ancora più elevato il clima di incertezza intorno al destino dell’Europa.

Ma quante probabilità ci sono che la Grecia esca dall’euro?
È il tema con cui si stanno confrontando gli analisti finanziari in queste ore. Qualche risposta è già arrivata: per gli esperti della banca americana Citigruoup, la probabilità che la Grecia lasci l’area euro nei prossimi 12-18 mesi è salita al 50-75%, dal precedente 50%. Il pessimismo degli analisti è legato al quadro di forte incertezza uscito dalle urne elleniche. Per gli esperti è probabile che il Paese torni a votare già il prossimo 10 giugno, nell’ipotesi che Atene non riesca a creare una coalizione in grado di governare. Tuttavia per gli analisti di Citigroup la possibilità di una rottura dell’Unione monetaria europea rimane bassa.

Quali sarebbero le conseguenza della fine dell’euro?
Sull’ipotesi si sono esercitati in vario modo economisti e analisti. Le loro considerazioni vanno tutte nella stessa direzioni: il crac dell’euro scatenerebbe guai a catena, dai fallimenti di massa delle azienda alla svalutazione delle valute scelta in alternativa all’euro. Per fare un esempio, Ubs ha calcolato gli effetti dell’addio all’euro dell’Italia con il conseguente ritorno alla vecchia lira. Il risultato sarebbe una riduzione massiccia del 60% della «ritrovata» valuta italiana. Significa che - all’improvviso stipendi e pensioni degli italiani varrebbero meno della metà.
 
parere opposto: non condivido ma .. .. ..











6 settembre 2013

NON SI PUO' USCIRE DALL'EURO SECONDO I TRATTATI? FALSO. BASTA SAPERLI LEGGERE.



Alcuni concetti giuridico-interpretativi, che, nell'attuale situazione possono risultare molto importanti:

1) l'uscita dall'euro, intesa come delimitato recesso dallo status di "Stato membro la cui moneta è l'euro", senza simultanea fuoriuscita dall'Unione europea (quale specificamente prevista all'art.50 del Trattato sull'Unione-TUE), ha un fondamento normativo ricavabile deduttivamente dall'art.139 del Trattato sul funzionamento dell'Unione- TFUE;

2) ciò, in primo luogo, significa che la condizione di "Stato membro la cui moneta è l'euro" (espressamente enunciata dall'art.139 anch'essa, in contrapposizione a quella di "Stato membro con deroga"), non è obbligatoria, ma soggetta alla precondizione essenziale di una libera manifestazione di adesione in tal senso dello Stato interessato (che tale deve sempre rimanere);

3) ciò è confermato senza ombra di dubbio dal par.3 del successivo art.140, in quanto non solo la acquisizione dello status di "Stato membro la cui monetà è l'euro" consegue alla "richiesta" di tale Stato, ma la deliberazione ammissiva finale, DEVE essere adottata all'unanimità tra gli Stati già aderenti e lo stesso Stato "in deroga" che già ne abbia fatto richiesta;

4) la domanda, alquanto ingenua in termini logico-giuridici, ma resa attuale e cruciale dalla propaganda dei "banchieri" e politicanti che hanno il monopolio dell'interpretazione dei trattati, allora è: questo consenso, da manifestare sempre come presente e da attualizzare, può essere revocato, riconquistando, ovvero acquistando per la prima volta (per un paese originariamente aderente, come l'Italia), lo status di "Stato membro con deroga"?
5) la risposta, e cerchiamo di dirlo con sintesi, non può che essere positiva. Innazitutto, per ragioni letterali ancorate, appunto, all'art.139: questo dispone che "in deroga" sia lo Stato per il quale il Consiglio abbia deciso che non soddisfi le condizioni necessarie per l'adozione dell'euro. Il che, conferisce, contrariamente a quanto credevano i banchieri autori del trattato, alla "uscita" un altissimo grado di discrezionalità in capo allo Stato interessato;

6) ed infatti, il Consiglio "decide" la non ricorrenza delle condizioni di adesione all'euro, in base alla richiesta dello Stato membro dell'UE : tant'è vero che non solo nessuna norma prevede la partecipazione obbligatoria all'euro, ma che lo stesso art.140 condiziona alla richiesta-consenso successivo dello Stato in deroga la successiva ammissione. ERGO, LA DECISIONE DEL CONSIGLIO CHE ACCERTA LA "IDONEITA'" E' UN ATTO AMPLIATIVO E NON RESTRITTIVO DELLA LIBERTA' NEGOZIALE DELLO STATO CHE VOGLIA ADERIRE: COME TALE, RIMANE (per principio generale) NELLA DISPONIBILITA' DI QUEST'ULTIMO, CHE PUO' RINUNCIARVI E DECIDERE DI NON FRUIRE DELLA "PATENTE" DI PAESE CHE SODDISFA LE CONDIZIONI DI ADESIONE, REVOCANDO LIBERAMENTE QUEST'ULTIMA;

7) ciò, a maggior ragione vale nel caso in cui lo Stato-membro interessato si avveda, anche a seguito di continui richiami delle istituzioni UE-UEM, circa il mancato "mantenimento" di tali condizioni, di non soddisfare più i requisiti di adesione. Quella che, appunto, in special modo sotto il profilo dell'ammontare del debito, è la condizione attuale, ed anche originaria, italiana. Condizione ora aggravata dagli oneri del fiscal compact: ulteriore "trattato" la cui efficacia è ontologicamente e giuridicamente subordinata al possesso del (revocabilissimo) status di "Stato membo la cui moneta è l'euro";

8) insomma, tutto il trattato è congegnato in modo da delineare l'adesione all'euro come un "qualcosa in più" e di vantaggioso per il paese che vi aderisce, e, ad un "vantaggio", si può sempre rinunziare. Tanto più che tedeschi (e francesi), hanno più volte pubblicamente manifestato la posizione di considerare l'adesione italiana alla moneta unica come un sacrificio cui si sottoponevano in una pretesa prassi cooperativa, senza, inoltre, aver mai lamentato o sostenuto qualunque inadempienza dei paesi "in deroga" che non avessero ancora espressamente richiesto di aderire;

9) quindi la "decisione" del Consiglio circa la soddifazione delle condizioni necessarie per l'adesione, vale, più che mai, come "rebus sic stantibus" e, per espresso dato normativo e sistematico del trattato, non può mai considerarsi "definitiva" e irreversibile, rimanendo, per coerenza con quanto accade in sede di adesione "successiva" ai sensi dell'art.140, subordinata alla perdurante unanimità di consenso che include la altrettanto perdurante volontà positiva dello Stato già aderente;

10) la fuoriuscita dall'euro, per revoca del proprio libero consenso (che tale deve rimanere nel tempo), consente allo Stato che manifesti tale volontà di accedere allo status di membro dell'Unione "con deroga". Ciò implica che vengono meno, ai sensi dello stesso art.139, non solo i vincoli del fiscal compact, ma anche quelli, espressamente enunciati dall'art.139, derivanti dalle norme che "non si applicano" agli Stati "con deroga". Tra essi spicca anche il mancato assoggettamento ai "mezzi vincolanti per correggere i disavanzi eccessivi, art.126, par. 9 e 11";
11) Fuoriusciti così da tutti i ricatti e le ipocrisie (disomogenei) esperibili contro l'Italia in caso di "disavanzo eccessivo" (lo vuole l'Europa), persino il nodo della banca centrale indipendente troverebbe ridefinizione. E' pur vero che il divieto di acquisto del debito pubblico (e gli altri divieti di azione della banca centrale nei confronti degli enti pubblici, in generale), ai sensi dell'art.123 TFUE, permangono anche in caso di Stato membro "con deroga", ma:
a) sarebbe possibile modificare la legislazione interna per consentire alla nostra BC di compiere questi interventi sui titoli sovrani (come fa la Bank of England), dato che l'adeguamento di tale legislazione è controllato dalla UE proprio in vista della futura adesione: e dunque la sanzione all'inadempimento sta nel non rinnovare la decisione del Consiglio di ammettere il paese in quella moneta unica da cui...si è appena voluti uscire. Cioè, non c'è un vero ostacolo giuridico, come dimostra la tranquilla azione di QE e di acquisto del debito perseguita da 2 anni dalla BOE;
b) sarebbe sempre possibile, comunque, che bankitalia agisse come...i tedeschi: cioè sottraendo dalle aste i titoli non collocati al tasso desiderato, trattenendoli in un "atipico" deposito e poi acquistandoli come "se fossero" già sul mercato secondario (una finzione cui finora nulla è stato mai opposto e che, comunque, fa leva sul fatto che tale acquisto "non diretto" non è vietato dai trattati).

Risolte "questioncine" come:
- il recupero della flessibilità del cambio (e della conseguente competitività di "prezzo"...anche su un "mercato unico" ove si riaprirebbero molte prospettive);
- l'assoggettamento al fiscal compact con i suoi esborsi, per noi paradossali ed esorbitanti, per la contribuzione ai vari fondi di salvataggio per gli Stati "la cui moneta è l'euro": oltre a non aggravare il nostro debito con ulteriori "ratei", ci andrebbero restituiti circa 45 miliardi e scusate se è poco...specie di questi tempi;
- il non doversi più preoccupare del pareggio di bilancio - con la "costituzionalizzazione" ce la possiamo vedere "all'interno", in termini di violazione dei principi fondamentali della Costituzione da parte della legge di "revisione"-, delle procedure di "deficit eccessivo, (di cui certo, nemmeno ora, si preoccupano Francia e Spagna);
- la incertezza del collocamento del debito, con possibilità di calmierazione, per più vie, dell'onere degli interessi (e poi, anche qui, la collocazione istituzionale della banca centrale ce la potremmo vedere con tutta una serie di norme nazionali e non più "volute dall'Europa", quindi democraticamente modificabili);
SI RICOMINCEREBBE A RAGIONARE. ANZI, A RESPIRARE.
 

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